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2014,
Numero 2/3

All'estero nell'Internazionale socialista, ma PDS in Italia: fu ambiguità

Con Occhetto in maggioranza la parte minoritaria del Pci, individualismo e movimentismo
di Gianni Cervetti

La prima considerazione che va fatta leggendo l'“intervento di Giorgio Napolitano” alla Direzione del PCI del 14 novembre 1989 è che esso si configura come uno “strappo” rispetto al modo con cui i comunisti italiani hanno operato per determinare l'evoluzione del loro partito. Salvo forse, infatti, ciò che accadde nel periodo '43-'45, quando l'allora PCdI (partito comunista d'Italia, sezione dell'Internazionale, et nomina sunt consequentia rerum) si trasformò in “partito nuovo” attraverso una rifondazione di tipo nazionale, la storia del partito comunista italiano è stata caratterizzata da successive modificazioni basate sul principio del “rinnovamento nella continuità”.
Oggi, al contrario, “le politiche dei piccoli passi – dice Napolitano – non reggono più”. Occorre prendere atto della “accelerazione dirompente” determinatasi nella “storia europea” e perciò, si deve innovare.
E' proprio in questa costatazione, e nella relativa necessità di innovazione, che si trova la radice della prima e fondamentale distinzione tra la posizione di Napolitano e coloro che verranno denominati del “fronte del No”, i quali, come si sa, non saranno solo disposti a far valere nell'opera di trasformazione del PCI “la parte più viva della tradizione comunista”, ma si proporranno di mantenere un rapporto di “continuità” con quella intera tradizione.
Del resto, anche la relazione di Occhetto che aveva aperto i lavori della Direzione, così come la sua azione nel periodo (piattaforma avanzata alla Bolognina, ecc.) si presentarono in forma di rottura nei confronti del metodo comunista tradizionale. Lo stesso Napolitano, nella propria autobiografia “Dal Pci al Socialismo europeo”, riferendosi al comportamento di Occhetto sia in quella specifica riunione del 14 novembre, sia più in generale nella attuazione della “svolta”, parla di “estrema determinazione” e di “non comune coraggio” del segretario, sottolineando così – a mio avviso – anche un modo di agire che differiva da quelli tenuti nel passato allorché dsi impressero nella vita del PCI elementi di novità più o meno marcata.
In realtà nell'”intervento di Giorgio Napolitano” e nella relazione di Occhetto vi è un'altra coincidenza la quale non concerne soltanto la metodologia, ma attiene agli intenti e allas volontà politica. Nell'un discorso e nell'altro si sostiene, neppure con diversi accenti, che una pagina di storia – quella del comunismo in genere e quella del PCI in quanto tale – la si deve considerare superata dal momento in cui “il rapporto organico da stabilire” è “con l'Internazionale Socialista” (IS).
Detto tutto ciò, è nella pars costruens o, se si vuole, sulla prospettiva politica, che le due posizioni o proposte si differenziano nettamente. Quella avanzata dall'allora segretario è racchiusa nella denominazione che il nuovo partito assumerà: “democratico della sinistra”. Si tratta, in sostanza, per Occhetto e il gruppo che si raccoglie intorno a lui, una formazione politica a sfondo ELITARIO, ma con forti connotati che possono essere definiti, magari sbrigativamente, da un lato movimentisti e dall'altro democratico-individualisti. Sono connotati che erano già presenti nel PCI, ma in quel corpo si trovavano in condizioni di minoranza e che ora, invece, nella nuova formazione, diventano maggioranza.
Sì, è vero, e lo abbiamo appena più sopra ricordato, anche Occhetto e coloro che si raccoglieranno attorno alla sua piattaforma si esprimono e si adoperano (la lettera a Willy Brandt, richiamata da Napolitano varrà da esempio di ciò) per l'adesione alla Internazionale Socialista, ma la particolare torsione che intendono imprimere, e nei fatti imprimeranno, al nuovo partito “democratico della sinistra” determina una ambiguità di fondo e indica quali siano i propositi con cui avanza la richiesta di adesione.
D'altra parte, anche le due successive “trasformazioni” del PdS in DS e dei DS in PD non cancelleranno l'impronta originaria e, semmai, auspici le iniziali e le ulteriormente acquisite contraddizioni, imprimeranno alle formazioni via via susseguitesi un carattere politicamente sempre più discostato dalla proposta di Napolitano e, organizzativamente, una struttura di tipo “tribale”.
