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CRISI E MALCONTENTO SOCIALE IN EUROPA

Una triste realtà si presenta ai nostri occhi ed è la constatazione che per la prima volta nella storia recente i giovani europei si trovano di fronte a prospettive di vita peggiori di quelle che hanno avuto i loro genitori. Di certo, lo stile di vita di buona parte dei cittadini sta cambiando, dovendosi adattare a una situazione economica che indebolisce inesorabilmente le certezze passate. Ciò che fino a pochi anni fa pareva garantito (lavoro, pensioni, diritto di cura) non lo è più ed è presumibile che non lo sia in futuro. Sono le conseguenze della crisi finanziaria globale iniziata nel 2008, che ha portato con sé il crollo del potere d’acquisto e la drammatica perdita di posti di lavoro, sia nei settori tradizionali dell’industria manifatturiera sia nei servizi.

La situazione del nostro Paese è degna di attenzione. Un recente e documentato lavoro di ricerca analizza il passato e riflette con una buona dose di preoccupazione sul presente e il futuro del benessere degli italiani. Ne In Ricchezza e povertà. Il benessere degli italiani dall’Unità a oggi, Giovanni Vecchi, docente di Economia Politica all'Università Tor Vergata di Roma, propone una storia d'Italia vista secondo la ricchezza dei suoi abitanti, scritta analizzando ben 20mila bilanci familiari e confrontandoli con indagini dell'Istat e della Banca d'Italia. Il quadro che emerge è chiaro: l’Italia è un paese cresciuto nei decenni passati a ritmi sostenuti, ma che da tempo sta rallentando e oggi, in tempi di recessione, va incontro al declino.

A risentire degli effetti della crisi sono le fasce più deboli della popolazione, mentre aumenta in maniera inquietante l’area grigia di coloro che si stanno impoverendo e temono di perdere la relativa agiatezza conquistata. Di particolare interesse l’analisi che Vecchi dedica alla vulnerabilità alla povertà, che coglie un aspetto cruciale dell’insicurezza che colpisce la nostra società, ossia la probabilità di diventare poveri in futuro. E’ vulnerabile non solo chi è già indigente, ma anche chi rischia di diventarlo. Le stime mostrano che la vulnerabilità alla povertà si diffonde su ampia scala, se si considera che già agli inizi degli anni novanta del secolo scorso riguardava quasi la metà della popolazione e che la situazione sembra volgere al peggio, soprattutto alla luce della cronica stagnazione del Pil italiano e degli effetti persistenti della crisi. In altre parole, si assiste alla proletarizzazione di larghi settori della classe media, un fenomeno in atto da tempo ma che sta accelerando negli ultimi durissimi mesi.

Un periodo segnato nel nostro Paese dall’azione di un governo tecnico che, se da un lato ha conquistato consensi in sede europea e aumentato la credibilità internazionale dell’Italia, dall’altro ha somministrato una severa “cura da cavallo” a una economia già in difficoltà. Colpito da nuove imposte e dall’aggravio delle tariffe, il potere d'acquisto degli italiani è sceso di oltre il  4% rispetto allo scorso anno (dato Istat), così come il reddito disponibile, assottigliato dall'inflazione e dal blocco degli stipendi.

Non stupisce che aumenti il senso di insicurezza, la frustrazione e anche il risentimento di gran parte dell’opinione pubblica nei confronti delle classi dirigenti economiche e politiche, considerate le principali responsabili dell’attuale situazione. Il malcontento è talmente diffuso che dalla piazza si è trasferito alle urne, come dimostra il successo elettorale di quelle forze politiche di recente formazione che si scagliano contro i partiti tradizionali, in grave difficoltà e in netto calo di consensi. Un esempio su tutti, il Movimento Cinque Stelle di Beppe Grillo, che ha ottenuto sorprendenti affermazioni nelle elezioni amministrative della scorsa primavera ed è dato in costante ascesa nei sondaggi di opinione.

Spesso ci si riferisce a questi movimenti, diffusi in tutta Europa, definendoli populisti o espressione della cosiddetta antipolitica, ma non è facile accomunare sotto un’unica etichetta gruppi e correnti di opinione che poco hanno da spartire tra di loro, se non l’opposizione alle istituzioni che guidano il mondo occidentale. Per certo, questi movimenti guadagnano consensi in tutti i settori sociali e sono visti da un numero crescente di cittadini come l’unica alternativa a un sistema partitico europeo ritenuto poco credibile. Da qui il successo dei partiti politici minori, sia di destra che di sinistra, nelle elezioni che si sono tenute di recente in Grecia, Francia, Germania, Scandinavia e Gran Bretagna. Anche se non mancano frange estremiste, è evidente che molte di queste forze sono oggi in sintonia con le opinioni e i sentimenti di un’opinione pubblica delusa e arrabbiata che chiede il cambiamento, anche se spesso in maniera confusa.

