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2014,
Numero 2/3

Storia di vent'anni. Il Crollo della prima repubblica

Un nuovo studio sulla transizione incompiuta in un libro di Ludovico Festa
di Lodovico Festa

CAPITOLO I - IL CROLLO 1992

23 gennaio 1992: Francesco Cossiga, «sotto accusa» per Gladio, lascia il Quirinale il 28 aprile.
17 febbraio 1992: è arrestato Mario Chiesa. Lo stesso giorno si firma il trattato di Maastricht.
5 aprile 1992: politiche: il centrosinistra (Dc, Psi, Pri, Pii e Psdi) ha più del 50 per cento dei voti.
24 aprile 1992 : retata di imprenditori milanesi. 3 maggio: avvisi di garanzia per gli ex sindaci di Milano Tognoli e Pillitteri.
23 maggio 1992: assassinato Giovanni Falcone.
25 maggio: Oscar Luigi Scalfaro eletto al Quirinale.
28 giugno 1992: Giuliano Amato presidente del Consiglio.
10 luglio:

I. Gli sconfitti
Dura manovra patrimoniale (case e conti correnti).
19 luglio 1992: ucciso Paolo Borsellino. 25 settembre: Luciano Violante all'Antimafia. 17 dicembre: Gian Carlo Caselli alla procura di Palermo.
2 settembre 1992: si suicida il senatore socialista Sergio Moroni. Arresti e avvisi di garanzia colpiscono De Michelis, Ligresti.
13 settembre 1992: svalutazione della lira, uscita dallo Sme, perdite fino al 25 % su marco e franco. Fino al 30% sul dollaro.
12 ottobre 1992: Martinazzoli sostituisce Forlani alla guida della Dc. 15 dicembre: primo avviso di garanzia per Bettino Craxi.
La liquidazione del Partito socialista italiano e quella dell'area moderata della Dc non possono essere affrontate con i giudizi sommari (sia pure di segno opposto) dei tanti antipatizzanti o dei non pochi nostalgici. Bettino Craxi non è Nicolae Ceausescu, Giulio Andreotti e Arnaldo Forlani non sono politicanti sudamericani: sono gli uomini di governo che negli anni Ottanta portarono l'Italia al rango di sesta economia globale. La ripugnanza, però, per volgarità, ancora in corso, contro i politici magna-magna (talvolta impreziosite da riflessioni sul familismo delle nazioni mediterranee o sulla mancata riforma protestante) non impedisce di dubitare delle analisi consolatorie che individuano nel mero uso della «forza» (dei magistrati) la causa della sconfitta del riformismo socialista e delle tendenze liberali della Dc.
Partendo dall'esaminare le basi della sconfitta del Psi non si possono sottovalutare gli errori craxiani sui «tempi»: le mancate elezioni nel 1991, il non accordo sul Quirinale'. E il controllo dei «tempi» è essenziale nella manovra politica. Sono evidenti, poi, anche alcune ingenuità nelle alleanze, altro elemento fondamentale dell'iniziativa politica. U go Finetti in un importante saggio (Storia di Craxi, editore Boroli 2009) sottolinea l'errore di Craxi nel proporsi di sostituire Andreotti alla guida del governo e di mettere Forlani al posto di Cossiga', senza pensare a collocazioni alternative per i due potenti esponenti dc privati delle loro cariche. Conversando con Finetti si è ragionato pure su un condizionamento del leader socialista derivante dagli antichi rapporti nell'associazionismo universitario'' con Marco Pannella e Achille Occhetto: dal primo, il leader del Psi si farà convincere a scegliere come presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro (peraltro suo efficiente ministro dell'Interno) provocando così la rovina principale; del secondo sorprendentemente si fiderà, acconsentendo all'entrata dell'ex Pci nell'Internazionale socialista, rinunciando al voto nel 1991 per evitare guai a Botteghe Oscure, senza ricevere in cambio alcuna reale apertura. Ci sono stati dunque difetti di presunzione rispetto alla propria forza concreta da parte di Craxi (e, più in generale, dei leader moderati del centrosinistra). Certo ha contato anche il quadro internazionale che giocò contro il centrosinistra senza che né socialisti né moderati dc lo percepissero appieno.
