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2014,
Numero 4

Maggioritario, un figlio adottivo già concepito da DC e PCI

Un disegno coltivato 10 anni per contrastare il Presidenzialismo. La riforma dello Stato sempre sentita come una violazione della “Costituzione più bella del mondo”
di Ugo Finetti

Si parla di “bellezza” della nostra Carta e ci si mobilita per la sua intoccabilità, ma non ci si accorge che in realtà essa da un lato, sin dalla nascita, ha al suo interno compromessi controversi e datati e dall'altro necessita di aggiornamenti urgenti in quanto, in realtà, viviamo, anzi governiamo, “border line” rispetto al dettato costituzionale se non in quotidiana tacita violazione.
La necessità di rivedere il testo nasce in particolare da due dati: l'introduzione del sistema elettorale maggioritario e la stipula di trattati e di accordi internazionali.
Il maggioritario ovvero il fatto che attualmente – dal 2008 con tre elezioni legislative – un partito (o coalizione) intorno al trenta per cento controlla i due terzi della Camera dei Deputati altera e stravolge lettera e spirito della Costituzione a cominciare dagli istituti di garanzia.
L'architettura della Costituzione italiana poggia su basi di legge proporzionale. Il rifiuto del maggioritario fu esplicito nella Costituente. Elezione di Presidente della Repubblica, Corte Costituzionale e Consiglio Superiore della Magistratura sono previsti nella Carta dando per scontato un Parlamento composto dalla proporzionale. L'elezione delle figure di garanzia con il maggioritario le snatura. Si tratta quindi o di tornare al proporzionale oppure di ridefinire le norme costituzionali in modo da salvaguardare lo spirito della Carta che impone di formarli con un consenso parlamentare che vada ben oltre la coalizione che rispecchia la maggioranza degli elettori. I due terzi erano una maggioranza di garanzia per assicurare una sorta di unità nazionale; oggi sono una quota che viene ottenuta come premio da una coalizione minoritaria senza alcuna soglia.
Ugualmente bisogna “costituzionalizzare” i trattati sottoscritti e che stiamo osservando: dalla cessione di “pezzi” di sovranità nazionale fino alle missioni militari. A tal fine – per tacito accordo – noi fingiamo di non violare la Costituzione definendole “missioni di pace”. Si è stati a un passo dall'elezione di un Presidente della Repubblica che avrebbe invocato l'incostituzionalità delle missioni militari. Tardando a “costituzionalizzare”, si rischia di commettere lo stesso errore di quando i partiti, di comune accordo, depositavano bilanci falsi.
Anche lo sviluppo che ha avuto l'intervento della magistratura sulla scena nazionale sollecita un bilancio critico della stessa riforma Vassalli. Si è usata la necessità di contrastare la criminalità organizzata per dar vita, con una serie di leggi, ad un uso paramilitare della giustizia. Mettendo al centro la lotta abbiamo una militarizzazione della magistratura con come priorità non l'accertamento della verità, ma il raggiungimento – a qualsiasi costo – dell'ordine. E' così che si arriva ad un'aula giudiziaria dove pm e giudici indossano la stessa divisa, ma con diverso grado: un generale pluridecorato per atti di eroismo al fronte sostiene l'accusa mentre un tenente della riserva e due allievi ufficiali fanno i giudici.
Il giustizialismo antifascista sta alla Costituzione come i Gap di Gentile e via Rasella stanno ai Cln di Firenze e Roma che ne respinsero la paternità. La mobilitazione sulla “difesa” ed intoccabilità della Costituzione non manca infatti di obiettivi diretti a stravolgere l'originario equilibrio costituzionale.
Può essere utile ricordare come sin da Calamandrei si evidenziò la non intoccabilità della Costituzione e come fallirono i tentativi di riformarla nel corso della cosiddetta “Prima Repubblica”.

Il tema delle riforme istituzionali fa il suo concreto ingresso in Parlamento il 10 settembre 1982 quando i presidenti di Camera e Senato, Nilde Iotti e Amintore Fanfani, “invitano” le Commissioni Affari costituzionali dei due rami del Parlamento a procedere alla costituzione di un apposito “comitato ristretto” per redigere, entro il 31 ottobre, un documento sintetico di proposte: dalla modifica della Costituzione a quella dei regolamenti parlamentari. Si intrecciano in quel momento “ritorno alle origini”, secondo spirito e testo della Carta, e propositi di innovazione.
Nel maggio 1981 l'inchiesta sulla P2 di Licio Gelli aveva travolto il governo Forlani. Per la prima volta, con Pertini al Quirinale, una crisi di governo sfuggiva di mano al partito di maggioranza relativa aprendo un vuoto che sarebbe stato colmato dal Quirinale con iniziativa autonoma richiamando il dettato costituzionale. Nacque così lo Spadolini 1 con l'avvento a Palazzo Chigi, dopo più di trentacinque anni, dal dicembre 1945, di un non democristiano.
