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2014,
Numero 2/3

Napolitano, da Botteghe oscure al Quirinale

Il LibroL'introduzione dal libro di Paolo Franchi sul “socialista” del Pci
di Paolo Franchi

Ho intervistato per il «Corriere della Sera» Giorgio Napolitano un'infinità di volte, imparando subito a conoscerne, come tutti i suoi intervistatori, la proverbiale pignoleria: «Alla terza riga della quarta risposta, hai scritto: “dunque”. Ma a me sembra proprio di aver detto “quindi” ... », Almeno altrettante ho scritto di lui, delle sue posizioni politiche. dei suoi libri e anche del suo ottantesimo compleanno, festeggiato con una bella cena sulla fantastica terrazza di un ristorante al Campidoglio. È ospite di una trasmissione che conducevo alla radio, Radio Tre Mondo, sul finire del 2005, quando per la prima volta gli viene pubblicamente pronosticata, da un'amichevole radioascoltatrice, l'imminente ascesa al Quirinale, e lui smentisce ogni possibilità, ma prima ancora ogni personale interesse al riguardo. lo gli credo. Sbagliavo, ovviamente, quanto alle possibilità. Ma sull'assenza di ambizione personale penso di essere stato nel giusto.
Napolitano, comunque, non l'ho conosciuto da giornalista. La circostanza esatta in cui ho parlato con lui per la prima volta non la saprei indicare con precisione: di sicuro risale a quaranta e passa anni fa, quando guidava la commissione culturale del Pci, e io, ventenne o poco più, ero il responsabile nazionale degli studenti comunisti. Di quel tempo ho, credo, una discreta memoria politica. Ma i miei ricordi di allora più vivi sul Nap, come lo chiamavamo, riguardano episodi che con la politica propriamente detta c'entrano fino a un certo punto. Storie minime, si capisce, visto che all'epoca Napolitano è uno dei dirigenti più autorevoli del partito, e io un giovanotto. Se mi sono rimaste impresse nella memoria, però, è perché le ho sempre trovate, nel loro piccolo, illuminanti. Mi ha detto con affettuosa ironia partenopea Raffaele La Capria - cui ho chiesto lumi, per questo libro, sul Napolitano giovane, anzi, giovanissimo, nella Napoli dei primi anni Quaranta - che, a pensarci su adesso, quello studentello di tre anni più giovane di lui, così a modo, così equilibrato, così per bene, era l'unico, tra gli studenti del liceo Umberto, per il quale si sarebbe potuto pronosticare (c'era ancora il fascismo, c'era ancora il re) un futuro da capo dello Stato. Non so se dai miei ricordi dovrei trarre un'analoga riflessione. Ma quando Napolitano, il lO maggio del 2006, è stato eletto presidente della Repubblica, nella lettera di congratulazioni e di auguri che gli ho inviato, una delle tantissime che gli sono piovute addosso in quei giorni, alcuni glieli ho (brevemente) rievocati. E nella sua (brevissima) risposta al mio messaggio il presidente ha voluto vederci « il segno di un'antica amicizia». Di cui vado, ovviamente, orgoglioso. Ma che ho cercato di non far pesare più di tanto nella scrittura di questo libro,
Aprile 1972, campagna elettorale. Siamo a Nola, un grosso centro dell'entroterra napoletano. Nel settembre del ‘43, dopo lo sbarco di Salerno, qui c'è stato forse il più feroce eccidio tedesco nell'Italia meridionale, quattordici vittime, quasi tutti militari; poi, il primo di ottobre, i nolani si sono impadroniti di armi e munizioni custodite nella caserma dei Carabinieri, è scoppiata una mezza insurrezione e le truppe di Kesselring sono state costrette ad andarsene in tutta fretta. Ma la storia più recente, anche al cinema, parla d'altro. Della camorra, per cominciare: questa è la terra di Pascalone ‘e Nola e di Pupetta Maresca (testimoni di nozze del boss sono stati, nell'aprile del ‘955, Giovanni Leone e Silvio Gava), alla cui storia un vecchio amico di Napolitano, Francesco Rosi, ha dedicato un film famoso, La sfida, con José Suarez nel ruolo di lui, Rosanna Schiaffino in quello di lei.
Quella sera di aprile del ‘972, sulla piazza centrale di Nola, dove Napolitano, il filosofo Biagio de Giovanni e il sottoscritto debbono arringare la folla, la camorra forse non c'è, o se, come più probabile, c'è, se ne sta sullo sfondo, tra i tanti cittadini che comunista non voteranno mai, ma sono venuti lo stesso, com'è d'uso nel Mezzogiorno, a sentire il comizio, perché all'epoca il comizio è ancora pure una forma, e non secondaria, di spettacolo popolare, e l'ars oratoria è apprezzata, avrebbe detto Totò, «a prescindere». Più vicino al palco, e sono in tanti, c'è un partito in gran parte tuttora bracciantile; e poi molti giovani, soprattutto studenti, perché la scolarizzazione di massa è arrivata anche qui, con le loro bandiere e i loro slogan.