Alcune dinamiche strutturali, però, del quadro nazionale spiegano in sé la parte fondamentale di quello che è avvenuto. In questo senso «il crollo» del 1992 non può essere compreso solo attraverso la politique politicienne. Di fatto si consumarono i margini di uno Stato che formatosi tra il 1943 e il 1948 non era riuscito a includere definitivamente parti essenziali della società. A iniziare dalla cultura liberale” che, dopo avere guidato la nazione per un cinquantennio, venne considerata responsabile dei difetti politici che avevano portato al fascismo (elitismo, trasformismo, protezionismo) ed emarginata anche nella nuova Repubblica. Proseguendo con una borghesia che nel Secondo dopoguerra non assunse a pieno il ruolo di classe dirigente anche per le compromissioni con il precedente regime. Con i ceti medi, poi, ci fu più un rapporto di delega ambigua (si consideri solo la largamente consentita evasione fiscale) che una vera integrazione nello Stato. Infine gli orientamenti di larghi settori popolari furono segnati da un atteggiamento antagonistico verso il nostro sistema economico-sociale: Craxi impiegherà cinque anni di segreteria per riuscire a definire il Psi «riformista»; i comunisti «pragmatici» solo dopo la caduta del Muro di Berlino (13 agosto 1961 - 9 novembre 1989) inizieranno a chiamarsi pubblicamente «riformisti». E queste difficoltà derivano direttamente da radicati atteggiamenti classisti di parte decisiva del lavoro dipendente. Anche la «questione cattolica», inoltre, è stata affrontata più con la surroga anticomunista assunta dalla Chiesa nel 1947 e poi col ruolo dello Stato fanfaniano, che con un vero confronto tra tendenze secolarizzatrici e cultura religiosa.
Quando saltarono le «protezioni» collegate al ruolo internazionale dell'Italia, si interruppero meccanismi che saldavano più o meno precariamente questa società (solo parzialmente responsabilizzata) e questo Stato (con basi sociali non adeguate).
Craxi propose la Grande riforma: era consapevole delle «scollature», ma poi i movimenti che perseguirono attivamente obiettivi di riforma istituzionale (e quelli più o meno connessi di riforma fiscale) ebbero segno ora leghi sta ora pannellian-segniano, non craxiano. La svolta del 19845 sulla scala mobile aprì una discussione tra i lavoratori, ma il passaggio dalla testimonianza riformista alla lotta per l'egemonia riformi sta nei sindacati ha dovuto attendere sostanzialmente fino al 2008. Il Psi colse l'emergere di una nuova borghesia modernizzatrice dell'Italia ma poi i rapporti fondamentali furono tenuti con Gianni Agnelli e solo quando questi sarà fischiato nel 1994 (perché antiberlusconianamente si lamentava che non fosse stato eletto presidente del Senato Giovanni Spadolini) a un'assemblea di industriali a Verona, inizierà concretamente a cambiare qualcosa nella rappresentanza degli imprenditori.
Verso intellettuali che uscivano dall' estremismo sessantottesco, Craxi fece aperture nel 1985 aiutando a far pubblicare il quotidiano Reporter”, una costola della vecchia Lotta continua. Si sarebbe potuto così creare un legame come quello tra Gerhard Schroeder e Joschka Fischer? che, pur con limiti, ha favorito modernizzazione e integrazione della società tedesca. Ma nel 1988 grazie a un rapporto tra corpi dello Stato, procura di Milano e ambienti del Pci che ri.hiama in modo impressionante la prossima stagione di Mani pulite, venne incriminato Adriano Sofri per l'omicidio di Luigi Calabresi”, Gran parte degli ex lottacontinuisti (con generose eccezioni anche a sinistra come Marco Boato) finirà, poi, per una sorta di sindrome di Stoccolma, a ispessire le file dei giustizialisti.
Forse senza l'uso abnorme della magistratura, con più xmsapevolezza su tempi e alleanze, i leader del centrosinistra avrebbero potuto superare la crisi del ‘92 per via politica. Seppure valutazioni strutturali indichino un deficit di forza per questo obiettivo. Ma così non andò, e azione di pm e «distrazioni dei leader» non provocarono solo una crisi polit ica, bensì quella radicale - ancora in atto - dello Stato.

