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CHI HA PAURA DEL FANTASMA TURCO

Il dissenso tra gli Usa e l'asse Parigi-Berlino sul futuro europeo di Ankara

Enzo Bettiza, La Stampa, 7 aprile 2009,

L'ombra della Turchia si è inserita, con tutto il suo peso enigmatico, nel primo incontro del neopresidente americano con i 27 leader dell'Unione europea. Il suo fantasma erratico si è profilato come un improvviso convitato di pietra al gran banchetto di Praga, rovinando l'atmosfera di festa e di apparente concordia tra la nuova amministrazione di Washington e il nucleo duro europeo, l'asse Sarkozy-Merkel, che aveva già preso le distanze da Obama nel corso del G20 di Londra.

La contrapposizione tra una Casa Bianca che invita gli europei ad aprire le porte ad Ankara e l'Eliseo che rifiuta di schiuderle ha fatto riemergere, di colpo, un nodo tradizionale e mai chiaramente sciolto delle politiche occidentali: nello scontro sulla questione turca tra Obama e Sarkozy si è ripetuto, pari pari, lo stesso dissidio già a suo tempo acuto tra Bush e Chirac. Il presidente francese ha ribadito per l'ennesima volta, con inequivocabile chiarezza, il veto di Parigi, mentre l'americano tornava a ribattere che l'unico modo di ancorare la Turchia all'Occidente era quello di farla entrare a pieno titolo nel concerto europeo. La cancelliera Merkel, pur appoggiando nella sostanza Sarkozy, nella forma è stata più levigata ricordando che l'Ue sta valutando tempi e modi di una trattativa graduale, che potrebbe garantire ai turchi una «partnership privilegiata» in alternativa all'adesione piena. Il presidente del Consiglio italiano, che vanta un'amicizia personale con il premier turco Erdogan, si è inserito una volta di più da mediatore nel gioco dei grandi ventilando il progetto di un compromesso di non facile attuazione: accettare l'ingresso di Ankara, rinviando però a data indeterminata l'alluvione dei migranti anatolici sui mercati di lavoro europei.

Tutti discorsi a lunga gittata politica e tecnica. Basti pensare che la scadenza di una possibile affiliazione della Turchia all'Europa, come partner o di socia, potrebbe scattare appena tra il 2015 e il 2017. Comunque, a parte il calendario, il problema resta serio e spinoso. La situazione interna in area anatolica è tutt'altro che chiara. Il partito della Giustizia e dello Sviluppo di Erdogan (Akp) è uscito severamente limato dal voto delle elezioni amministrative del 29 marzo, al quale il primo ministro dava un valore di referendum sul suo operato. Non battuto dai rivali, l'Akp è però sceso al 39% dal 47 raggiunto alle elezioni politiche del 2007, con la perdita di 12 città, tra cui due importanti centri urbani curdi nel Sud-Est del Paese.

Alle spalle di questa sottrazione elettorale, di sensibile valore simbolico e psicologico, rimangono tre problemi pesanti e sempre irrisolti: il rapporto del governo con l'incombente irredentismo dei partiti curdi, il rafforzamento dei gruppi fondamentalisti più aggressivi e, in particolare, la tensione mai spenta tra il partito dominante e il contropotere rappresentato dalle forze armate che si ritengono garanti del laicismo kemalista e non vedono di buon occhio né il capo del governo Erdogan né il presidente della Repubblica Abdullah Gul. I generali antireligiosi continuano in sostanza a diffidare dell'uno e dell'altro, sospettati di voler imporre con manovre morbide la legge della sharia e del velo banditi dal fondatore della Repubblica secolare, Atatürk.

Sul piano economico la Turchia di Erdogan, importante piattaforma di passaggio energetico per l'Europa, aperta all'economia di mercato, intenta agli scambi commerciali anche in questo periodo di crisi, è un Paese in sviluppo che merita attenzione e collaborazione dall'Ue. Ma la sua schizofrenia d'identità, oscillante tra costumi islamici di ritorno e codici democratici non sempre rispettati, suscita nella metà degli Stati europei impulsi di precauzione profilattica se non di rigetto. Si aggiunga la polveriera di Cipro, col divieto turco di aprire porti e scali a navi e aerei ciprioti greci, e si avrà un quadro d'insieme quanto mai problematico. Ecco perché i negoziati per l'associazione turca all'Europa, avviati tra mille cavilli e perplessità nel 2005, tendono ad allungarsi all'infinito.

In verità Erdogan e Gul, pur imponendo il velo alle rispettive mogli, hanno appianato diversi ostacoli per sgombrare la strada che un giorno potrebbe condurre 70 milioni di musulmani nell'ambito di Bruxelles. Purtroppo, sull'argomento che permane scottante, non c'è più oggi in Turchia l'unanimità d'una volta. Almeno un terzo di turchi, delusi dalle lungaggini del negoziato, urtati dai persistenti monitoraggi europei sui diritti civili delle minoranze etniche e religiose, non considerano più l'approdo comunitario come qualcosa d'inevitabile. Altresì mezza Europa non considera auspicabile l'aggregazione della Turchia, e il fronte del rifiuto assomma al «no» secco della Francia il «ni» ambiguo della Germania, le due locomotive di punta del recalcitrante convoglio europeo. Insomma, nonostante le molte e clamorose affermazioni di Erdogan, un tempo lodato come efficiente liberista dalla grande stampa anglosassone, il dubbio dopo le recenti elezioni amministrative è tornato a dilagare di là e di qua dai Dardanelli.

Intanto il dilemma che, da Bush a Obama, continua ad assillare gli americani, resta essenzialmente strategico e connesso all'incubo del terrorismo. Washington teme che la Turchia, abbandonata dall'Europa, possa sprofondare interamente nell'Asia minacciando di diventare con il suo notevole peso demografico e militare una delle più importanti e insidiose componenti dell'Islam contemporaneo. Già l'islamologo americano Daniel Pipes ammoniva: «Il fatto che un pezzetto del territorio turco sia in Europa non rende completamente europea la Turchia».


Data: 2009-04-07







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