Il segretario della sezione locale, prima di salire sul palco, mi ha preso da parte per manifestarmi una preoccupazione e una richiesta, partendo da una premessa. La premessa è che «qui piacciono i toni forti». La preoccupazione è per Napolitano che, ovviamente, parlerà per ultimo: niente da dire sulle sue posizioni politiche, per carità, ma con quel suo eloquio così forbito, che concede così poco alla passione e alla pancia della piazza, rischia di raffreddare gli animi, quando invece bisogna riscaldarli. La richiesta, visto che il professor de Giovanni è, se possibile, ancora meno comiziante di Napolitano, è naturalmente per me: sei giovane, scaldali tu, i compagni. lo non mi faccio pregare, anzi, probabilmente (mi viene facile) esagero un po': soprattutto i ragazzi applaudono, scandiscono le loro parole d'ordine, sventolano le loro bandiere, ma i «toni forti» qui funzionano benissimo anche con i compagni più stagionati. Poi, tocca a Napolitano.
Proprio quel giorno «l'Unità» ha pubblicato una pagina intera di dichiarazioni di voto al Pci di docenti universitari, intellettuali, personalità dello spettacolo: il rito è antico, ma per molti dei firmatari è la prima volta. Il responsabile della commissione culturale le cita quasi tutte, si sofferma sul significato di questo o di quel messaggio, da ultimo tiene a precisare, siamo sempre a Nola, siamo sempre nel 1972, quanto piacere in particolare gli abbia arrecato, e qui il tono della sua voce si fa quasi musicale, la pubblica testimonianza di voto di uno storico eminente come il professor Ernesto Sestan. Comincio a preoccuparmi un po', fino a qualche minuto prima ho inneggiato al Fronte nazionale di liberazione del Vietnam del Sud, e mi sono guadagnato un'ovazione (siamo negli anni della strategia della tensione) assicurando gli astanti che i reazionari non dovevano illudersi, perché saremmo stati in grado di rispondere loro «su tutti i terreni». Preoccupazione infondata. Napolitano, esaurito l'elenco degli intellettuali, rafforza i toni del suo discorso abbastanza da mandare a casa soddisfatto il pubblico. Poi, sebbene siano passate le dieci, e lui non sia certo un nottambulo, mi invita a cena in città, anche perché, dice, magari sarò un po' estremista ma, visto che sto sopravvivendo da settimane a Napoli con la povera diaria della Federazione giovanile, avrò pure diritto a un pasto come si deve. Non ricordo di che cosa abbiamo parlato a cena, soprattutto di politica, immagino. Ricordo però bene il suo atteggiamento: l'atteggiamento di chi non parla soltanto, ma ascolta anche, prova a spiegare, ma cerca pure di capire le ragioni dell'interlocutore. La cosa, tra i dirigenti comunisti, non è poi così frequente.
Può darsi che, quella sera, gli sia sembrato un po' diverso, migliore, rispetto all'aspirante demagogo che dovevo essergli parso in piazza. Se è così, qualche mese dopo, sarà stato settembre, devo avergli dato una delusione. In agosto, in vacanza sulla Costiera amalfitana, a Praiano, mi sono lasciato crescere, per estiva pigrizia, la barba che, tra l'altro, porto ininterrottamente da allora. Quando, di ritorno, vado a trovarlo nel suo ufficio al quarto piano delle Botteghe Oscure, mi guarda più allibito che perplesso, e non mi nasconde, seppure in tono semiserio, la sua contrarietà. La barba .. un cedimento così grave allo spirito del tempo, da me, che gli avevo dato l'impressione di essere una persona seria, non se lo sarebbe mai aspettato.
Qualche punto, forse, almeno sul piano personale, l'ho recuperato poco più di un anno dopo in Piemonte, a Torre Pellice, dove entrambi eravamo stati convocati dall'infaticabile Piero Fassino, allora segretario della Fgci torinese, per un seminario degli studenti comunisti del Nord. La data, in qualche modo, conta: 28 settembre del 1973. Di primo mattino, Fassino e io aspettiamo, nell'atrio sgangherato della federazione comunista torinese, in via Chiesa della Salute, l'automobile che ci deve portare a Torre Pellice. Per terra, ancora nel cellophane, ci sono pacchi di copie dell'ultimo numero di «Rinascita» appena scaricati dai camion. È un numero importante perché ospita il famoso articolo di Enrico Berlinguer sul compromesso storico. Ne facciamo una rapida lettura trasversale, io molto colpito, e alquanto perplesso, Fassino meno. Poi, partiamo.
Nel seminario valdese che ci ospita, Napolitano è arrivato direttamente da Roma. Fassino, che tiene molto al rapporto con la comunità valdese, ci spiega le severe regole della casa: l'ospitalità è spartana, ma è opportuno mangiare e dormire lì. Napolitano risponde che non c'è problema, e io, ovviamente, mi adeguo. Ma non possiamo sapere né come si mangia né soprattutto quanto freddo, e freddo feroce, fa. Così che a sera, terminata la prima giornata di lavori, ciascuno con la propria valigetta, e all'insaputa dell'altro, ci ritroviamo davanti al cancello del seminario: avevamo adocchiato, arrivando, una piccola locanda in paese, e la tentazione di raggiungerla si è rivelata irresistibile per entrambi. Credo di essere stato, da giovanotto, uno dei pochi che abbiano condiviso così con Napolitano il piacere della trasgressione: ricordo quel vago senso di complicità meglio del classico menù piemontese della cena e della calda trapunta sul mio letto. Parliamo, a tavola, anche dell'articolo di Berlinguer, Se ha dei dubbi (ma penso di no), non li manifesta certo a me, Che, oltretutto, porto la barba.