1. I disertori
I risultati politici principali di Mani pulite sono la distruzione del Psi e poi quella dell'area moderata della Dc: del partito di ! Icide De Gasperi resterà in piedi sostanzialmente il nucleo della «sinistra», solo sfiorata da qualche indagine su singoli esponenti. Intorno a questo nucleo si formeranno i vari «ParI i (o popolare», «Margherita» fino al «Partito democratico»? rnsieme agli eredi del Partito comunista italiano, l'altra forza lurgarnente risparmiata dalle inchieste giudiziarie.
Nonostante diffuse nostalgie, l'esperienza storica della l Jc si è consumata. Chi ne agita ancora il vessillo ricorda i honapartisti dopo la morte di Napoleone: persone che vivo- 110 in un passato senza più prospettive. Finita la fase iniziale della Dc, sorretta dall'impegno della Chiesa a evitare la tin, quest'ultimo alla fine si dimetterà sia per le insensate posizioni del Pds di Occhetto, sia per i limiti della Cgil, sia per la maturazione di un «erede» che appariva (poi deluderà ampiamente) più credibilmente riformi sta come Sergio Cofferati”. Grazie a nuove intese si definirà un sistema salariale che porta strutturalmente sotto controllo l'inflazione, non risolvendo però, a causa dell'eccesso di centralizzazione contrattualistica («totem» cigiellino), i problemi di fondo della produttività. Le altre scelte (tagli, privatizzazioni, assestamento del sistema del credito) continueranno sulla linea amatiana: scelte utili, in parte inevitabili per l'emergenza, caratterizzate però dalla mancanza di visione, intrinseca all'operare - al fondo irresponsabile - di un governo tecnico.
Molto di quel che avviene tra il 1992 e il 1993 è frutto di un'emergenza incontrollata (e forse incontrollabile), in parte a causa di un eccesso di influenze esterne, in parte della crisi di uno Stato troppo disegnato su'un'altra stagione storica, e anche di una tendenza di settori rilevanti delle classi dirigenti (innanzitutto di quelli decisivi della grande borghesia) a cercare una guida del governo insieme forte per mancanza di alternative e fragile per la deresponsabilizzazione inevitabile che comporta la mancanza di alternative. Con una fondamentale conseguenza: la mancanza di verità tipica di governi strutturalmente irresponsabili come quelli tecnici. Non sempre la verità conduce al bene: la storia del Novecento testimonia come certe «verità» (la rabbia popolare per la guerra ‘14-' 18, o la successiva umiliazione della Germania) abbiano prodotto devastanti tragedie. Ma la «non verità» programmati ca preclude qualsiasi tipo di visione e quindi di proiezione nel futuro.

2. Cose nostre, cose loro & cose di tutti
La mafia italiana, racconta Louis Freeh in My Fbi (le sue memorie pubblicate da St. Martin's Press, 2005), viene riorganizzata, sull' orlo dello sfaldamento, da Lucky Luciano esiliato dagli Stati Uniti negli anni ‘50, che convince i boss locali a darsi un'organizzazione centralizzata (la «cupola»). È allora che la principale risorsa di Cosa nostra, lo scambio politico, viene razionalizzata. La riflessione di Freeh, grande amico di Giovanni Falcone e Gianni De Gennaro? come scrive nelle memorie, è rilevante perché svolta dal direttore del Bureau che non solo non considerava Cosa nostra invincibile, ma la smantellò nel caposaldo americano.
La seconda rivoluzione di Cosa nostra si colloca alla fine dei Settanta con l'inserimento nel traffico degli stupefacenti, che conferisce nuovo potere anche finanziario. Da qui l'incremento delle iniziative, poi su una linea più accentuatamente militare (la politica serve meno) con lo sterminio dei «diplomatici» palermitani e l'affermarsi dei «duri» corleonesi, e l'ondata di assassini di uomini delle istituzioni (da Rocco Chinnici a Cesare Terranova, a Carlo Alberto Dalla Chiesa, a Pio La Torre)”. Contro la svolta mafio sa vi sarà sia una risposta popolare (la «primavera palermitana») sia giudiziaria-istituzionale con Falcone. L'efficacia politica e repressiva delle risposte di fine anni Ottanta porterà la volontà di potenza e lo spirito militare dei corleonesi ad aumentare in modo drammatico la ferocia dei crimini provocando però un intervento dello Stato che colpirà seriamente Cosa nostra.
