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MA L’AMERICA SA SEMPRE CORREGGERSI

A fronte delle sistematiche violazioni dei principi costituzionali perpetrate dall'amministrazione Bush, il sistema Usa ha comunque retto

Vittorio Emanuele Parsi, La Stampa, 13 luglio 2009,

Dopo Guantanamo e il Patriot Act (con le gravi limitazioni dei diritti civili che conteneva), siamo arrivati a una sorta di Special Branch della Cia, che di fatto rispondeva solo a Dick Cheney. Cheney, il vicepresidente di George W. Bush, da molti ritenuto il vero falco dell'amministrazione, l'uomo di più alto grado e di maggiore autonomia fra i tanti sensibili alle tesi neocon, il più risoluto all'indomani dell'11 settembre, secondo l'allora «zar» della sicurezza Dick Clarke, a indicare in Saddam Hussein il mandante degli attentati newyorchesi, avrebbe avuto a disposizione una Cia tutta sua. O quantomeno sarebbe stato l'unico destinatario di una serie di rapporti riservati, arrogandosi un potere di veto sulle informazioni disponibili per il Congresso che la Costituzione degli Stati Uniti non gli riservava in alcun modo.

A mettere insieme tutto questo, la prima riflessione che sovviene è semplice: ci è andata ancora bene. Ci è andata ancora bene che, a fronte di così tante e sistematiche violazioni dei principi e della prassi costituzionale degli Stati Uniti, il sistema nel suo complesso abbia retto. Abbia retto al punto da consentire l'elezione di un presidente ben diverso, come Barack Obama, il cui avvento alla Casa Bianca appare sempre più come provvidenziale. Più laicamente, si potrebbe osservare che i sistemi costituzionali ben congegnati, esattamente come le barche ben disegnate, riescono ad autocorreggere, perlomeno entro certi limiti, gli sbandamenti, gli scarrocci e lo scadere della rotta. Mai come in questi mesi è apparsa centrale la misura che vieta a un presidente di restare in carica per più di due mandati. Per tutte le volte che questa norma, introdotta dopo l'eterna presidenza di Franklin Delano Roosevelt, è stata maledetta in America e altrove, per lo spreco di talento che essa comporta (si pensi a Reagan o a Clinton), è proprio in momenti come questo che occorre renderle omaggio. Perché il fatto che il Commander in chief, dopo al massimo otto anni, torni a essere un Mr. Smith qualunque può darsi che non sia sufficiente a ricordare a ogni funzionario che la sua prima lealtà consista nel servire la legge. Ma di sicuro rende molto probabile che, allo scadere del periodo, le magagne saltino fuori.

Staremo a vedere, nelle prossime settimane, che cos'altro emergerà su questa brutta vicenda. E tutti speriamo che non finisca «buttata in politica», ma che invece venga fatta luce con fermezza e imparzialità. Al di là della constatazione che le cose potevano andare peggio di quanto si sia verificato, si rafforza il dubbio che le procedure per reagire a uno stato di gravissima emergenza come quello scaturito dall'11 settembre debbano essere riviste. Tornano a suonare profetiche le parole di Bruce Ackerman, professore di diritto e scienza politica a Yale, che in un gran bel lavoro di tre anni fa (Prima del prossimo attacco) proponeva il varo di una «Costituzione d'emergenza », che permettesse sì al governo federale di «intraprendere azioni eccezionali per contrastare il rischio di nuovi attacchi », ma allo stesso tempo «impedisse l'adozione di misure permanenti» a detrimento delle liberta civili. Ackerman sosteneva che l'adozione alla luce del sole di misure eccezionali, sottoposte a una serie di scrutini da parte del Congresso a tempi predeterminati e improrogabili, e con quorum di maggioranza sempre più elevati, fosse di gran lunga preferibile alla forzatura interpretativa delle norme esistenti da parte di Corti e apparati esecutivi o dell'introduzione a titolo definitivo di norme eccessivamente restrittive della libertà. Questa volta ci è andata bene, appunto. Ma la prossima?


Data: 2009-07-13







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