I vecchi e i giovani

«Il presidente della Repubblica lo farà Giorgio.» Manca ancora una settimana all'inizio delle votazioni, ma Emanuele Macaluso, al quale ho chiesto lumi sull'imminente corsa per il Quirinale, sembra proprio non avere dubbi. So bene quanto sia amico di Napolitano, ma so pure che Emanuele è testa politica fine, una delle pochissime rimaste in circolazione. Quindi, sebbene il nome di Napolitano, nelle ore della vigilia, non circoli affatto, prendo mentalmente nota. Oltretutto, il primo a farmelo non è stato lui, bensì, qualche giorno prima, un altro vecchio, lucido combattente della sinistra italiana, il socialista Rino Formica, che con Napolitano ha un antico e collaudato rapporto, di quelli in grado di reggere al brusco mutare delle stagioni politiche. E io Formica lo sto a sentire, perché non è solo molto più appassionato, ma anche parecchio più informato di tanti giovanotti, o ex giovanotti, che calcano le scene della cosiddetta Seconda repubblica.
Con Napolitano, Macaluso ha vissuto tutta la storia dei miglioristi e poi dei riformisti: e, prima ancora, la storia del Pci, sin dai giorni della Liberazione. Sono stati entrambi, per formazione, homines togliattiani, e forse in un certo senso, seppur convertiti da un pezzo (Napolitano sicuramente per primo) al socialismo democratico, seppure fatti oggetto nel loro vecchio partito, tra il 1989 e il ‘994, di una campagna martellante Ce infamante) che li rappresenta come una specie di quinta colonna di Bettino Craxi, lo sono ancora. Formica proprio no, la sua storia nella sinistra italiana, dal giovanile Ce mai del tutto dismesso) trotz-kismo al craxismo irrequieto degli anni della maturità, è tutta diversa. Con Napolitano, ha condiviso prima una tenace resistenza al dilagare della guerra civile, a sinistra, tra comunisti e socialisti; poi, probabilmente fuori tempo massimo, il tentativo di trovare la strada di una ricomposizione unitaria. Ma, se gli chiedi cosa pensi di lui, comincia con una citazione che attribuisce, con ogni probabilità arbitrariamente, a Giuseppe Stalin: «L'inflessibilità del comunista consiste nella capacità di oscillare allo stesso ritmo della linea del partito». Poi, alla citazione fa seguire una domanda: «E quando non ci sono più né la linea né il partito, come fa a oscillare un figlio dell'aristocrazia intellettuale napoletana, di formazione crociana, togliattiano di destra più ancora che amendoliano? Gli restano due ancoraggi soltanto, ma molto forti. Il primo se lo è conquistato in prima persona, sulla scia di Giorgio Amendola: ed è l'Europa. Quanto al secondo, capisco che qualcuno salterà sulla sedia, ma, almeno in parte, glielo ha lasciato in eredità, basta rileggere i suoi interventi alla Costituente, Palmiro Togliatti: ed è il costituzionalismo liberale» .1
Macaluso e Formica non sono più in Parlamento da un pezzo: per estese che siano le loro frequentazioni, e tuttora intensi i loro rapporti politici, è difficile rappresentarli come i grandi elettori di Napolitano. E sarà stata sicuramente una pura coincidenza, il fatto che a farmi per primi il nome del (quasi) coetaneo Napolitano per il Quirinale siano stati loro. Ma a me piace vedere in questa coincidenza anche qualcosa di emblematico. Non certo una congiura di ottuagenari. E neppure una specie di vendetta della parte migliore della sinistra storica e, più in generale, della Prima repubblica sulla Seconda, entrata in agonia prima ancora di essere venuta compiutamente al mondo (e già questa, non lo nascondo, sarebbe una discreta soddisfazione). Quanto, piuttosto, il manifestarsi, ora sì, di qualcosa di effettivamente inedito, o comunque di largamente inesplorato: di una possibile alleanza riformatrice tra i nonni e i nipoti, che, per cominciare, accompagni più o meno cortesemente alla pensione, riforma Fornero permettendo, la gran parte di una generazione (forse quella del Sessantotto; di sicuro la mia). Una generazione che, non essendo riuscita a prendere il potere con le cattive, prima lo ha circuito spregiudicatamente, lasciandosi però sedurre persino dai suoi segni esteriori; poi, quando, ormai con i capelli grigi, lo ha finalmente avuto, e senza particolari meriti, ne ha fatto un uso ora duro ora tragicomico, ma sempre strumentale, con i risultati che sono sotto gli occhi di tutti.
Dei giovani, da presidente, Napolitano ha parlato molte volte, e non retoricamente. Non saprei dire, però, se condivida o no questa mia personalissima tesi. In tre circostanze soprattutto mi ha dato l'impressione di sì. La prima volta è il 22 dicembre del 2010, quando accetta di ricevere al Quirinale una delegazione del movimento degli studenti in lotta contro il disegno di legge del ministro Gelmini, con la sola condizione che cessassero subito le violenze e gli scontri di piazza. Non farà proprie, ovviamente, le posizioni degli studenti, ma li ascolterà con un'attenzione vera, e si sorprenderà anche un poco della loro disponibilità: nel ‘968, o nel ‘977, a nessun giovane contestatore sarebbe passato per l'anticamera del cervello di chiedere udienza al presidente della Repubblica; persino quelli che accettarono di partecipare a una discussione con il segretario del Pei, Luigi Longo, vennero duramente criticati. La seconda volta è nel novembre del 2011, quando, facendo tornare alla mente dei più anziani il suo antico maestro Amendola alle prese con il Sessantotto, coglie l'occasione niente meno che della Giornata dell' Albero per bacchettare un po' i ragazzi e le ragazze convenuti al Quirinale: «Organizzatevi come studenti e, se permettete, organizzatevi non solo per dire dei no a come vanno la scuola e l'università, ma per fare proposte, sollecitare scelte, indicare le necessità vitali per lo sviluppo del Paese». La terza è il 23 maggio del 2012, ventesimo anniversario della strage di Capaci, quando, a Palermo, visibilmente si commuove, strappando un applauso caldo e sincero alla platea, mentre si appella ai giovani affinché compiano il loro apprendistato civile, aprano porte e finestre, scendano al più presto in campo. Non sono mancate in altri casi, naturalmente, le contestazioni nei suoi confronti di gruppi più o meno estesi di giovani. Ma, in queste circostanze, Napolitano ha sempre risposto per le rime. Com'è giusto che sia, per chi cerca un confronto vero, non un consenso formale.