L'avvio a settembre dell'iter per le riforme istituzionali era un impegno concordato in agosto 1982 al momento del rinnovo della fiducia a Giovanni Spadolini alla guida di un esecutivo “fotocopia”. Alle spalle dello Spadolini 2 vi era un accordo conflittuale tra i due principali partiti di governo: da un lato il Psi di Craxi che, ai primi di aprile, aveva definito una nuova piattaforma programmatica e di riforme istituzionali con la Conferenza di Rimini proponendosi la conquista di Palazzo Chigi e dall'altro la Dc che, ai primi di maggio, nel XV Congresso aveva eletto segretario Ciriaco De Mita con un programma di rinnovamento proponendosi il recupero della guida del governo. Da parte sua, all'opposizione, il Pci di Berlinguer era attestato sulla linea della “questione morale”.

La rivisitazione critica del testo originario della Carta in verità non era dovuto soltanto al tempo passato e ai mutamenti intervenuti sul piano sociale e istituzionale. Sin dalle origini l'articolato licenziato dall'Assemblea Costituente nel dicembre 1947 era stato oggetto di critiche da parte dei suoi stessi estensori.
Il testo aveva definito quelli che Piero Calamandrei indicò come “i muri maestri” del nuovo regime democratico, ma come risultato complessivo, proseguiva Calamandrei, “si ha l'impressione di trovarsi in uno di quei grandi edifici tirati su in fretta durante la crisi degli alloggi, nei quali si va ad abitare per necessità”. Molte proposizioni, come i titoli secondo e terzo della I parte, per Calamandrei “si tratta soltanto di speranze”, “redatte in forma volutamente vaga ed ambigua, in modo che ciascun partito che sia domani politicamente in prevalenza possa trovarvi quell'indirizzo conservatore o progressivo che meglio corrisponda al suo programma”. “Le questioni più importanti – insisteva Calamadrei - furono risolte nei corridoi, attraverso i discreti contatti dei più autorevoli portavoce dei tre partiti maggiori della coalizione”.
Tre furono quindi i principali argomenti che alimentarono i conati di revisione costituzionale nel corso della cosiddetta “Prima Repubblica”.
Il primo riguarda la sua natura di compromesso che fu anche contrastato e non di ampia maggioranza. Sin dal primo articolo la formula contrattata ebbe maggioranza risicata sia in sottocommissione (8 contro 7) sia in plenaria (239 a 227). Che la nuova Costituzione repubblicana fosse frutto di mediazioni tra i principali partiti era ovvio. Ma è la natura specifica di tale compromesso che va tenuta presente.
Secondo la nota definizione di Calamandrei la Costituzione fu “scritta metà in latino e metà in russo”. Ed il modello sovietico era invocato anche dalla parte “latina”: “Gioverà molto – dichiarò, ad esempio, La Pira già nel luglio 1946 - riferirsi al tipo di Costituzione Sovietica la quale va dal piano economico a quello culturale fissando un sistema integrale di attività che comincia dalla base, dalla vita fisica, per giungere alla vita familiare, economica, amministrativa, politica, culturale, religiosa”.
In sostanza alla base del compromesso vi fu un offuscamento della tradizione liberale.
Risultò prevalente l'assillo di evitare quanto avvenuto con lo Statuto albertino e cioè l'avvento di un regime liberticida attraverso una serie di “leggine” (sul primo ministro, modifiche art. 36 e 55 sulle funzioni giudiziarie del Senato e sulla procedura per l'approvazione delle leggi, art. 71 sul Tribunale speciale per la difesa dello Stato, art. 32 sulla pubblica sicurezza, ecc. fino alle leggi razziali). Tutto ciò si tradusse in un'architettura antidecisionista eretta mettendo alle spalle il lascito di un passato liberale ritenuto corresponsabile dell'avvento del fascismo.
Questa la reazione del giurista liberale Giovanni Astuti, membro della Commissione dei 75: “La Dichiarazione dei diritti dovrebbe dire ciò che lo Stato non può fare. Viceversa i nostri “soloni” hanno creduto opportuno dire ciò che lo Stato deve fare. Formule demagogiche e pericolose nel campo economico-sociale”.
In secondo luogo la redazione della Carta fu inficiata dalla rottura dell'unità antifascista con scissioni di partito, crisi di governo e l'insorgere di una contrapposizione frontale tra le principali forse politiche. Sin dal settembre 1946 la commissione dei 75 lavorò mentre infuriava il contenzioso politico tra i padri costituenti con l'accusa di Palmiro Togliatti allo stesso Presidente della Costituente, Giuseppe Saragat, di “obiettiva collusione con il fascismo”. L'elaborazione della Carta si svolse mentre crescevano reciproche accuse di mancanza di propositi democratici e, in aggiunta, si risentiva delle tensioni di campagna elettorale per il voto amministrativo in importanti città da Roma a Palermo, da Genova a Napoli, da Torino a Firenze.
