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WHAT AMERICA MUST DO - 1
Cosa devono fare gli Usa per accrescere il loro consenso? (inchiesta di Foreign Policy)



Mentre la corsa per le presidenziali americane continua serrata, gli Stati Uniti si interrogano sull'immagine che danno di sé nel mondo, partendo dal riconoscimento che il Paese oggi non gode più del rispetto e dell'ammirazione che raccoglieva in passato.  A condurre l'inchiesta è stata l'autorevole rivista statunitense Foreign Policy che ha pubblicato le analisi di esperti mondiali di Politica Internazionale ai quali è stato chiesto: “Che cosa il nuovo presidente americano dovrebbe fare per migliorare il consenso internazionale nei confronti dell'America?”.

OBIETTIVO, L'AUTONOMIA ENERGETICA

Le relazioni che gli Usa hanno oggi con molteplici Stati del globo sono contaminate da rabbia, rancore e paura, sentimenti che hanno sostituito quelli di amicizia e stima che fino alla metà del secolo scorso erano la risposta alla politica di Washington oltre confine. Le prime riflessioni sono state affidate a Kenneth Rogoff, professore di economia presso l'Università di Harvard e già capo economista del Fondo Monetario Internazionale, secondo il quale “il prossimo presidente americano dovrebbe chiedere al Congresso di istituire una tassa elevata sui combustibili fossili che aumenti il prezzo della benzina fino a 6 dollari al gallone”. Si tratterebbe, in sintesi, di incrementare in maniera rilevante le imposte sugli idrocarburi (o combustibili fossili) quali il petrolio, il carbone, l'olio da riscaldamento e il gas naturale per un periodo di dieci anni. L'obiettivo sarebbe duplice: invertire la rotta della politica ambientale americana – che secondo Rogoff è “un errore ancor più grave dell'invasione dell'Iraq” - per frenare i danni del riscaldamento  della Terra e spezzare le catene che tengono legata l'America alle politiche energetiche petrolifere. Sono infatti questi due aspetti, spiega l'economista, a guastare la reputazione statunitense nel globo.

In primo luogo, la mancata ratifica del Protocollo di Kyoto (il trattato internazionale sull'ambiente volto a contrastare i cambiamenti climatici)  da parte degli Usa, responsabili da soli del 25% delle emissioni di biossido di carbonio (CO2), azzera di fatto la credibilità del governo americano quando sollecita la Cina e l'India ad adottare misure di crescita che siano compatibili con l'ambiente. Secondariamente, è ormai diffusa la convinzione che gli Usa invadano Stati sovrani allo scopo di mantenere basso il prezzo del petrolio.

Una tassa sui combustibili fossili smonterebbe questa tesi e rappresenterebbe una svolta nella politica ambientale di Washington che sarebbe apprezzata su scala mondiale. Con il conseguente recupero di consenso internazionale da parte degli Stati Uniti d'America.
  La teoria di Rogoff avrebbe inoltre una serie di effetti benefici interni al sistema economico statunitense che, se da un lato sarebbe colpito dalla tassazione più elevata, dall'altro innescherebbe un meccanismo che compenserebbe il carico fiscale che graverebbe, in un primo tempo, su aziende e cittadini. La strategia dell'economista di Harvard produrrebbe infatti “un massiccio ricavo utile a ridurre il deficit attuale e futuro degli Stati Uniti”. Le nuove entrate fiscali finirebbero infatti nelle tasche del governo americano che potrebbe disporne per attuare alcuni “correttivi”. Parte di queste risorse sarebbero destinate a ridurre altre tasse e diverrebbero fonte di sovvenzione da destinare ai cittadini meno abbienti per controbilanciare l'aumento della maggiore imposizione fiscale sugli idrocarburi. L'imposta elevata promuoverebbe inoltre la riduzione del consumo e un maggiore impiego di fonti energetiche “pulite” (ovvero senza emissioni di CO2) o a bassa emissione. La tassazione dei combustibili fossili allenterebbe anche la pressione che la richiesta di prestito americana sta mettendo al mercato internazionale dei capitali, pressione che sta contribuendo oggi a un pericoloso collasso del valore del dollaro. Grazie alle nuove entrate l'America dovrebbe infatti indebitarsi meno sul mercato internazionale dei capitali, perché attingerebbe alle risorse interne, e quindi tornerebbe ad attirare investimenti stranieri, con un relativo rafforzamento del dollaro.  

Riguardo agli effetti sul piano globale, i Paesi esportatori di petrolio, dai membri dell'Opec alla Russia, vedrebbero calare notevolmente la domanda dei propri prodotti, con la conseguenza di perdite finanziarie consistenti. E un ridisegnamento degli equilibri geopolitici. Si spezzerebbe, a quel punto, la dipendenza di Washington nei confronti di Stati, come quelli mediorientali, che, con le loro risorse energetiche, sono attualmente necessari all'economia statunitense.
Un processo che genererebbe anche, secondo Rogoff, un abbassamento mondiale dei prezzi del petrolio che favorirebbe i Paesi in via di sviluppo che potrebbero importare petrolio a costi più vantaggiosi. “Si realizzerebbe – afferma il professore di Harvard – un t...


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