Leibniz e Bilderberg

Napolitano è ministro degli Interni del primo governo Prodi, quando, il 19 giugno ‘997, gli viene conferito, ad Hannover, un premio prestigioso, il Leibniz-Ring. Raramente, che io sappia, la motivazione di un premio «per l'opera di una vita», di un premio alla carriera, insomma, è stata più puntuale nel mettere a fuoco i meriti e le caratteristiche del premiato. Recita così: «In tutti questi anni si è impegnato in modo sistematico e flessibile, e con successo, nell'indirizzare la politica italiana in senso europeistico; e ha contribuito in grande misura all'avvicinamento del Pci alla sinistra europea e a quella che si può chiamare la “socialdemocratizzazione” dei comunisti italiani». E si conclude rimarcando, tra i tratti distintivi dell'uomo, la «riflessività», la «predisposizione al dialogo», 1'« apertura antidogmatica». Sistematico, flessibile, riflessivo, dialogante, aperto, antidogmatico. Sono tutti aggettivi importanti, che sotto ogni cielo qualificano, o dovrebbero qualificare, gli esponenti di maggior rilievo non di una casta, ma di classi dirigenti al passo con i tempi, aperte, inclusive: quelle élites la cui latitanza è forse l'aspetto più grave, e inquietante, della crisi italiana. Altrove, questi aggettivi sono indubbi titoli di merito. Da noi, no. Talvolta, anzi, alimentano addirittura sospetti, dicerie, qualcosa di simile a moderne, o postmoderne, leggende nere. 0, per meglio dire, rosso-nere. Nel senso che a raccoglierle e a rilanciarle, soprattutto ma non solo sul web, sono gruppi e personaggi magari agli antipodi, eppure accomunati dal culto ossessivo delle più diverse e strampalate teorie del complotto, segugi sempre lanciati sulla pista di qualche cospirazione, meglio se mondiale, contro la libertà degli individui e delle nazioni. Napolitano non ne è certo risparmiato, alcune, anzi, lo accompagnano sin dai primi passi in politica. La più antica, e la più nota, è quella che, per via di una forte rassomiglianza fisica, lo vuole figlio naturale di Umberto, il re di maggio. Sembrava se ne fossero ormai smarrite le tracce, ma è tornata come d'incanto a materializzarsi quando è stato eletto presidente della Repubblica: di nuovo un Savoia al Quirinale.
Poi c'è la storia, chiamiamola così, di un Napolitano che non sarebbe così «anglosassone» (e quindi sistematico, flessibile, predisposto al dialogo e via elencando) solo per stile, gusti, inclinazioni culturali, ma anche per antichi, più o meno oscuri legami con gli Stati Uniti e la Gran Bretagna: legami risalenti addirittura alla Napoli appena liberata del ‘944-'945, mai del tutto interrotti nemmeno nei tempi più duri della guerra fredda, pienamente riattivati negli anni Settanta, quando l'attuale capo dello Stato è, tra i dirigenti comunisti, il primo a ottenere il visto per gli Stati Uniti. Più o meno allo stesso filone, infine, appartengono le teorie che indicano in Napolitano una specie di garante, e in Monti il rappresentante, di potentissimi circoli internazionali in cui, manco a dirlo, giocherebbero un ruolo primario la massoneria e, si capisce, gli ebrei (un tempo era in gran voga la Trilaterale; poi le attenzioni dei cospirativisti si sono in parte spostate sull'Aspen Institute; adesso, soprattutto sulla rete, spopola il Club Bilderberg) che tramano, con fortune crescenti, per sostituire il dominio internazionale della grande finanza al potere, ormai allumicino, degli Stati nazionali.
In un Paese che ha tante pagine bianche, tutte ancora da scrivere, nella sua storia, ma è affollato di gente, importante o minuta, che la sa lunga o almeno vuole fartelo credere, le leggende, anche le più strampalate, sembrano non morire mai. Si inabissano, magari, ma poi tornano d'improvviso a galla, arricchite di nuovi particolari, non fa nulla se stravaganti, e di presunte pezze d'appoggio; e si combinano tra loro fino a prendere le fattezze di un'unica pseudostoria, del tutto indifferente ai vincoli dello spazio e del tempo, Se di populismo si tratta, è un populismo che non fa proseliti soltanto tra i semplici. In una bella serata d'estate ho conosciuto un autorevole banchiere, il quale, davanti ad altrettanto autorevoli commensali, mi ha chiesto, dando per scontata una mia risposta affermativa, se sapessi che Napolitano è da sempre, o quasi, un uomo degli americani. Quando gli ho risposto di no, contestandogli pure, cortesemente, questo modo di discutere delle persone e dei problemi, mi ha guardato sorpreso. E mi ha domandato se non ero neppure a conoscenza del fatto che Napolitano aveva condotto per mano Silvio Berlusconi alle dimissioni, e portato Monti a Palazzo Chigi, su mandato imperativo del presidente degli Stati Uniti. Alla mia seconda risposta negativa, con le ulteriori contestazioni di merito e di metodo annesse, ho avuto chiara l'impressione che mi considerasse uno sprovveduto totale. O peggio.
Si tratta, ovviamente, di sciocchezze; anche se di una specie particolare e pericolosa, soprattutto in tempi di crisi, quando chi prova a ragionare, a distinguere, a storicizzare rischia di passare per scemo o per complice, e i dietrologi non faticano a trovare adepti più o meno interessati, perché, se siamo così inguaiati, vuoI dire che da qualche parte ci deve pur essere una potente Spectre che trama incessantemente contro di noi. Ma, per la parte che, direttamente o indirettamente riguarda Napolitano, viene da chiedersi perché mai, si tratti del principe Umberto o del club di Bilderberg, ai complottologi di turno venga più facile associarlo ai disegni oscuri di grandi poteri sovranazionali che, per esempio, a qualche capitolo ancora inedito del Libro nero del comunismo.
C'entra, sicuramente, la diffusa avversione (in parte, temo, meritata), per le élites, che si mescola, formando una miscela esplosiva, a quella, dilagante, per la politica e i politici. Non c'è al mondo, credo, e comunque di sicuro non c'è in Italia, un ex comunista (perché così si è più volte definito Napolitano, anche di fronte a interlocutori della stazza di Henry Kissinger: aformer communist, non un pallido postcomunista) che si muova, e non da oggi, nell'establishment politico, economico e culturale mondiale come se ne facesse parte da sempre, senza incontrare mai qualche obiezione da parte dei protagonisti e dei comprimari per così dire «storici» dell'establishment in questione. Per chi lo descrive partecipe Co succubo) di una qualche congiura universale, naturalmente, questa è una specie di prova regina. Per chi invece alle congiure universali non crede, e a una partecipazione di Napolitano alle medesime ovviamente meno ancora, fermarsi a riflettere un attimo su questa banalissima domanda può essere utile, può aiutare, forse, anche a comprendere meglio la cifra del personaggio. O addirittura «l'opera di una vita», la sua.