D'Alema, succeduto a Occhetto, riuscirà ad ottenere con il Congresso di Firenze, detto della “cosa due” e enfaticamente presentato come una operazione di allargamento a forze socialiste e cattoliche, nient'altro che il risultato emblematicamente racchiuso nella fortunata formula di Emanuele Macaluso: “da cosa non nasce cosa”.
La formale confluenza, poi, di DS e Margherita nel PD si risolve, in assenza di una autentica riflessione critica per elaborare una piattaforma di governo rispondente all'interesse generale del Paese, in una giustapposizione di forze eterogenee o particolaristiche. Ma qui siamo chiamati soprattutto a commentare l'”intervento di Giorgio Napolitano”. Il quale intervento, spogliato drella comprensibile e opportuna veste con cui si presenta al PCI per convincerlo a superare la propria storia (la rivendicazione del “nostro ruolo”; il richiamo alla “nostra serietà e dignità”; il riferimento as Longo, Berlinguer, Natta, ecc. ecc.), contiene tre elementi caratterizzanti la natura e la prospettiva della nuova formazione politica.
Innanzitutto, vi si trova un rapporto con alcuni tratti essenziali del PCI, e ciò non è in contraddizione con lo “strappo” metodologico in quanto, appunto, il rapporto concerne la parte viva della passata esperienza e non l'intera storia e natura del “vecchio” partito. E quali sono i tratti riproposti? Napolitano definisce il PCI “un Partito riformista di massa”.
Ora, che esso sia stato un partito di massa è del tutto chiaro. Quanto, poi, al connotato “riformista” occorre procedere a una netta distinzione. Effettivamente, il PCI è stato una formazione politica e culturale riformistica nella sua azione e nella pratica fin dal momento in cui si è impegnato a fornire il proprio pieno contributo per dare all'Italia una Costituzione e una Repubblica democratiche.
Nella teoria, invece, o se si vuole, nei suoi riferimenti ideali e storici, esso è stato qualcos'altro e, come è noto, tali riferimenti non sono mai, per chiunque e per qualsiasi istituzione, un semplice orpello poiché, in realtà, influenzano il modo di pensare ec di agire, la coscienza insomma, degli uomini e delle donne che aderiscono al disegno proposto e perseguito. In sostanza, anche in ragione di ciò, per il PCI è giustificato l'appellativo di strano animale, di “giraffa”, con il quale era solito definirlo lo stesso Togliatti., Non è, quindi, un caso che Napolitano sottolinei, da un layto, l'esigenza di collegarsi alla part viva della passata esperienza tralasciando quel che è superato e caduco, e dall'altro, nel farlo, chiarisce che vivo è il carattere “riformista di massa”.
Il secondo elemento caratterizzante della piattaforma proposta è dato dall'approdo nell'Internazionale Socialista. Napolitano sa bene che, a questo proposito, sono presenti nella dirigenza del PCI due differenti tipi di ostacoli da superare: la tesi di chi ritiene che si debba entrare nell'Internazionale Socialista per rafforzare l'”ala sinistra” o, addirittura, che occorra costituire una forza europea minoritaria dei raggruppamenti comunisti rimanenti (cosa che effettivamente sarà poi promossa da “Rifondazione”) la quale potrebbe convergere con la famiglia socialista solo in alcuni obiettivi; la posizione di chi considera l'ingresso nell'Internazionale Socialista – che pure necessita, secondo norma statutaria dell'Internazionale, dell'avvallo del PSI, e che lo otterrà nei fatti – come un modo di garantire alla “nuova formazione” una sorta di mandato internazionale di primaria rappresentanza in Italia, confidando su una maggiore forza politica e numerica nei confronti del PSI.
È, dunque, per superare il primo ostacolo che nell'”intervento” si insiste nel “lungo cammino” già percorso o nella “importanza della Presidenza di Willy Brandt”, o nel fatto che è l'Internazionale Socialista in quanto tale che “si è aperta al contributo della parte valida e più viva della esperienza comunista”, o su altri analoghi argomenti ancora. Anche al fine di superare il secondo ostacolo si usano vari argomenti, il principale dei quali, però, si identifica con il terzo elemento che dovrebbe caratterizzare il nuovo partito.