In particolare il risultato delle elezioni del 10 novembre 1946 destabilizzò la Costituente dato l'arretramento socialista e democristiano mentre crescevano le destre d'ispirazione monarchica e mussoliniana. I comunisti non avanzavano, ma, con la crisi socialista, diventavano così, da allora, il primo partito di sinistra in Italia, l'”anomalia” a cui si attribuirà la difficoltà di dare vita ad una alternativa di governo alla DC nel quadro della “guerra fredda”. La tensione in seno ai socialisti – tra autonomisti di Saragat e “fusionisti” di Nenni – divenne incandescente nelle settimane successive con la convocazione improvvisa, all'inizio di dicembre, del congresso straordinario da parte di Nenni per modificare lo Statuto al fine di vietare le correnti. L'assise socialista sarebbe stata così teatro il 10 gennaio della scissione che avrebbe determinato le dimissioni del Presidente della Costituente, Giuseppe Saragat, e la formazione del secondo governo De Gasperi con socialisti e comunisti, senza i socialdemocratici (Psli).
Da quel momento, 4 febbraio 1947, la commissione dei 75 non si riunì più e il lavoro di redazione proseguì attraverso il sottocomitato con, di volta in volta, integrazioni informali. Il nuovo equilibrio politico durò nemmeno tre mesi; sarebbe franato dopo l'approvazione dell'art. 7 sul Concordato da parte di DC e PCI, con l'opposizione dei socialisti.
Già il 10 marzo 1947 Pietro Nenni era stato esplicito sul carattere ormai generico e non vincolante del testo che si andava licenziando in assemblea con tre diversi governi in sei mesi: “In fondo come per tante altre cose, dipenderà da chi avrà il mestolo in mano, dipenderà dalla volontà che il Paese esprimerà attraverso le elezioni”. “Abbiamo fretta che la Costituzione sia votata – incalzava il leader socialista - abbiamo fretta che si indicano nuove elezioni”.
Alla natura di compromesso e al contesto di rottura va poi aggiunto come terzo handicap il fatto che i lavori della Costituente non si svolsero in un regime di piena libertà e autonomia nazionale. Così è stato ricordato, sempre da Calamandrei, nel primo commentario della Costituzione redatto nel 1950 (insieme ad Alessandro Levi): “Nei momenti più acuti della crisi il giuoco delle forze politiche non poté mai svolgersi liberamente, perché esse dovettero per legge di guerra accettare la disciplina imposta dal governo militare alleato, la cui volontà deve essere sempre considerata come elemento preminente, anche se non sempre apparente, di tutti i compromessi costituzionali che impedirono o rinviarono soluzioni più nette e più definitive”. E ancora: “Apparentemente a deliberarla (la Costituzione, ndr) furono chiamati soltanto i deputati della Costituente, in realtà sulle loro deliberazioni poterono operare … certe limitazioni e certe ingerenze che provenivano da fonte estranea”.

Va anche ricordato che tema controverso fu sin dall'origine quello della legge elettorale. Già prima dell'approvazione della Carta si era sviluppato un acceso dibattito per la riforma della legge n.74 varata per l'elezione dell'Assemblea Costituente. Quel decreto luogotenenziale del 10 marzo 1946 era frutto del dibattito tra chi sosteneva il ritorno all'uninominale (Croce, Einaudi) e chi al proporzionale del 1919 (Sturzo). Era prevalsa questa ultima soluzione in forza del rigetto della legge redatta nel 1923 dal sottosegretario di Mussolini, Giacomo Acerbo, accusata all'epoca da Giovanni Amendola di “regime plebiscitario” in quanto trasferiva il diritto di scegliere il governo dal Parlamento direttamente agli elettori e che, per l'entità del premio di maggioranza, era tale che – osserva lo storico Giovanni Sabbatucci – “trasferiva il diritto di scelta dei deputati dall'elettorato al vertice dei partiti”. La legge del ‘46 era quindi imperniata sull'estensione dell'elettorato (suffragio femminile), il ritorno alla proporzionale, le preferenze ed il bicameralismo. Ma già il 10 maggio 1947 il ministro degli Interni, Mario Scelba, presentava una legge di modifica proposta da una commissione presieduta dal comunista Mauro Scoccimarro in cui si prevedevano, in particolare, circoscrizioni meno ampie e collegi regionali per l'utilizzazione dei resti. Il dibattito fu acceso soprattutto per l'opposizione delle destre che ritenevano più vantaggioso per i partiti non di massa il decreto del ‘46. Nell'aula, sul finire del 1947, solo per pochi voti fu bocciato l'emendamento soppressivo del collegio unico e delle liste nazionali e, finalmente, all'inizio del febbraio 1948 venne licenziata la nuova legge elettorale.