La scuola napoletana

Napolitano delle élites italiane ha sempre, in un certo senso, fatto parte. Anche ai tempi del Pci. C'entrano, non c'è dubbio, la sua origine sociale (un tempo si sarebbe detto: di classe), la Napoli di Benedetto Croce e di Giorgio Amendola, le buone letture. Non è una storia a sé: tra i giovani della sua generazione che scelgono l'impegno a tempo pieno nelle federazioni o nei giornali del Pci, e spesso percorrono il cursus honorum sino ai gradi più alti, gli intellettuali di matrice alto, medio e piccolo borghese sono tanti. C'è un filo che unisce molti di loro, e li rende diversi dai compagni cresciuti nella clandestinità, nelle galere, nell'emigrazione a Mosca. Non tanto il mito di Stalin, che pure c'è, eccome. Quanto, semmai, quello di Stalingrado. La convinzione cioè, o l'illusione, che, con la vittoria sul nazismo e sul fascismo, sia giunto il tempo non della rivoluzione mondiale, ma di una stagione nuova di democrazia e di giustizia: «Molti giovani in Italia divennero comunisti, riconoscendo in quel partito la forza politica che aveva dato il contributo maggiore [...] alla lotta antifascista, e che esprimeva la maggiore capacità di mobilitazione sociale. Si respirava un'atmosfera di unità della sinistra e di unità nazionale. Appariva possibile un' evoluzione democratica in tutta Europa, sembrava aprirsi la più ampia prospettiva di unità europea.
Quando cala anche in Italia la cortina di ferro, e arriva il tempo della contrapposizione frontale sul piano ideologico, politico e, prima ancora, militare, quasi nessuno di questi giovani dà particolari prove di anticonformismo: se in questo clima si sentono stretti, in attesa di tempi migliori, non lo danno a vedere. Napolitano non fa eccezione. In questi anni bui, semmai, si segnala per una concezione della politica (e forse del mondo) cui resterà fedele a lungo. Mai uno scarto improvviso, mai un coinvolgimento pericoloso in qualche avventura della dialettica. Piuttosto, appena se ne dà la possibilità pratica, un procedere lento pede sul cammino del togliattiano «rinnovamento nella continuità», e un perfezionamento sempre crescente negli «esercizi di dialogo» in cui il Pci comincia a impegnarsi, prima in Italia, poi, molto prudentemente, nel mondo, già all'indomani della sconfitta della legge truffa, nel ‘953. Lo caratterizzano il fastidio ostentato, verrebbe da dire di pelle, verso ogni forma di radicalismo, il culto dell'understatement, la pignoleria al limite del maniacale nel pesare le parole e persino le virgole. Nonché, certo, la riluttanza a dare battaglia in campo aperto, anche quando ad accendere le polveri è Amendola, massimo punto di riferimento di quella «scuola napoletana» di cui Napolitano, assieme a Gerardo Chiaromonte, è molto più di un allievo brillante.
Scarsa predisposizione alla lotta politica, connaturata tendenza a non distaccarsi dal gruppo e a tenersi lontano dalla soglia oltre la quale non si fa più parte di quel vasto centro che, quasi per definizione, governa il partito, non solo a Roma? Di contestazioni e di critiche di questo tipo, parecchi anni, anzi, vari decenni più tardi, Napolitano ne riceverà molte, anche da parte di alcuni esponenti di primo piano di quell'area «migliorista» prima, «riforrnista» poi del Pci-Pds di cui è stato il capo naturale: «Il coraggio non sa nemmeno dove sta di casa» dirà di lui, nel momento di una dolorosa rottura, anche personale, Napoleone Colajanni. Ne parleremo. Ma intanto resta il fatto che nel Pci di Togliatti, e anche, almeno sino alla fine degli anni Settanta in quello dei suoi successori, queste sono considerate virtù, anzi, virtù cardinali, buone per il tempo della guerra di posizione e tanto più per quell'imprecisato domani in cui finalmente si ravvicinerà una prospettiva di governo: è solo praticandole rigorosamente («Via i pagliacci dal campo della lotta») che un partito non plebeo e nemmeno operaista, certo, ma comunque in primo luogo espressione delle classi subalterne, può ambire a diventare forza dirigente del Paese.
La disciplina di partito è dura, ma forse l'autodisciplina individuale e collettiva, o se si preferisce l'autocensura, conta anche di più: praticare queste «virtù», prima che un dovere, è un costume politico e intellettuale. Che si incrina nei passaggi più drammatici (salvo poi faticosamente ricomporsi) quando ciascuno - o meglio, chiunque abbia l'autorevolezza per farlo - dà più sfogo alle proprie inclinazioni e al proprio carattere. Rossana Rossanda ricorda bene, mettendoci anche un po' di veleno, le visite a Milano di quei dirigenti meridionali e meridionalisti che all'epoca le paiono sin troppo influenti, sul piano culturale prima ancora che su quello politico, nel partito: «Nel 1956 [...] Alicata meridionalista si batteva per un partito rinnovato, così sembrò e a Milano anche fu, con il risultato che c'è di lui una immagine persecutoria a Roma e una diversa in noi settentrionali. Non che fosse un mite né liberale, non lo era per niente neanche Amendola - ma Alicata era spagnolesco, appassionato, rischiatutto, con un gusto dell'impopolarità, Amendola freddo, ragionante e calcolatore, capace di menare una sola botta ma decisiva, “alla bolscevica” [...]. Alicata si spostava su e giù per l'Italia seminando spavento, Amendola si accattivava i più con quel fare da gran borghese comunista. Veniva spesso con Giorgio Napolitano, cortese e annuitore.


