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1999,
Numero 3

L'IMMAGINE, VITA E MORTE

di Jean Halévy

"Al mediologo è proibita la morale...Egli doveva, nei limiti di una ricerca obiettiva, descrivere e tentare di spiegare. Il suo auspicio, d'ora in poi, uscendo dalla sua disciplina, sarebbe quello di perorare la causa dell'invisibile." Vita e morte dell'immagine, l'ambiziosa storia dello sguardo in Occidente scritta da Régis Debray, si conclude in dissolvenza come i film eroici di cui l'autore si nutriva in gioventù. Ci sono romanzi che si rileggono a ritroso, a partire dalla loro ultima parola. L'ultima parola di questo corposo breviario di mediologia, deciso a vanificare tutte le frontiere del visibile, è inequivocabilmente riservata all'invisibile. Immerso nella seduttività della videosfera, dove l'istantaneo sostituisce il durevole, l'emozione rimpiazza la riflessione, l'immateriale il materiale (l'individuo il collettivo, il mondo la nazione etc. etc.) Débray finisce per confessare a denti stretti la propria nostalgia per la grafosfera, riabilitando l'invisibile come unica risorsa di senso, per altro laica, al cospetto di una visibilità che la precipitazione delle sue tecniche ha reso un po' troppo epidemica, se non pericolosamente totalitaria. Si vede tutto, si vede troppo...