La “questione elettorale” tornò quindi in Parlamento al termine della prima legislatura repubblicana che, nata con lo scontro del 18 aprile 1948, vide una drammatica contrapposizione sul varo di una nuova legge elettorale alla vigilia del ricorso alle urne del 1953. Nelle elezioni amministrative che si erano precedentemente svolte, la Dc era infatti arretrata a vantaggio delle destre (che nel Sud avevano superato il 13 per cento). Si delineava lo scenario secondo cui la somma delle opposizioni di destra e di sinistra avrebbe impedito un governo di maggioranza secondo la proporzionale pura. Maturò quindi l'idea di una nuova legge. Un accordo fu raggiunto in tal senso dalle delegazioni di Dc, Psdi, Pri e Pli con la determinazione di un “premio di maggioranza” alla principale coalizione anche se non avesse raggiunto il 50 per cento. Ma il 1° giugno 1952 la Direzione del Psdi lo respinse (11 contro 10). Per recuperare la maggioranza al congresso straordinario del PSDI ai primi di ottobre 1952, Saragat propose una versione più blanda con il “premio” solo al superamento della maggioranza dei voti espressi. In tal senso l'accordo tra i quattro partiti di centro fu finalmente raggiunto a metà novembre 1952. Nel PSDI fu ugualmente forte la dissidenza con una scissione (il movimento “Autonomia socialista” che si raccorderà con “Unità Popolare” di Ferruccio Parri uscito dal Pri). L'accusa era di restituire alla DC la maggioranza assoluta dei seggi con la rinuncia (da parte del PSDI e degli alleati laici) ad essere determinanti nelle aule parlamentari.
Proprio la diaspora socialdemocratica (per cui fu coniato l'epiteto “utili idioti”) risulterà fatale in quanto il premio di maggioranza non scatterà per 57.000 voti con la coalizione di centro che si fermò al 49,8 per cento dei voti per la Camera (con un arretramento della Dc dal 48,5 al 40 per cento, del Psdi dal 7,1 al 4,5 e del Pri dal 3 all'1,6). Fu soprattutto uno spostamento a destra (con monarchici e missini che avanzavano ognuno del 4 per cento mentre l'incremento di Pci e Psi fu complessivamente dell'1,7 per cento).
Il risultato archiviò ogni proposito di riforma istituzionale. La “legge truffa” fu quindi abrogata a larga maggioranza l'anno successivo (mantenendo però la riduzione della legislatura del Senato da 6 a 5 anni per allinearla così alla durata della Camera).
Si aprì quindi la strada ad una stagione nel segno invece dell'”attuazione” della Costituzione. Già il dibattito parlamentare del marzo 1953 aveva evidenziato la mancanza di organi di garanzia rispetto ai quesiti insorti nell'aula. Alla assenza della Corte Costituzionale si era aggiunta la mancata istituzione del referendum a cui il leader del Pci, Palmiro Togliatti, proponeva di demandare la scelta sul metodo di attribuzione dei seggi (con nuova o vecchia legge elettorale) facendo coincidere elezione dei deputati e referendum istituzionale come già avvenuto il 2 giugno 1946.
Prese così corpo la tesi della “Costituzione inattuata” (secondo la formula usata da Achille Battaglia nel suo saggio edito da Laterza nel 1955 nel volume a più voci dedicato al primo decennale della Liberazione) e “Costituzione inattuata” fu anche il titolo con cui l'”Avanti!” pubblicò nel febbraio 1955 il saggio di Calamandrei dedicato alla Costituzione nel primo decennale della Liberazione. Quella ricorrenza divenne lo scenario dell'avvio della nuova stagione di ricomposizione dell'unità antifascista nazionale nel quadro di una Resistenza e Costituzione dichiarate “incompiute”.
Di ciò fu solenne espressione il discorso tenuto dal Presidente della Camera, il democristiano Giovanni Gronchi, il 22 aprile nell'aula di Montecitorio dove declamò: “L'aspirazione … del movimento della Resistenza, verso uno stato popolare, cioè basato più largamente sul consenso popolare, verso uno stato che assicuri maggiore giustizia … è tuttora come un germe vivo che fermenta, anche se non ha dato i suoi frutti”. Al termine il deputato socialdemocratico Domenico Chiaramello chiese che il messaggio di Gronchi “venga affisso in tutte le città, in tutti i comuni, in tutti i villaggi d'Italia”. La proposta fu approvata per acclamazione e pochi giorni dopo, il 29 aprile 1955, Gronchi fu eletto presidente della Repubblica, al quarto scrutinio, con 658 voti su 833.
Il nuovo Capo dello Stato fu quindi parte attiva nel far approvare istituti previsti dalla Costituzione a cominciare dalla Corte suprema nel 1956, il Consiglio nazionale dell'economia e del lavoro (Cnel) nel 1957 e il Consiglio superiore della magistratura (Csm) nel 1958.
