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ISRAELE, LA SFIDA DI HAMAS, L'ECLISSE DI AL FATAH
Janiki Cingoli

Lo scontro in atto tra Israele e Hamas è profondamente diverso da quello del 2008, dell'operazione "Piombo fuso". Allora George Bush non fece nulla per fermare l'operazione; Mubarak tenne sigillato il confine di Rafah; gli altri governi arabi restarono a guardare, e solo il turco Erdogan, che stava mediando tra Olmert e il siriano Assad, prese l'attacco come un affronto personale ed iniziò il processo di distacco culminato poi nella rottura. Solo Al Jazeera trasmise in diretta le terribili immagini della distruzione, suscitando una ondata di emozione la cui onda lunga sarebbe arrivata a Piazza Tahrir.

Oggi il quadro è del tutto diverso: l'arco sunnita si è rafforzato ed ha esteso il suo potere. I Fratelli musulmani, allora perseguitati, sono al governo in Egitto, Tunisia, Marocco, ed il loro alleato Erdogan controlla la Turchia. Hamas fa a pieno titolo parte della "Umma" sunnita, ne è un partner rispettato. Gli viene riconosciuto il merito di aver riportato al centro dell'attenzione la questione palestinese. I vertici e gli incontri che in questi giorni si sono succeduti al Cairo, con il Presidente Morsi, Erdogan e l'Emiro del Qatar Al Thani, hanno incluso il leader di Hamas, Meshal, nel gruppo di punta dello schieramento, mentre i leader delle altre nazioni arabe e della stessa Lega araba fanno la coda per portare a Gaza la loro solidarietà.

Quanto agli Stati Uniti, Obama è stato riconfermato Presidente, contro le aspettative e i desideri di Netanyahu, e farà di tutto per scongiurare un'escalation di terra, malgrado la riconfermata solidarietà a Israele, di cui ha sottolineato il diritto all'autodifesa.

Anche Israele pare avere meno fretta. I missili su Tel Aviv e Gerusalemme danno da pensare, per quanto imprecisi, e ancora di più, dopo la rottura con la Turchia, il rischio di andare ad uno scontro anche con l'Egitto di Morsi, che possa mettere in discussione lo stesso Trattato di Pace di Camp David. Israele ha reagito alla ripresa dei lanci di razzi e missili da Gaza, ed era suo diritto farlo: ma si è trattato di un riflesso in qualche modo pavloviano, che forse non ha tenuto a sufficienza conto di questo nuovo quadro regionale e internazionale che sta emergendo. Non è detto che l'operazione avviata non diventi una trappola, per il Premier israeliano, anche in vista delle elezioni del prossimo gennaio. Hamas, oramai, non si accontenta più di una semplice tregua, vuole la liquidazione del blocco alle sue frontiere, vuole che il suo controllo su Gaza si solidifichi in una struttura statuale accettata e stabile. Netanyahu forse dovrà cedere: egli sconta oggi la sua mancanza di lungimiranza, l'aver ricercato l'obiettivo a breve di qualche chilometro quadrato di terra in più da rosicchiare in Cisgiordania, invece di perseguire l'accordo con la leadership moderata di Al Fatah.

Sull'uscio resta Mahmoud Abbas, il Presidente della Autorità Palestinese. Il suo emissario incaricato di seguire le trattative, Nabeel Shaath, sta sullo strapuntino, mentre i negoziati avvengono per via indiretta tra Israele e Hamas, con la mediazione egiziana.

La stessa iniziativa politica di Abbas, in vista dell'Assemblea Generale dell'ONU del 29 novembre, sembra improvvisamente marginale e astratta, malgrado le minacce di ritorsione israeliane e americane. Abbas e il suo Partito, Al Fatah, sono diventati irrilevanti e residuali, nel mondo arabo e anche nelle piazze della Cisgiordania, che hanno visto ricomparire i manifestanti con le bandiere verdi dei movimenti islamici. Non si tratta, probabilmente, di un fenomeno contingente: Fatah è espressione di una diversa fase storica, quella del nazionalismo arabo e dei movimenti di liberazione nazionale di imprinting sovietico. Abbas è certamente più vicino a Mubarak, che a Morsi.

Di fatto, la possibilità di giungere alla realizzazione dei due Stati, Israele e la Palestina, pare oggi sempre meno attuale: Fatah non controlla Gaza, e non ha prospettive di riuscirci. È possibile il contrario, che Hamas prenda il controllo anche della Cisgiordania, riunificando i due spezzoni palestinesi. Israele allora si troverà a trattare con questo nuovo e difficile interlocutore, come d'altronde ha già fatto per Shalit, liberando 1000 prigionieri palestinesi, e come fa in questi giorni al Cairo. Come se l'unico linguaggio che è disposto ad ascoltare fosse quello della forza. 

 

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