Siamo una minoranza

Cortese, Napolitano lo resterà sempre. «Annuitore», ammesso che, sulla trentina, lo sia stato, no. Arriverà anche il momento, a cavallo tra la fine degli anni Settanta e l'inizio degli anni Ottanta, in cui comincerà, seppure a modo suo, a puntare i piedi, e a far sentire il proprio dissenso, a costo di ritrovarsi, se non fuori, ai margini del sancta soncrorum. L'atto iniziale - cosa abbastanza clamorosa per lui, e anche per i tempi, considerando che all'epoca il confronto interno al Pci è ancora così cifrato che i giornalisti più versati nel ramo si fregiano del rango di «bottegologi» - è un articolo in prima pagina sull'e Unità»: anche senza essere «bottegologi» si comprende facilmente che il principale bersaglio delle sue critiche è Berlinguer. Ma attenzione. Quell'articolo, che esce il 21 di agosto del 1981, a mo' di commemorazione del Migliore nel diciassettesimo anniversario della morte, si intitola: Perché è essenziale il richiamo a Togliatti. Ed è a colpi di citazioni di Togliatti - il Togliatti che ha insegnato al partito a tenere ben distinta la politica dalla propaganda, a evitare le «pure contrapposizioni verbali» e le «vuote invettive», nonché ad applicare un metodo, quello dell'«analisi differenziata», fondamentale per evitare il grave errore «di non saper distinguere cose diverse» - che Napolitano contesta la linea del segretario generale.
Un paradosso? Forse sì, ma fino a un certo punto. Negli anni della solidarietà nazionale, gli homines togliattiani della destra comunista, da Paolo Bufalini a Chiaromonte, da Napolitano a Macaluso allo stesso Luciano Lama, non sempre hanno marciato all'unisono, ma comunque hanno contato moltissimo nella politica del partito. A unirli, al di là di ogni divergenza, è stata l'idea che l'ingresso nell'area di governo rappresentasse il primo, fondamentale compimento di una lunga, difficilissima marcia, iniziata fin dal ritorno in Italia di Togliatti nell'ormai lontanissimo 1944. Della politica di unità nazionale hanno vissuto prima le speranze, poi le difficoltà, infine la crisi, diventata drammaticamente evidente già tra il 16 marzo e il 9 maggio del 1978, cioè tra il rapimento e l'assassinio di Aldo Moro. Alcuni (è il caso di Chiaromonte, non di Napolitano) hanno convenuto con Berlinguer sulla necessità di chiuderla il prima possibile, pena un rapido, inarrestabile declino di un Pci sempre più insofferente all'idea (l'immagine, desunta dal titolo di un'opera teatrale del drammaturgo russo Leonid Andreev e di un famoso film muto degli anni Venti, è di Eugenio Scalfari) di interpretare il ruolo dell'e uomo che prende gli schiaffi». Ma adesso tutti avvertono, seppure non tutti con la medesima chiarezza, che, abbandonata quella strategia dalle radici antiche, il Pci si ritrova, per la prima volta, privo di una qualsiasi prospettiva politica, ed esposto al rischio, ai loro occhi esiziale, di ritrovarsi esposto alle sirene di un massimalismo impotente e di un radicalismo verbale che hanno combattuto per tutta la vita come dei pericoli mortali. È qualcosa più di un dissenso politico, o della denuncia di un cambio degli equilibri (dal centro-destra al centro-sinistra) al vertice del Pci, la contestazione mossa da Napolitano sull'e Unità» a Berlinguer. È un segnale esplicito di allarme sulle sorti di un partito, il suo, di cui considera messi pericolosamente in discussione, assieme ai passi avanti compiuti nell'ultimo decennio, alcuni tratti distintivi, politici e culturali, considerati a lungo, forse a torto, come qualcosa di acquisito e di maturato in profondità.
Da quel 21 di agosto del 1981 tutti sanno che i contrasti nel gruppo dirigente comunista non solo esistono, ma non sono più pudicamente ascrivibili alle diverse «sensibilità» presenti al suo interno: prima e, soprattutto, dopo la morte di Berlinguer, nel 1984, saranno proprio questi contrasti, sempre meno sotterranei, a fare la storia del Pci, che è la storia di una crisi di identità e di prospettive di gran lunga precedente la caduta del Muro di Berlino, nel 1989, e la successiva «svolta» di Achille Occhetto. Ma una cosa sono i contrasti, ancorché ricorrenti, e spesso, come vedremo, pure assai aspri, e talvolta clamorosi, un'altra è una lotta politica chiara e conseguente. Quest'ultima non ci sarà, in realtà, nemmeno dopo la costituzione dei «riformisti» in corrente, in ultima analisi perché Napolitano non la apre: per indole, per realistica valutazione dei reali rapporti di forza, per riluttanza ad assumersi la responsabilità di incrinare il bene, considerato fino all'ultimo prezioso, dell'unità del partito, per tutti questi motivi insieme, o per qualche altro motivo ancora.
È una storia che da giornalista del «Corriere» ho seguito molto da vicino quasi giorno per giorno: e in questo libro, posto che possa interessare ancora qualcuno, provo a raccontarla, soffermandomi anche su qualche dettaglio inedito, o pressoché sconosciuto ai più. Dovessi anticiparne una morale, ammesso che una morale ci sia, direi che la cosiddetta «pavidità» di Napolitano, «coniglio bianco in campo bianco», secondo la nota, sarcastica definizione di Giuliano Ferrara, sia un luogo comune. E, anche se la cosa può sembrare alquanto rétro, tornerei piuttosto alla massima antica di Romain Rolland, di cui chi in Italia è stato comunista si è nutrito, nell'interpretazione di Antonio Gramsci, fin da ragazzino. A un «pessimismo dell'intelligenza» che, con il trascorrere degli anni, si fa in Napolitano sempre più marcato. E nello stesso tempo, non contraddittoriamente, a un «ottimismo della volontà» che lo induce comunque a stare sempre puntigliosamente «sul pezzo»: si tratti della collocazione internazionale del partito o dei rapporti con Bettino Craxi e i socialisti, della politica economica o, nei giorni delle picconate di Francesco Cossiga, di quella istituzionale.
Due esempi soltanto per spiegarmi. Il primo risale a più di vent'anni fa. Dice lapidario Napolitano il 28 dicembre del 1989, nelle settimane drammatiche successive alla caduta del Muro, davanti a un consesso di miglioristi divisi tra chi vuole, come lui, associarsi, seppur «motivatamente», alla svolta di Occhetto, e chi invece ritiene che non basti e occorra dare battaglia in autonomia, su una linea apertamente socialdemocratica, di non essersi mai illuso su uno spostamento nel partito verso posizioni socialdemocratiche. I riformisti erano e restano una minoranza. E una minoranza può scegliere solo tra testimoniare (una prospettiva che non lo appassiona affatto) o cercare, nei limiti del possibile, di condizionare la linea generale. Sempre che, naturalmente, una linea generale ci sia: la qual cosa, negli anni delle segreterie di Occhetto prima, di Massimo D'Alema poi, è, quanto meno, tutta da stabilire.
Un secondo esempio è molto più recente. Nel giugno del 2012, alla vigilia di una visita di Stato a Varsavia, Napolitano concede un'intervista ad Adam Michnik, direttore del più importante giornale polacco, la «Gazeta Wyborcza». Non è «solo» un giornalista, Michnik, esponente storico del dissenso polacco, figlio di un ex segretario dei comunisti dell'Ucraina occidentale, fondatore nel 1976, con Jacek Kuron, del Kor, il comitato di difesa degli operai polacchi: proprio in quella veste Napolitano lo ha incontrato per la prima volta trentacinque anni fa. Gli chiede, Michnik, che ha conosciuto le galere democratico-popolari della Polonia, se, parlando degli «errori» del passato, intendesse riferirsi all'età staliniana. E lui: «Intendo il periodo in cui ero membro attivo di un Partito comunista che non era un partito stalinista come molti altri, in quanto aveva una fondamentale matrice antifascista e democratica e comprendeva forti componenti liberali, ma era pur sempre nato nel solco dell'Internazionale comunista, e quindi portava nel suo Dna il mito dell'Unione Sovietica e il legame con il movimento comunista mondiale. Questi elementi originari, a un dato momento, sono diventati una prigione dalla quale il Pci doveva liberarsi.