La stagione di “attuazione della Costituzione” si sarebbe prolungata negli anni sessanta, all'inizio del centro-sinistra, secondo quella che il costituzionalista Enzo Cheli avrebbe definito “la seconda fase di attuazione della Costituzione” ('62-'64) con leggi quali la nazionalizzazione dell'energia elettrica, la scuola media unica, l'ammissione delle donne in tutti gli impieghi pubblici, la programmazione economica e la riforma della censura. Era un richiamo al carattere “programmatico” della Carta.
In questo quadro la richiesta di modifiche costituzionali divenne una istanza considerata “di destra” soprattutto quando si sosteneva il presidenzialismo. La considerazione negativa del presidenzialismo era legata al giudizio sulla nascita della “Quinta repubblica” in Francia nel 1958 tratteggiando il gollismo come sinonimo di fascismo e sollevando così una duratura “eccezione di infamia” sulla riforma costituzionale in senso presidenziale: “In Francia – affermava Togliatti nel giugno 1958 – verrà fatta una costituzione sottoposta a referendum così come hanno fatto a suo tempo Mussolini e Hitler, come aveva fatto prima Napoleone III”.
Negli anni sessanta unica iniziativa autorevole per sollecitare una riforma costituzionale fu quella di Antonio Segni che, come Capo dello Stato con messaggio alle Camere, sollecitava la modifica dell'art. 85 per evitare la rielegibbilità del presidente della Repubblica. La richiesta, mossa dal desiderio di cancellare l'esistenza del “semestre bianco” che impedisce lo scioglimento anticipato delle Camere nell'ultima parte del settennato, cadde nel vuoto.
All'inizio degli anni sessanta un dibattito su modifiche istituzionali e costituzionali si svolse soprattutto a livello culturale con taglio “ingegneristico”: divisione del lavoro tra le Camere e delegificazione, primi abbozzi di modifica forma di governo e sistema elettorale maggioritario. Nel 1964 si registrarono le proposte di finanziamento pubblico dei partiti che collegavano tale istituzione a vincoli statutari, in particolare sul regime di democrazia interna, e a una limitazione del voto palese alle Camere che determinarono una posizione negativa del Pci. Nel 1966 si discusse la tesi del cosiddetto “governo di legislatura” con elezione contestuale delle Camere e del presidente del consiglio e scioglimento automatico in caso di sfiducia. A ciò si aggiunsero le riflessioni critiche sul bicameralismo con, nel 1969, la proposta di trasformare il Senato in Camera delle Regioni o di interessi e categorie sociali.
Sul piano politico, tra il 1955 ed il 1968, prese corpo allora una riforma istituzionale di fatto con il tentativo di dar vita ad un bipolarismo di stampo europeo superando quel che il sociologo Giorgio Galli definiva, nel 1966, come il bipolarismo imperfetto italiano. Dall'indomani della sconfitta del centrismo sia nel Psdi sia nel Psi si fece strada la considerazione autocritica del “suicidio” rappresentato dalla rottura del '47 che tolse il titolo di primo partito della sinistra ai socialisti vedendo quindi il partito di Saragat subalterno alla Dc e quello di Nenni al Pci. Prima ancora dei traumi che avrebbero determinato la rottura del patto di unità d'azione tra Psi e Pci nel 1956, sia nel Psdi (dopo la sconfitta elettorale del 1953) sia nel Psi (con il congresso del 1955) si delineò una politica di ricomposizione che fu sancita dall'incontro diretto tra Nenni e Saragat a Pralognan nel 1955. Da allora con andamenti alterni e contraddittori (determinati soprattutto da una forte presenza filocomunista nel Psi che, all'inizio del 1957, mise in minoranza Nenni e bloccò il cammino autonomista) vi fu il tentativo di riformare lo scenario istituzionale dando vita a un nuovo soggetto terzaforzista. Esso ebbe come punto di arrivo nel 1966 la riunificazione tra Psi e Psdi nel segno dell'Internazionale socialdemocratica europea, ma veniva osteggiato nella sua credibilità da una politica di collaborazione con la Dc oltre che dal permanere nella Carta dell'Unificazione del richiamo al marxismo. Si realizzò cosi un partito unificato Psi-Psdi con ancora la falce e martello del Komintern nel simbolo e nel quadro di una collaborazione organica con la DC in coincidenza con l'esplodere della contestazione del '68.
Alla fine degli anni sessanta si registrarono quindi il tramonto del progetto terzaforzista e la cristallizzazione di un “bipolarismo imperfetto” che abbandonava però la contrapposizione frontale. Già nel febbraio 1968 Giovanni Spadolini coniava l'espressione “Repubblica conciliare”. Nel quadro della crisi dell'alleanza organica tra Psi e Dc e dell'affermarsi del “compromesso storico” da parte comunista, dopo il Sessantotto iniziò una stagione consociativa che venne definita di nuovo “patto costituzionale” con una serie di provvedimenti che avrebbero privilegiato il confronto assembleare: dallo Statuto dei lavoratori alla nascita delle Regioni, dal compromesso sulla istituzione congiunta di divorzio e referendum fino a nuovi regolamenti di Camera e Senato con la valorizzazione delle commissioni parlamentari e della conferenza dei capigruppo con parere unanime (febbraio 1971).