Così si arriva al ‘93, quando in settori dello Stato impegnati contro la mafia (sia forze di polizia sia pm) tende a prevalere l'idea che Cosa nostra non sia tanto un'organizzazione criminale in sé quanto la funzione di un assetto di potere interno alle istituzioni, senza lo smantellamento del quale non si risolverà mai la partita. Da qui l'incriminazione di Giulio Andreotti, di Calogero Mannino e tanti altri politici di prima fascia, e poi la persecuzione giudiziaria di Marcello Dell'Utri” come nuovo re ferente del patto organico tra Stato e mafia. In un libro magicamente delirante (Patria 1978-2010, editore il Saggiatore 2009), Enrico Deaglio racconta così - dando epicità alle posizioni di certi settori della magistratura inquirente - la storia nazionale.
La nostra discussione pubblica è permanentemente nevrotica, tende a non affrontare argomenti razionali ma si propone perlopiù di suscitare emozioni. Nelle discussioni attuali sulla lotta alla mafia questa cifra nevrotica si esprime innanzitutto nell'appello a quello che è -sacrosantamente - considerato dalla comunità nazionale un martire:
Falcone. Giustamente Violante fa rilevare' (nel suo Magistrati già citato) ad alcuni falconiani dell'ultima ora, la loro opposizione al magistrato espressa negli anni Ottanta. Non mancò, allora, un'ampia ala garantista (non solo pelosamente ma anche sinceramente garantista) che criticò certe forzature nella gestione del maxiprocesso falconiano. Particolare impressione suscitò l'attacco che devastò la vita del giudice di Cassazione Corrado Carnevale>, finissimo - talvolta sin troppo - giurista che faceva prevalere il «testo» della legge sulle «esigenze materiali» di colpire la criminalità organizzata.
Su questo tema del rapporto tra emergenza e norma giuridica alla fine degli anni Ottanta il «folle» Cossiga osservò (innanzitutto contro Andreotti'”) - e il politico sardo si era così espresso anche nel contrasto al terrorismo - che era meglio una specifica legislazione di emergenza piuttosto che piegare la giurisdizione corrente a fini emergenziali.
Senza dunque togliere nulla a certe durezze falconiane e a certi contrasti con aree garantiste, non è impossibile però ricostruire una linea del giudice palermitano che si discosta dall'idea del grande complotto criminale caratterizzante la storia nazionale di cui la mafia sarebbe in effetti solo un terminale: la scelta stessa di Falcone di lavorare con Andreotti e Martelli (atto che concretamente «terrorizza» i corleonesi), il suo insistere sull' «indipendenza» di Cosa nostra da altri poteri, la sua operazione per isolare i mafiosi dalla politica piuttosto che indicarli come frutto di uno Stato criminogeno, la sua idea di una risistemazione della magistratura (a partire dalla separazione delle carriere) per ridare responsabilità alla politica, sono sufficientemente delineate per non essere smentibili. E determinarono allora rotture sia con l'antimafiosità più radicale di Leoluca Orlando!” (peraltro connessa all'inevitabile assistenzialismo necessario per sostenere socialmente il suo estremismo) sia con le posizioni in quegli anni prevalenti nella Magistratura democratica più legata al Pci, a partire da Violante.
La commistione tra contrasto della criminalità e lotta politica, oltre un certo livello, produce sempre perversioni incontrollabili: lo dimostra efficacemente il caso della Campania, dove un Antonio Bassolino” divenuto figura centrale di quella regione proprio sull' onda di questa impostazione (smantelliamo il sistema camorristico centrato sul «gavismo» e risolveremo anche i problemi della criminalità locale) non solo non ha, in oltre un decennio, eliminato l'emergenza criminalità ma l'ha gravemente peggiorata, anche grazie al prevalere di una linea politicizzata sintonica in molte delle procure campane (persino un pm ultragiustizialista come Agostino Cordova fu allontanato da N apoli perché troppo di destra).
D'altro verso proprio il caso Salerno, comune guidato da un antagonista del bassolinismo nel Pci poi Pds-Ds come Vincenzo De Luca, dimostra che è possibile percorrere una via opposta in cui la politica batte i criminali facendo politica.