Grandi protagonisti del dissenso sono i giovani. Accusate di non sapersi accontentare degli impieghi meno qualificati offerti dal mercato del lavoro e di non volersi impegnare nella “cosa pubblica”, le nuove generazioni stanno partecipando attivamente ai moti di protesta che si diffondono in tutta Europa (pensiamo alle grandi manifestazioni degli Indignados spagnoli) e utilizzano i nuovi media per far sentire la loro voce nell’arena politica. E’una generazione istruita e piena di competenze, che si rende conto di essere tra le vittime della crisi economica globale, che rivendica il diritto a costruirsi un futuro e di far sentire la propria voce. Spesso la politica ufficiale è sorda alle richieste dei nuovi movimenti politici che utilizzano internet e i social media per criticare e presentare proposte alternative. I due mondi non comunicano: mentre i politici partecipano a solenni conferenze e si concentrano su grandi quanto indefinite tematiche, come la riforma dell’Unione Europea e il destino della moneta unica, i giovani europei esprimono non solo preoccupazione per il proprio destino lavorativo ma anche la  volontà di dare un contributo alla discussione democratica.

E’ proprio da qui che si può ripartire. Se le risorse economiche declinano, lo stesso non può dirsi del capitale umano. Le nuove generazioni, “costrette” a riscuotersi dall’apatia del benessere costruito dai loro genitori ma ora messo in dubbio, possono infatti contare su un livello di istruzione e di accesso agli strumenti tecnologici senza precedenti. Se è vero che il populismo, l’antipolitica e la ricerca del capro espiatorio (gli speculatori, i politici, le banche) possono avere effetti negativi sulla coesione democratica, è altrettanto vero che la ripresa della partecipazione pubblica, se compresa e considerata, può migliorare l’offerta politica e a responsabilizzare i governanti. In democrazia chi detiene il potere ha il dovere di decidere, ma la politica dell’austerity rischia di imboccare un vicolo cieco se non tiene conto dei bisogni e delle opinioni della maggioranza dei cittadini. (Fabio Lucchini)

Box: La disoccupazione giovanile in Europa

I livelli della disoccupazione in diversi paesi europei, Grecia, Spagna e Italia in particolare, mettono in rilievo la necessità di interventi governativi per facilitare l’accesso all’impiego da parte dei giovani. Recentemente l’Ocse, l’organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico che riunisce buona parte dei paesi industrializzati, ha reso pubblici dati davvero allarmanti. Nell’area dell’euro i giovani disoccupati tra i 15 e i 24 anni raggiungono il 22% del totale, ma se in Germania rappresentano solo l’8% nei paesi mediterranei il quadro è ben peggiore. In Spagna e Grecia un giovane su due è senza occupazione, in Italia uno su tre.

L’emergenza è tale che molti analisti si stupiscono della relativa calma sociale nei paesi in maggiori difficoltà economiche, in particolar modo del basso livello di intensità delle proteste nelle città italiane. La spiegazione è dovuta al fatto che il 70% dei giovani tra i 15 e i 24 anni si dedicano principalmente allo studio e che pertanto i dati Ocse andrebbero corretti. Infatti, il tasso di disoccupazione giovanile calcolato senza includere coloro che ancora studiano è decisamente più basso e si attesta in Italia intorno al 20%. Una buona notizia? No di certo.

In primo luogo, come risultato della crisi economica la percentuale di giovani tra i 15 e i 24 anni che non lavora e non studia sta aumentando quasi ovunque in Europa e in Italia è salita di oltre tre punti solo nell’ultimo anno. In secondo luogo, nessuno può sottovalutare il dramma di una fascia consistente di under 25 senza alcuna opportunità lavorativa e a rischio di esclusione economica e sociale. Senza contare gli effetti negativi sulla sostenibilità dell’attuale sistema pensionistico e previdenziale. E’ importante interpretare correttamente i dati per evitare di cedere all’allarmismo, ma è altrettanto urgente porre in essere politiche che agevolino l’accesso all’impiego dei giovani disoccupati e di quelli inattivi. (F.L.)

 

 

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