Con tale “centralità” del Parlamento rispetto all'esecutivo, in un contesto di accordo diretto Dc-Pci, dall'inizio degli anni settanta la formula di “arco costituzionale” sostituì quella della “delimitazione della maggioranza” su cui era originariamente nato il centro-sinistra nel 1964.
In contraddizione rispetto al consociativismo parlamentare prese forma il movimento referendario che, a partire dalla vittoria laica nella consultazione sul divorzio nel 1974, si sviluppò come una sorta di “contropotere” extraparlamentare e di movimento di modifica istituzionale.
A rilanciare i temi di riforma istituzionale o comunque del sistema politico contribuì, in quel 1974, l'esplodere dello scandalo dei finanziamenti ai partiti (Pci compreso) da parte dell'Unione petrolifera. Si aprì così la strada, presentata come rimedio e fuoriuscita dal sistema delle tangenti, alla legge sul finanziamento pubblico dei partiti. Il dibattito su di essa vide emergere la necessità di modifiche istituzionali ed in particolare della legge elettorale con particolare riferimento al sistema delle preferenze.
Una testimonianza significativa è tratta dai verbali della Direzione del Pci dell'epoca che, data la natura particolarmente riservata delle riunioni, offrono prese di posizione molto chiare sul modo in cui era considerato il nesso tra finanziamento della politica e legge elettorale.
“Nell'opinione pubblica – avvertiva l'ex presidente della Costituente Umberto Terracini - questa legge è considerata come un'ulteriore prova che i partiti sono delle sanguisughe, una nuova manifestazione dell'avidità della classe politica”.
Per dare una risposta a questo timore venivano delineate proposte innovative che avrebbero potuto accompagnarla quali il voto ai diciottenni e l'abolizione delle preferenze. Su quest'ultimo tema i dirigenti comunisti però si dividevano in modo radicale. “Se manteniamo il sistema delle preferenze, - affermava Ferdinando Di Giulio - il finanziamento pubblico dei partiti si presenta come una buffonata”. E Giorgio Amendola sottolineava le ragioni politiche dell'abolizione delle preferenze: “E' una vera piaga. Cosa ha salvato finora la DC dalle scissioni? Il fatto di prendere, con le preferenze, voti di destra e di sinistra”. Ma, sul fronte opposto, Nilde Jotti replicava in modo polemico: “L'abolizione totale delle preferenze … rafforza grandemente il peso delle segreterie dei partiti. L'elettore si vedrebbe ancora più incapsulato, senza libertà di scelta”.
In conclusione anche il PCI lasciava cadere le richieste innovative e si uniformava agli orientamenti prevalenti nei partiti di governo che lasciavano ampia discrezionalità nella gestione del finanziamento pubblico. Il relatore Alessandro Natta concludeva: “Non è previsto nessun controllo amministrativo. La legge prevede la pubblicazione dei bilanci. Nella forma prevista – pubblicazione sulla stampa e consegna alle presidenze delle Camere delle entrate e delle uscite – sembra in linea di massima accettabile”.
Dopo il risultato del 12 maggio 1974, in particolare per iniziativa radicale, lo schieramento laico e di sinistra tentò di usare, a sua volta, il referendum abrogativo per imporre modifiche legislative di valore istituzionale o per contestare norme della legge Reale e poi della legge Cossiga sull'ordine pubblico, per l'abolizione dell'ergastolo e il finanziamento pubblico ai partiti con quesiti posti al voto l'11 giugno 1978 e, successivamente, con quattro referendum portati al voto in coincidenza con il referendum per l'abrogazione della legge sull'aborto promosso da movimenti di ispirazione cattolica nel 1981. Nessun referendum abrogativo ebbe successo, ma il favore espresso all'abolizione del finanziamento pubblico fu di estrema rilevanza con il 43,6 per cento dei consensi.
A ciò si aggiunse una crescente insoddisfazione verso il consociativismo in quanto, con la centralità assembleare, determinava freni in ordine alla governabilità e alle esigenza di decisione.
La crisi della politica del “compromesso storico”, con l'uscita dalla maggioranza del Pci nel 1979, creò le condizioni, nella riedizione dell'alleanza di centro-sinistra, per il lancio da parte del Psi della politica cosiddetta della “Grande Riforma”. La proposta craxiana nasceva con alle spalle la contestazione mossa da Norberto Bobbio alla mancanza di teoria dello Stato in Gramsci ed al pregiudizio marxista di considerare la materia istituzionale come sovrastruttura.