La linea che non si pone il problema di separare i criminali da una società pur ricca di elementi di corruzione, finisce invece per criminalizzare ampiamente tutta una società. Il che è di fatto politicamente non tollerabile e porta inevitabilmente all'offuscamento della verità come emerge con chiarezza da un episodio centrale del ‘93: la decisione da parte di Giovanni Conso, allora Guardasigilli, di alleviare l'applicazione del 41 bis, dispositivo di aggravanti penali e carcerarie connesse al reato di associazionismo mafioso, per qualche centinaio di aderenti a Cosa nostra. Dopo una lunga fase durante la quale si è cercato di «incastrare» Dell'Utri sostenendo che aveva scambiato l'appoggio della mafia a Forza Italia con la promessa di alleviare il 41 bis (richiesta peraltro mai materialmente soddisfatta da esecutivi di centrodestra) si è scoperto improvvisamente - dopo circa 17 anni - che un più o meno simile provvedimento era stato assunto da un giurista senza macchia come Conso considerato da Violante uno dei suoi maestri, con Ciampi a Palazzo Chigi che sostiene di «non aver saputo niente»; con uno Scalfaro che sul caso ha balbettato mentre il suo «badante» Gaetano Giffuni - figura centrale prima a Montecitorio e poi al Quirinale nell' affiancare Oscar Luigi - ha confermato (nello sconcertante silenzio della stampa «indipendente») una discussione sul caso tra presidente e capo della polizia, un'altro «badante» dello scalfarismo, Vincenzo Parisi”.
È evidente come uno Stato sottoposto a un duro attacco terroristico possa avere la necessità di articolare i comportamenti (naturalmente senza giustificare in nessun modo alcune eventuali scelleratezze come complicità con l'assassinio di Paolo Borsellino). È chiaro che alcune manovre, al netto delle scelleratezze, non determinano automaticamente una trattativa criminogena, come si è imputato a un perfetto servitore dello Stato quale il già capo dei Ros dei carabinieri Mario Mori”. Ma è l'idea del governo dei puri (e in quanto tecnici irresponsabili) che impedisce quel minimo di verità su cui è possibile costruire la discussione pubblica. L'operazione del 1993, che nessuno conosceva sino al 2010, sul 41 bis, ha la stessa impronta di rinuncia alla verità che si verifica nell'impedire a Conso di legiferare sul finanziamento illecito, della deplorevole operazione «non verità» di Scalfaro sul Sisde (per non parlare dei casi Marcello Gavio o Cornelio Valletto), dell'imbarazzante silenzio con cui si accolse uno dei discorsi più tragici della storia repubblicana, quello di Bettino Craxi nell'aprile del ‘93 sul sistema di finanziamento dei partiti in Italia, dello sbeffeggiamento del Parlamento da parte del pool di Milano, della mancanza di rispetto verso i padri costituenti con cui si accolse senza discutere il superamento di un'immunità parlamentare pensata, con funzione di bilanciamento dei poteri, come perfettamente simmetrica all'indipendenza dei pm. Sono questi i suggelli della politica di un governo pur non privo di meriti ma di fatto «senza (sufficiente) verità» come quello di Ciampi.


CAPITOLO SECONDO

3. Un riformismo ubriaco
Mentre i governi Amato e Ciampi contrastano le emergenze della crisi con qualche efficacia (ma senza verità e prospettiva), mentre i leader del Psi e della Dc moderata sono sempre più sconfitti, la «diserzione» di forze «costituenti» fondamentali come sinistra Dc ed eredi del Pci, abbandona i problemi di assetto delle istituzioni a un movimento referendario che gode sia della geniale capacità organizzativa di Marco Pannella (uomo talora indispensabile alla Repubblica quando apre spazi di libertà, ma vera piaga quando passa alla parte costruens) sia del protagonismo di un Mariotto Segni” senza dubbio tenace ma non privo delle fragilità caratteriali tipiche di certi figli di uomini autorevoli.
