1996, Numero 1/2
VILTÀ ITALIANA
di Sergio Romano
Una frase di Umberto Eco a Buenos Aires nel giugno 1994 ("In questo momento mi sento antiitaliano. Voglio farmi cittadino di Sarajevo") ha suscitato un "dibattito", vale a dire la solita tempesta in un bicchier d'acqua. Intervistate dai giornalisti le grandi ombre della letteratura italiana hanno ripetuto le loro classiche invettive: "Ahi serva Italia, di dolore ostello... Come cadesti o quando da tanta altezza in così basso loco... le piaghe mortali che nel bel corpo tuo si spesse veggio... O d'ogni vizio fetida sentina... vecchia, otiosa, lenta...". Abbiamo letto per qualche giorno una crestomanzia delle ingiurie e dei vituperi che gli italiani hanno indirizzato a se stessi da Dante a Flaiano, da Leopardi a Zeri, da Pascoli a Biagi. E ne abbiamo tutti concluso che nelle parole di Eco non c'è nulla di nuovo sotto il sole, che gli italiani hanno sempre detestato se stessi, che non v'è altro popolo in cui l'"odio di sé" sia radicato e diffuso sino al punto di diventare gioco, vezzo, insopprimibile meccanismo mentale e verbale. Presso gli italiani, quindi, l'autodenigrazione e l'autolesionismo non sarebbero occasionali manifestazioni di rabbia civile. Sarebbero l'espressione ...
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