La “riforma istituzionale” agì nel PSI come bussola per il superamento della centralità della “questione comunista” e per riqualificare la rinnovata alleanza con la DC. Questa svolta socialista (secondo un superamento della politica riformatrice intesa in termini di programmazione e nazionalizzazione a vantaggio di una politica riformista come accettazione della economia di mercato e del sistema di alleanze occidentali) apriva la strada alla necessità di una revisione della macchina statale in termini di risanamento e di modernizzazione. Le tesi socialiste furono abbozzate in un contesto di continue incertezze nel vertice del partito fino ad una sua stabilizzazione con il congresso di Palermo del 1981 (che approvò l'elezione diretta del segretario del partito) e la Conferenza programmatica di Rimini del 1982 dove la rivendicazione della presidenza del consiglio socialista fu tratteggiata in termini di presidenzialismo che, a differenza del maggioritario, avrebbe valorizzato il ruolo determinante dei partiti e dei leader intermedi.

Ricostituendo il governo nell'agosto del 1982, Giovanni Spadolini aveva recepito la rinnovata attenzione alle riforme istituzionali espressa anche dalla Dc e dal Psi sollecitando nuove leggi, dalla amministrazione giudiziaria a quella degli enti locali, e una “controriforma” dei regolamenti parlamentari (con maggior limitazione del voto segreto).
L'incarico dato nell'estate 1982 alle commissioni Affari costituzionali dei due rami del Parlamento si risolse però in due separate relazioni ai presidenti delle Camere con “note conclusive” di singoli membri che evidenziavano il crescere di una certa sensibilità sulla tematica (compresa la riforma dell'ordinamento giudiziario), ma anche l'assenza di accordo tra le forze politiche in un contesto che, nell'autunno del 1982, già prefigurava un nuovo scioglimento anticipato delle Camere.
Quando il leader del Psi, Bettino Craxi, dopo le elezioni del 1983, raggiunse l'obiettivo della guida del governo i propositi di riforma istituzionale assunsero forma più impegnativa e si istituì una commissione bicamerale la cui presidenza fu assegnata, caduta la candidatura del democristiano Amintore Fanfani, al liberale Aldo Bozzi che si rivolse ai partiti in quanto “malati che devono diventare medici”. L'attenzione si concentrò su cinque articoli – 92, 93, 94, 95 e 96 – che riguardavano la forma di governo.
L'iniziativa di “grande riforma” vedeva però, al momento del decollo, il suo originario proponente, il Psi, con limitati margini di iniziativa avendo il proprio leader garante della coalizione di cinque partiti. Protagonista divenne la Dc che, mal accettando la perdita di Palazzo Chigi, aveva come priorità quella di ridimensionare il “diritto di interdizione” dell'alleato minore.
Il dibattito istituzionale veniva quindi impostato dalla leadership democristiana come occasione di un tavolo parallelo a quello politico ricercando una convergenza con i comunisti su ipotesi di superamento del sistema proporzionale a favore del maggioritario in cui il confronto avrebbe messo in primo piano la scelta tra DC e PCI.
Si aprì così un acceso dibattito in seno al Partito comunista che era tradizionalmente per la proporzionale sulla scia della battaglia contro la “legge truffa”. Nei verbali della Direzione del Pci emergono pareri favorevoli al maggioritario, ma con venature diverse. Per Enrico Berlinguer esso è visto positivamente al fine di contrastare, d'intesa con la DC, la “centralità” socialista che soprattutto negli enti locali si traduceva in bruschi rovesciamenti di alleanze in cambio della guida delle giunte locali. E' così che il segretario del Pci si dichiarava favorevole a “necessarie aggregazioni di forze attorno a due poli”. Da parte sua Giorgio Napolitano guardava al maggioritario auspicando l'evolversi verso una dialettica “europea”. “Con il sistema elettorale vigente – dichiarava Napolitano - da 40 anni siamo all'opposizione. Lavoriamo o no per una prospettiva di alternativa?”.
Forti erano però le resistenze di chi difendeva la proporzionale come architrave dell'originaria impostazione costituzionale in particolare da parte di Nilde Iotti, ora presidente della Camera dei Deputati, che si pronunciava contro quelle che bollava come soluzioni “alla francese che noi abbiamo sempre combattuto”. Contro il maggioritario erano anche Giancarlo Pajetta, Alessandro Natta ed Armando Cossutta.
La posizione comunista rimase quindi incerta. Nel corso delle riunioni Enrico Berlinguer si dichiara favorevole alla riforma del bicameralismo giungendo a condividere il monocameralismo mentre Giorgio Napolitano torna a caldeggiare il superamento della proporzionale e l'eliminazione delle preferenze a vantaggio dell'uninominale: “Le preferenze è tema delicato col dilagare della corruzione. Dobbiamo puntare su collegi uninominali, anche se ciò rafforza i poteri delle segreterie. Ma, al contrario, il rapporto tra candidato al collegio uninominale e l'elettorato è quello che anche oggi è il più forte e significativo. (…) Sistema elettorale: è bene riflettere se il nostro sistema elettorale sia veramente in grado di favorire anche uno schema di alternativa tra raggruppamenti diversi (uno con la Dc, uno con il Pci). Il sistema proporzionale è stato concepito in una fase di governo di grande coalizione”.