Segni si batte negli anni Ottanta dentro la Dc per scelte modernizzatrici, lavora con personalità anche di qualità (tra tutte, Roberto Mazzotta). E nella tempesta degli anni Novanta sceglie di (e viene scelto per) dare un colpo agli assetti istituzionali della Prima Repubblica. Con una serie di referendum nel 1991, nel 1992, nel 1993 porta ad abolire la preferenza plurima nelle elezioni locali, promuovere l'elezione diretta dei sindaci, scardinare il sistema quasi perfettamente proporzionale del voto politico: modifica così il quadro istituzionale complessivo in punti decisivi. Sono in sé scelte largamente condivisibili, ma che non producono quella riforma dello Stato che la chiusura della Guerra fredda imponeva. Alla fine nonostante tutto resterà centrale la posizione degli adoratori fanatici della Costituzione (razza ben diversa da quella degli estimatori consapevoli) che sostengono la spericolata tesi per cui l'Italia sarebbe stata un Paese completamente corrotto nonostante il suo perfetto sistema istituzionale. Tesi assolutamente simmetrica a quella di tanti destalinizzatori dell'Est europeo: il socialismo era un sistema meraviglioso, solo che Giuseppe Stai in l'aveva applicato male.
Alcuni opinionisti «sostanzialisti» ritengono che di fatto tutto ciò che serviva è stato portato a casa: abbiamo amministratori scelti dal popolo, c'è un sistema bipolare di alternative politiche. L'essenziale va! L'intendenza napoleonicamente seguirà.
Anche senza accettare integralmente gli arrabbiati argomenti di un fine scienziato della politica come Giovanni Sartori, che insiste su come alla politica servano sistemi coerenti e non patchwork improvvisati, non è azzardato osservare come il riformismo ubriaco degli anni Novanta abbia fallito su un obiettivo decisivo: costruire l'ambiente per una nuova generazione di partiti. Ed è l'incoerenza di sistema che produce questo effetto: la mancanza di contrappesi politici fa sì che ogni razionalizzazione sia vissuta con preoccupazione (e tendenzialmente respinta) da una società che ha pagato già prezzi esagerati ai troppi poteri della politica. L'anarchico sistema di voto imperante (dai comuni alle province alle regioni alla Camera al Senato all'Europa, l'elettore italiano ogni volta vota in modo diverso), il caos della divisione di responsabilità tra assemblee ed esecutivi - evidente anche su scala nazionale ma esplosivo in regioni ed enti locali - hanno impedito la costituzione di veri soggetti politici nazionali, consentendo - perché si mantenesse quella minima funzione unificante che la politica non può non esprimere - solo la formazione non di movimenti leaderistici ma «personali» (dal berlusconismo al bossismo al dipietrismo, al prodismo, al vendolismo fino al casinismo e al finismo con persino un tentato renzismo) con la parziale eccezione di quella ensemble scombinata di cacicchi che sono le aree ex Dc ed ex Pci del Pd.
Sempre gli opinionisti sostanzialisti affermano che questo esito non sarebbe un gran male: in fin dei conti anche negli Stati Uniti non esisterebbero reali partiti. Il che non è vero: i grandi partiti americani non sono affatto aggregazioni volta per volta di interessi e idee, bensì luoghi di maturazione nella lunga durata delle posizioni per governare una società e uno Stato federale complessi come quelli americani. Confederalismo o federalismo, centralità dell'agricoltura o dell'industria, isolazionismo o interventismo, regolazione o assoluta liberalizzazione, integrazione dei ceti popolari o sviluppo di comunità e libertà centrate sull'individuo. Dagli inizi dell'Ottocento la vita politica americana è segnata da una discussione delle idee interna ai partiti prima che nelle istituzioni. Poi, certo, il carattere aperto della nazione americana fa sì che sia la società a organizzare i partiti, e a determinare una mobilità particolare del ceto politico al contrario di quel che è avvenuto in parte decisiva della storia d'Italia, dove sono stati i partiti a organizzare la società.
In realtà il mancato decollo di nuovi partiti post Guerra fredda è il frutto più avvelenato del riformismo ubriaco che abbiamo vissuto.
Tutto ciò non nasce solo dal caso, che pure ha avuto un ruolo rilevante. La stessa scelta di Segni come leader del rinnovamento da parte di ampi settori dell'establishment nazionale scaturisce da una certa logica. Dai tempi in cui per risolvere i conflitti più aspri si cercava «l'uomo forte» si è giunti a quelli in cui per non disturbare certi equilibri di potere si punta solo su «uomini deboli». Dai gorilla ai chihuahua. Così Segni, così Ciampi, così Prodi (poi si è visto che «mordeva» più del previsto), Rutelli, così un politico di rara inconsistenza come Walter Veltroni e poi Gianfranco Fini, Luca Cordero di Montezemolo, Mario Monti e via evanescendo.