Sotto i muri che crollano

Non c'è dubbio che, anche da «ministro degli Esteri» di un Pci ormai non più stalinista da un pezzo, Napolitano si sia spinto molto in là nel predisporre i piani di fuga da questa prigione, e per non lasciare i fuggiaschi in una terra di nessuno, cercando rifugio invece nel socialismo europeo. Non un minuto prima, ma un minuto dopo la caduta del Muro di Berlino, il grosso del Pci è riuscito comunque, grazie al coraggio (qualcuno dice alla temerarietà, altri addirittura alla più o meno lucida follia) di Achille Occhetto, a fuggire dalla «prigione», o meglio a evitare di restare intrappolato sotto le sue macerie. Non solo: grazie all'avallo concesso in extremis da un Craxi ormai peggio che periclitante, il nuovo partito postcomunista, il Pds, riuscirà pure, nel 1992, a entrare a far parte a pieno titolo dell'Internazionale socialista, conseguendo così l'obiettivo - un obiettivo storico - cui Napolitano ha lavorato con pazienza certosina per tanti anni. Paradossalmente però il Pds, socialista, o socialdemocratico, in Europa e nel mondo, in Italia non solo non si chiama così, e non ha nel proprio simbolo il più vago riferimento al socialismo o al laburismo, ma non si considera e non vuole essere considerato tale. Solo perché nell'Italia di allora dire «socialista» è come dire Craxi, o craxismo, con tutto quello che ne consegue?
Certo, anche in questa scelta pesano, eccome, gli effetti della lunga e feroce guerra civile a sinistra che ha imperversato in Italia per tutti gli anni Ottanta; e ancor più pesa il fatto che l'età dell' oro craxiana, se mai c'è stata davvero, sta finendo nel peggiore dei modi. Ma il gran rifiuto del Pci-Pds, e in primo luogo della giovane guardia berlingueriana che con Occhetto è andata al potere, ad alzare bandiera socialista ha radici più profonde, più antiche: probabilmente inestirpabili. Lungo tutto il decennio precedente, quello della guerra civile, Napolitano non ha cercato solo di individuare, di volta in volta, le tregue e gli armistizi possibili. Ha lavorato, spes contra spem, per tenere aperta la strada opposta, quella di una ricomposizione unitaria della sinistra italiana sull'unico terreno possibile, quello della socialdemocrazia e del riformismo. Può darsi, anzi, è probabile che non abbia dato battaglia con la nettezza e con la forza necessarie. Ma quello che hanno fatto, lui e i suoi compagni miglioristi prima, riformisti poi, è bastato per vedersi affibbiata la peggiore delle etichette, quella di essere, in due parole, succubi e complici del nemico: al diciottesimo congresso del partito, nel marzo del 1989, quello che improvvidamente indica l'obiettivo di un «nuovo Pci», la destra comunista è stata letteralmente falcidiata nell'elezione degli organismi dirigenti. La stessa caduta del Muro e la stessa svolta di Occhetto, che pure i riformisti, per via dell' ottimismo della volontà, sono impegnati a sostenere, non bastano a modificare in profondità questo stato di cose. E Napolitano, per via del pessimismo dell'intelligenza, ne è perfettamente consapevole: niente illusioni, «siamo una minoranza» .
Negli anni immediatamente successivi, in specie dopo che sarà il Psi a finire seppellito dal crollo di un altro muro, quello di Tangentopoli, i fatti si incaricheranno di rafforzare tutte le ragioni del pessimismo. Diventerà presto senso comune il riconoscimento che, se mai c'è stato un tempo utile per superare la particolarissima anomalia che ha fatto dell'Italia l'unico Paese democratico europeo privo di un grande partito di ispirazione socialista, questo tempo è scaduto. Stabilire chi porti le responsabilità maggiori di questa occasione perduta è, ormai, materia di lavoro per gli storici: il Pci non ha varcato, forse perché non poteva varcarlo, il fatidico guado, il Psi non c'è praticamente più, nell'Italia della cosiddetta Seconda repubblica la moneta politica socialdemocratica non ha dunque corso, se non in minoranze destinate in partenza a esercitare, al massimo, un ruolo di testimonianza. Il comunista italiano che per primo si è incamminato e si è inoltrato per questa strada prende atto senza clamori, ma con lucidità e amarezza nello stesso tempo, della sconfitta. Che è una sconfitta sua, certo, ma non soltanto sua. A Ovest e ancor più a Est, investe, in alcuni casi tragicamente, quel che resta dei «riformatori» di un movimento comunista rivelatosi, nell'ora decisiva, irriformabile.
Non vorrei esagerare. Ma qualcosa in più su quel frangente si può forse intuire da tre pagine dell'autobiografia di Napolitano dedicate alla triste storia di una persona del tutto ignota alla grande maggioranza dei lettori italiani, il suo compagno e amico Gyorgy Aczel, responsabile della politica culturale del partito ungherese, il Posu, negli stessi anni in cui lui lo è di quella del Pci. La storia, scrive, di «un riformista sconfitto». Comunista già nella clandestinità, resistente, Aczel è stato gettato in galera per cinque lunghi anni dal leader stalinista Màtyàs Ràkosi; dopo il 1956, ha collaborato con Jànos Kàdàr, e nel 1967 è entrato a far parte della segreteria del partito, ma ne è stato estromesso nel 1974, su richiesta sovietica, sotto l'accusa di liberalismo e revisionismo. «Credo di [...] essere profondamente autocritico in merito al mio operato» scrive al suo amico Napolitano il 13 novembre del 1989, ma, aggiunge, ora che si è finito per «dipingere completamente di nero tutto il passato», è diventato «il bersaglio principale dell'opposizione di destra e di quei [comunisti] dogmatici di ieri che cercano di salvare se stessi come ultrariformisti». Dunque, conclude, «sono un uomo che ormai vede il senso di tutta la propria vita rovinare». La vicenda, spiega Napolitano, è «emblematica della complessità tenebrosa della storia dei partiti comunisti»; ma di questa storia bisogna evitare «condanne indiscriminate», per rendere omaggio «a figure di riformisti e moderati sconfitti e umiliati come Gyorgy Aczel». Roma dista da Budapest 1231 chilometri, Napoli 1415, da noi lo stalinismo non ha mai disposto del potere politico di Stato e carri armati sovietici per le strade non se ne sono mai visti: nel 1989 Napolitano può uscire tranquillamente da casa, a differenza di Aczel, senza vedersi «segnato a dito come [ ... ] esponente del vecchio regime». Ma, lette e rilette quelle tre dolenti paginette, e fatte ovviamente tutte le differenze di questo mondo, la tentazione di trovare una qualche analogia tra la tragedia del «riforrnista sconfitto» ungherese e lo stato d'animo del «riformista sconfitto» italiano di allora è, almeno per me, molto forte.