E questo terzo elemento, come è evidente, si esprime nei concetti che nell'immediato definiscono il rapporto con il PSI e nella prospettiva di medio termine delineano la costruzione di ciò che in Italia non è mai esistito, cioè una grande forza del socialismo europeo. Con queste motivazioni si respinge “la nostra confluenza nel PSI” perché, tra l'altro, “neanche quella tra il PSI e il PSDI si è realizzata”, mentre si sollecitano “proposte di avvicinamento e di unità tra noi e il PSI” e, soprattutto, si afferma che “la nostra odierna decisione è il compimento di una nostra presa d'atto che supera la distinzione e la divisione tra le forze che pensano un socialismo di libertà e democratico”.
Nell'insieme, l'“intervento di Napolitano”, in specie attraverso i tre ricordati elementi caratterizzanti, configura èer l'essenziale la piattaforma e la natura della nuova annunciata formazione politica; dell'una, come si sa, l'auspicio rimarrà tale e la strada che sarà concretamente e principalmente imboccata non sarà quella del “socialismo europeo” bensì quella del “partito democratico della sinistra” e delle sue successive trasformazioni.
In sede storica è, tutavia, opportuna, accanto allas costatazione dell'accaduto, una ulteriore riflessione volta a ricercare e a spiegare i motivi che hanno impedito la realizzazione della “proposta Napolitano”, fatta, peraltro, immediatamente propria da quel gruppo minoritario, ma sicuramente autorevole, di esponenti del PCI, i quali dapprima si raccolsero attorno alla piattaforma della cosiddetta “adesione ragionata” alla formazione del nuovo partito e in seguito diedero vita all'”area riformista”. Ha, infatti, poco senso attribuire la responsabilità della mancata realizzazione di un disegno politico a cause astratte o, di contro, quali, nel caso, da un lato l'anomalia che impedirebbe all'Italia di contenere forze – in specie un partito di massa del “socialismo di libertà e democratico” - esistenti in altri Paesi europei, oppure, dall'altro lato, l'opposizione di chi perseguiva altri obiettivi: in specie, la creazione di un “generico” partito della sinistra la “rifondazione” comunista.
In realtà una analisi ravvicinata degli eventi e dei movimenti verificatisi nel periodo in questione (1989-'91), due motivi, tra gli altri, appaiono a nostro avviso, concomitanti e determinanti nell'ostacolare il disegno ALLOCATO. Fatto è, in primo luogo, che la prospettiva indicata nell'intervento di Napolitano e sostenuta dai riformisti del PCI non ha trovato i necessari referenti e contraenti “esterni” o, per dirla altrimenti, una vera e propria sponda politica che potesse rendere realizzabile l'idea della edificazione in Italia di un grande partito del socialismo europeo.
Il PSI aveva scelto di percorrere la strada dell'”unità socialista”, cioè dell'allargamento della propria base organizzata ed elettorale, illudendosi semmai di replicare ciò che Mitterrand aveva ottenuto nella sinistra francese: e anche quelle forze che tra i socialisti italiani, magari di tendenza “autonomista” avevano perorato e proposto, qualche anno prima, altre e più realistiche soluzioni unitarie per la intera sinistra italiana erano state sconfitte.
Le stesse forze sociali – e, innanzitutto, la cooperazione e i sindacati dei lavoratori che, pur nella loro autonomia, erano e sono componente essenziale per la costruzione di una formazione politica socialista e riformista di massa – non si dimostrarono disponibili nella loro maggioranza e con le loro divisioni, a costruire il disegno delineato.
In secondo luogo, tra i riformisti del PCI continuava ad agire, più o meno consapevolmente, la tradizionale idea di ascendenza comunista, secondo la quale l'unità, pur essendo in sé un bene prezioso, è prima di tutto da salvaguardare come unità del partito in cui si milita. E pure ciò non poteva che rappresentare una barriera per il raggiungimento dello scopo proposto e l'anticamera della sconfitta politica.
Naturalmente, i due suddetti motivi avevano le loro radici sia in varie “occasioni mancate” per far decisamente convergere, se non unificare, le grandi forze della sinistra (1945; 1964; ecc.), sia in una insufficiente preparazione politico-culturale all'unità fondata sulla “pari dignità” di ciascuno. E ciò è qui una lezione su cui anche oggi varrebbe la pena di meditare.