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WHAT AMERICA MUST DO? - 4
Nella quarta puntata dell’inchiesta “Che cosa deve fare l’America ?” a proporre la sua analisi è Jessica T. Mathews, presidente del think tank statunitense Carnegie Endowment for International Peace



Mentre la corsa per le presidenziali americane continua serrata, gli Stati Uniti si interrogano sull'immagine che danno di sé nel mondo, partendo dal riconoscimento che il Paese oggi non gode più del rispetto e dell'ammirazione che raccoglieva in passato. A condurre l'inchiesta è stata l'autorevole rivista statunitense Foreign Policy che ha pubblicato le analisi di esperti mondiali di Politica Internazionale ai quali è stato chiesto: “Che cosa il nuovo presidente americano dovrebbe fare per migliorare il consenso internazionale nei confronti dell'America?”. Le relazioni che gli Usa hanno oggi con molteplici Stati del globo sono contaminate da rabbia, rancore e paura, sentimenti che hanno sostituito quelli di amicizia e stima che fino alla metà del secolo scorso erano la risposta alla politica di Washington oltreconfine. 

Leggi le puntate precedenti

UN NUOVO RAPPORTO CON LA SIRIA

Nella quarta puntata dell'inchiesta “Che cosa deve fare l'America ?” a proporre la sua analisi è Jessica T. Mathews, presidente del think tank statunitense Carnegie Endowment for International Peace, secondo la quale «il prossimo presidente americano dovrebbe riaprire la strada verso Damasco», intendendo con queste parole un'apertura diplomatica da parte di Washington nei confronti della Siria. Questo perché, spiega Mathews, «sebbene la Siria non sia la chiave per risolvere ogni crisi in Medio Oriente – come quella in Iraq, in Libano, nei territori israelo-palestinesi, o in Iran – ha il potere di sollecitarne progressi».
«Basta pensare alla sua posizione geografica – continua la studiosa –  e, quindi ai suoi confini con Israele, Iraq, Libano e la parte curda della Turchia, per comprendere che la Siria è centrale per la pace in Medio Oriente.

Considerando inoltre l'amicizia, durevole benché insolita, tra il secolare regime sunnita di Damasco e quello sciita dei mullah di Teheran, l'importanza della Siria è indiscussa». L'ancestrale rivalità tra sunniti e sciiti, derivante da una diversa concezione di alcuni dogmi islamici, pare sopita nel caso di Siria e Iran.
«Certamente – ammette Mathews – ci sono numerose ragioni per le quali bisogna guardare al regime di Bashar al-Assad con sospetto. Gli omicidi (politici) sostenuti dalla Siria hanno portato il Libano sull'orlo del collasso e i recenti raid israeliani hanno sollevato voci circa un possibile piano segreto nucleare di Damasco. Bisogna osservare, tuttavia, che lo stesso governo ha aperto un'ambasciata a Baghdad, ha accolto oltre un milione di rifugiati iracheni, si è seduto al tavolo delle trattative alla conferenza di pace di Annapolis (patrocinata dagli Usa), ha posto un freno, negli ultimi mesi, al passaggio di terroristi stranieri diretti in Iraq.

Ciononostante Washington ha sbattuto la porta in faccia a Damasco e alla possibilità di relazioni con il Paese».
 La presidente del Carnegie Endowment for International Peace non esita dunque a bacchettare la strategia diplomatica dell'amministrazione di George W. Bush che, dettando le precondizioni al dialogo, pretende di imporre i propri risultati prima delle negoziazioni. Seguendo questo atteggiamento, volto a isolare  regimi come Cuba e l'Iran, Bush avrebbe soltanto favorito la reciproca diffidenza. Da ormai diversi anni la Siria cerca un dialogo con Washington – rileva Mathews – Un anno fa un consulente di prim'ordine di Assad affermò, di fronte a un gruppo di diplomatici internazionali, che per la Siria impegnarsi in «negoziazioni significa presentarsi al tavolo delle trattative con tutto quello che siamo e abbiamo, incluse le nostre amicizie».
Affermazioni che rivelavano la disponibilità della Siria a trattare anche offrendo l'influenza esercitata dal governo siriano sull'Iran, sui palestinesi di Hamas e i guerriglieri libanesi di Hezbollah. Una disponibilità, quella della Siria, resa palese dalle successive dichiarazioni del ministro degli Esteri siriano e dell'ambasciatore di Damasco negli Stati Uniti che hanno chiaramente espresso il desiderio di un dialogo senza precondizioni con gli americani.    

«Che cosa allora sta aspettando Washington?» si chiede retoricamente la presidente dell'istituto di studi internazionale, che successivamente esplicita la risposta delineando i motivi per i quali l'amministrazione americana oppone resistenza a una diplomazia attiva con la Siria. «Innanzitutto – spiega Mathews – il governo di Bush ritiene che parlare con gli Usa sia un “merito” che Damasco non ha ancora guada...


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