L'abito fa il monaco

Gli stati d'animo sono una cosa. La politica un'altra. Si compie sostanzialmente qui (dovendo indicare una data: il 3 giugno del 1992, con l'elezione alla presidenza della Camera) il percorso di Napolitano uomo di partito e dirigente della sinistra italiana. Ma ne comincia subito uno molto diverso, quello dell'uomo delle istituzioni e dell'Europa, che trova il suo coronamento nell'elezione a capo dello Stato, avvenuta quando l'allora ottantunenne Napolitano non si considera certo un pensionato, ma ritiene comunque giunto ormai da qualche anno il tempo della riflessione storico-politica, della memoria, degli affetti. Tra le due stagioni, non c'è alcuna cesura netta (e, in fondo, cesure evidenti, databili con precisione in questo o quel passaggio storico non ce ne sono nemmeno nel Napolitano «politico», che transita dal togliattismo alla socialdemocrazia gradualmente, passo dopo passo, e sempre cercando un filo che possa legare la parte migliore del passato al presente e al futuro). In ogni caso, non si tratta certo di storie contrapposte. Perché la seconda non solo non si spiega, ma non si lascia nemmeno raccontare senza la prima. Qualcuno ha provato, e ogni tanto torna a provare, a scagliargliela addosso, la sua militanza di una vita nel Pci, anzi, nel gruppo dirigente del Pci: ma sempre senza successo. Altri si sono meravigliati, naturalmente apprezzandolo, del fatto che, in tempi calamitosi, Napolitano presidente abbia saputo rappresentare, oltre che una imprescindibile garanzia istituzionale, anche l'unica, forte risorsa politica a disposizione del Paese sul piano interno come su quello internazionale, nonostante un simile passato alle spalle. Forse però è vero, o più vicino al vero, il contrario, e cioè che tutto questo Napolitano presidente abbia potuto e saputo farlo non malgrado, ma in buona misura grazie a quei sessant'anni e passa di politica, in Italia, in Europa e nel mondo; non fosse altro perché, nel tempo dei dilettanti allo sbaraglio, aver fatto studi regolari in una scuola di tutto rispetto aiuta, eccome, anche se questa scuola ha chiuso da un pezzo i battenti, e dei limiti (chiamiamoli così) dei suoi docenti, nonché dell'infondatezza di molte (molte, non tutte) delle materie che vi si insegnavano ci si è resi conto da un pezzo.
In questo libro cerco, raccontando la storia del borghese Giorgio Napolitano dai suoi primi passi nel Pci al Quirinale, di renderne anche quello che, almeno a me, pare esserne il senso. Giudicheranno i lettori, come si diceva una volta. Ma un giudizio mio, personalissimo, in cui conta anche, credo, una conoscenza antica, lo voglio comunque anticipare. Napolitano è stato un uomo politico di primo piano, mai però un leader politico. Forse non ne ha avuto la stoffa, sicuramente non ne ha avuto l'ambizione: la lotta per il potere, in primo luogo in casa propria, non è mai stata nelle sue corde. Ma questo non gli ha impedito, anzi, di essere un capo dello Stato al quale gli italiani hanno guardato con una stima, un rispetto e una fiducia inversamente proporzionali a quelle, pressoché nulle, riservate (con sua crescente preoccupazione) alla politica, ai partiti, alle assemblee elettive. Di più: non gli ha impedito, anzi, di essere proprio lui, alieno quasi per carattere da ogni forma, anche la più larvata, di populismo, un capo dello Stato popolarissimo. I motivi sono tanti, naturalmente. Per quanto mi riguarda, credo sia anche perché Napolitano è riuscito a essere il punto di riferimento di una domanda di serietà e di compostezza (se questi due termini non fossero così abusati, si potrebbe anche dire: di sobrietà e di rigore), che nel profondo della società italiana è venuta maturando, di contro al caos dilagante, forse più di quanto in genere si creda.
All'opposto di quel che recita il proverbio, l'abito fa il monaco. E l'abito presidenziale Napolitano lo ha indossato da subito come se non ne avesse mai portati altri, o, almeno, come se nella sua vita precedente lo avesse provato un'infinità di volte. Persino quelli che gli avversari, e anche molti amici, hanno sempre considerato, in lui, dei limiti congeniti, sono sembrati trasformarsi, nel nuovo incarico, in virtù preziose. Sia nella prima fase del settennato, quando Napolitano ha incarnato il senso della misura repubblicana in un Paese straziato da una tragicomica simulazione di guerra civile a bassa intensità, rifiutando di lasciarsi tirare per la giacca da chi in sostanza gli chiedeva, a fin di bene, di esorbitare dai propri poteri e, in sostanza, di surrogare un' opposizione troppo debole e divisa. Sia nella seconda, la più difficile e anche la più controversa, quando questo senso della misura repubblicana non gli ha impedito affatto, anzi, di essere il regista, in uno dei momenti più difficili della vita nazionale, della ritirata di Silvio Berlusconi e dell'avvento di Mario Monti. In entrambe le circostanze, la grande maggioranza degli italiani, compresi molti elettori del centrodestra, e più in generale molti di quelli che, come me, preferirebbero di gran lunga vivere in un Paese almeno relativamente normale, in cui sono gli elettori a decidere chi sarà a governarli, gliene è stata grata.
Non credo che Napolitano si sia mosso, in questa circostanza, come se in Italia vigesse una sorta di presidenzialismo, o di semipresidenzialismo, di fatto, facendo leva su una crisi politica ed economica gravissima per esercitare poteri dei quali, in una democrazia parlamentare, il capo dello Stato non dispone: e non solo perché, per storia e per cultura politica, tutto è fuorché un presidenzialista. Di certo non è stato un presidente notaio. Ma, ammesso e non concesso che i suoi predecessori lo siano stati, sarebbe difficile, anche per i critici più severi, indicare quali contratti un Napolitano «notaio» avrebbe mai potuto stipulare.
La promessa fatta al Parlamento di non identificarsi nella (risicata) maggioranza che lo ha eletto l'ha mantenuta alla lettera. L'auspicio di un graduale superamento del «clima di pura contrapposizione e di incomunicabilità» tra maggioranza e opposizione, «a scapito della ricerca di possibili impegni comuni», invece, è rimasto nella sostanza tale, almeno fino all'autunno del 2011, quando, dopo una lunga, imbarazzante agonia, il centrodestra ha dovuto ritirarsi senza però che il centrosinistra fosse in grado di candidarsi ragionevolmente a governare l'Italia. Non si vive di soli auspici, specie quando il Paese è sull'orlo del baratro. Nella circostanza (drammatica) Napolitano l'antidecisionista ha voluto, dovuto e saputo decidere, e lo ha fatto attenendosi alle proprie prerogative, così come le determina una Costituzione che non prevede affatto né l'obbligo di sciogliere le Camere in presenza della crisi di un governo e della sua maggioranza né, tanto meno, presidenti del Consiglio indicati sulla scheda dagli elettori. Non solo. Se la politica, o quanto meno i simulacri di governi, partiti e coalizioni che nella cosiddetta Seconda repubblica l'hanno incarnata, sono stati, come si dice spesso, commissariati, non c'è dubbio che hanno provveduto da soli a creare tutte le condizioni, nessuna esclusa, per il loro (presunto) commissariamento.
Gli interrogativi (tutti legittimi) sul futuro prossimo non tanto del bipolarismo, che, per lo meno nella sua versione selvatica, un futuro non lo ha, ma della nostra stessa democrazia preesistono in larghissima misura al governo Monti e alla sua «strana maggioranza». Tuttavia, non c'è dubbio che tra il 9 novembre del 2011, quando Napolitano ha nominato Monti senatore a vita, e il 13, quando lo ha incaricato di formare il governo, sia accaduto, nella storia politica italiana, qualcosa di assolutamente inedito, non circoscrivibile alla necessità di fare fronte subito, e con la necessaria autorevolezza anche sul piano internazionale, all'attacco al nostro debito sovrano e alle pressanti richieste della Bce. Un tempo della storia nazionale si è (fortunatamente) concluso ma, oltre le luci e le ombre del governo dei tecnici, del tempo nuovo che dovrebbe succedergli, e che suscita più timori che speranze, non si intravede granché: se una cosa sappiamo è, come avrebbe detto Aldo Moro, che il futuro non è più, in parte, nelle nostre mani. È questa, credo, l'eredità sospesa di un settennato che ha fatto onore a Giorgio Napolitano e, nonostante tutto, alla Repubblica.