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IN RUSSIA NON C'E' DEMOCRAZIA, GOVERNA IL KGB

di Sandro Orlando (Europeo)


 Chi aveva ucciso Aleksandr Litvinenko? C'era l'ombra del Cremlino dietro la sua morte? Erano stati gli uomini dei servizi ad avvelenarlo con una dose di polonio radioattivo versata nel té, in un bar di Piccadilly? E quali erano le "rivelazioni deva-anti" che questo ex agente del Kgb credeva di poter fare sulla vicenda Yukos? Poco prima di morire il tenente colonnello era vola a Tei Aviv per mettere in guardia Leonid Nevzlin, il braccio de-ro di Mìkhail Khodorkovskij, ormai riparato in Israele: esisteva il serio un piano di Mosca per estorcere denaro dai vertici di quel-che un tempo era il primo colosso petrolifero privato della Russia, con una campagna di intimidazioni e omicidi? Oppure nelle di Litvinenko erano le classiche panzane degli ex 007 che si aadagnano da vivere fabbricando dossier fasulli? Questo e altri listeri avrebbero dovuto chiarire Alex Goldfarb e Manna itvinenko, l'amico della vittima e la sua giovane vedova, nella :eneggiatura che era già stata acquistata per 2 milioni di dollari alla Columbia Pictures: Morte di un dissidente, questo il titolo, immetteva dì essere un successo. Ne erano convinti anche i pro duttori della Warner Bros, che invece avevano affidato ad Alan Cowell, il capo della redazione di Londra del New York Times, la ricostruzione della vita di Litvinenko, con Johnny Depp come pro­tagonista. Non sarebbe stata un'impresa facile, mettere insieme tutti i pezzi di questa spy story. Anche perché, a raccontarla tutta, era necessario partire da molto lontano .  Almeno da quella notte, il 9 settembre del 1999, in cui le bombe ave­vano iniziato a esplodere alla periferia di Mosca, e interi edifici era­no stati rasi al suolo, con il loro carico di vite umane. Tra questo at­tentato e quello che sarebbe seguito, a quattro giorni di distanza, in un altro sobborgo della capitale, sarebbero morte più di 300 perso­ne. Uccise nel sonno. In quel settembre del '99 era cominciato il "terrore che viene dal di dentro", come recitava il sottotitolo di un libricino pubblicato quasi clandestinamente da Litvinenko nel suo esilio all'estero (Bfowing up Russia. Terror from Within, ora tra­dotto da Bompiani). Un libro che denunciava le stragi di Stato or­ganizzate dagli organi di sicurezza. Nel giro di poco sarebbero ini­ziate le grandi manovre per invadere la Cecenia. Si erano dunque creati tutti i presupposti per l'ascesa al potere del nuovo dittatore. II russo, l'ex capo del Federalnaja Sluzhba Bezopasnosti (Fsb), l'intelligence interna, Vladimir Putin. La sua vittoria, alle elezioni presidenziali del marzo 2000, segna in effetti l'inizio di un golpe strisciante che porta nel giro di un paio d'anni al ristabilimento della "vertikal vlasti", la verticale di potere che per secoli ha consentito a una ristretta oligarchia di governare un continente compreso tra 11 fusi orarì, dal mar Baltico al Pacifico. È una vera e propria giunta militare quella che si va formando attorno al nuovo padrone del Cremlino: il tenente colonnello Putin si circonda di "kagebeshnik", ex colleghi del Kgb come il potentissimo consigliere Viktor Ivanov, il vicecapo dell'amministrazione presidenziale Igor Sechin, il nuovo direttore del Fsb Nikolai Patrushev, il primo vi¬cepremier Sergei Ivanov, il ministro degli Interni Rachid Nurgaliev, il ministro dei Trasporti Igor Levitili, il ministro della Giustizia Vladimir Ustinov, il portavoce della Duma (la Camera bassa del Parlamento) Boris Gryzlov, tanto per citarne alcuni. L'assalto al potere corre lunga tutte le gerarchle. Nel 2003 una carica di governo su tre risulta occupata dai "silovikì", come si autodefiniscono i funzionari dei "silovye struktury" le strutture della forza. E cioè i ministeri di Interni, Difesa e Protezione civile, più le quattro agenzie di sicurezza nate dalle ceneri del Kgb: l'intelligence interna (Fsb), il servizio estero (Swr), quello militare (Gru) e la guardia presidenziale (Fso). All'interno del Consiglio di sicurezza, il massimo organo di governo della Federazione erede del Politburo, la percentuale di militari raggiunge quasi il 60%: ai tempi di Mikhail Gorbacìov non arrivava neanche al 5%. «C'è stato un effetto palla di neve, causato dalla struttura a clan del potere in Russia», spiega la sociologa Olga Kryshtanovskaya, che ha analizzato i curricula di migliaia di quadri della nuova nomenklatura. A unire gli uomini della Lubjanka è una sorta di patto di sangue, un vincolo indissolubile come quello che lega gli adepti di un'organizzazione mafiosa. Il principio che Putin ha riassunto con lo slogan: «Una volta cekista, sempre cekista». «Non esìstono ex agenti», ha poi spiegato in tv, «o si è in servizio o si fa parte della riserva attiva». È in nome di questa fratellanza che gli ex del Kgb si aiutano l'un con l'altro, muovendosi sempre in gruppo. Quando il presidente crea le figure dei sette superpreferiti per sorvegliare l'operato degli 89 governatori regionali, cinque arrivano dai servizi e dalle forze armate. Esattamente come il 70% dei 1.500 nuovi dipendenti che ognuno di loro si porterà dietro. In pochi anni gli uomini in divisa riempiono le posizioni chiave dell'amministrazione centrale e locale, entrano in Parlamento, fino a ritrovarsi anche ai vertici delle imprese più importanti del Paese: dai giganti del gas e petrolio Gazprom, Rosneft, Lukoil e Surgutneftegaz, alle aziende del settore bellico Rosoboronexport e Almaz-Antei, dal­la compagnia Aero...



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