L'esplodere dello scontro tra Craxi e il Pci sul decreto riguardante la scala mobile sembrò aprire spazio favorevole all'iniziativa “parallela” di De Mita volta a ridimensionare il premier socialista con un rapporto diretto con il Pci sulle riforme istituzionali.
Protagonista di questa fase fu il costituzionalista democristiano Roberto Ruffilli, (che, “simbolo” della riforma dello Stato, sarebbe poi stato assassinato dalle Brigate Rosse il 16 aprile 1988 all'indomani dell'ingresso di Ciriaco De Mita a Palazzo Chigi). Con la relazione al Consiglio nazionale della DC del settembre 1984, Ruffilli proponeva una “equilibrata riduzione del numero dei parlamentari”, una “specializzazione” del Senato e un potenziamento della presidenza del Consiglio. Centrale era la riforma elettorale che prevedeva un “correttivo della proporzionale” ed un “patto politico tra i partiti in grado di dar vita a un comune programma di governo” con, quindi, “premio di maggioranza”. In questo quadro si delineava la possibilità di un doppio turno. Contro il “premio di maggioranza” era Pietro Scoppola che temeva il rischio che esso provocasse un isolamento politico della Dc.
Infatti se il PSI, come partito del presidente del consiglio, si tenne defilato, la dura opposizione al “premio” che alterava la proporzionale venne assunta dai partiti laici ed in particolare dal Pri di Spadolini che insorse trovando rassicurazioni nel Pci di Natta, che, dopo la scomparsa di Berlinguer, vedeva prevalente la difesa della proporzionale nonostante il parere contrario in seno alla Direzione di Napolitano (“Siamo rassegnati a restare all'opposizione?”).
Si trovò comunque una linea di mediazione nella commissione Bozzi per un testo conclusivo che veniva approvato da Dc, Psi, Pli e Pri con l'astensione del Pci e del Psdi. “L'accordo tacito fra i partiti – commentò polemicamente Pietro Scoppola - fu quello di non mettere ai voti nessuna proposta concreta”.
La commissione proponeva cosi di “aggiornare” la prima parte della Costituzione con modifiche riguardanti la tutela della salute, dell'ambiente dei beni culturali, del pluralismo nei mass media, dei disabili. Per quanto concerne la Forma di Stato, prevedendo una riduzione del numero dei deputati, si accantonava il presidenzialismo e si valorizzava la figura del presidente del consiglio a cui il Parlamento accordava la fiducia preventiva affidandogli così la facoltà di proporre al Capo dello Stato nomina ed eventuale revoca dei ministri. La fiducia al governo sarebbe stata votata a Camere riunite.
L'inasprirsi della conflittualità politica in vista del referendum sulla scala mobile portò quindi nel gennaio 1985 ad una bonaria conclusione della bicamerale Bozzi con le proposte formulate dai 40 commissari affidate alla commissione Affari costituzionali della Camera che non ne iniziò mai l'esame.
Si depositarono successivamente singole proposte di legge. Nel novembre 1986 Dc e Pci formalizzarono due proposte di legge sulla correzione del bicameralismo e sua volta lo stesso Aldo Bozzi presentò un testo che prevedeva la riduzione dei parlamentari (da 630 a 514 deputati, da 315 a 282 senatori) e la differenziazione tra i due rami del Parlamento con alla Camera il compito di fare le leggi ed al Senato il controllo dell'attività di governo (salvo che il governo o un terzo dei senatori chiedessero la seconda lettura di un testo approvato dalla Camera).
Nel 1986 il Pci proporrà l'abolizione del Senato e la riduzione dei parlamentari da 945 a 420 sottolineando che la metà dei 123 parlamenti del mondo occidentale sono unicamerali. Il tema della magistratura avrà invece sviluppi con l'avvio dell'iter di riforma del codice di procedura penale promossa da Giuliano Vassalli ministro socialista della Giustizia. Con il nuovo codice si sancì il passaggio dal processo inquisitorio al rito accusatorio (con la centralità del dibattimento per la formazione della prova) e la terzietà del giudice mettendo accusa e difesa sullo stesso piano (venne a cessare il posizionamento del pm in aula a fianco dei giudici).
La sua adozione vide in particolare valorizzato il ruolo del pm come “dominus” delle indagini. Tale risultato, voluto in particolare dai socialisti che intendevano così sottrarre autonomia di iniziativa a carabinieri e polizia, implicava una forte specializzazione professionale per la figura dell'inquirente con la conseguente separazione rispetto alla magistratura giudicante. Ma tale soluzione fu accantonata per l'opposizione mostrata dall'ANM in proposito.
L'intensificarsi della legislazione d'emergenza, dopo il terrorismo, per contrastare la mafia si tradusse in nuove disposizioni per l'uso dei “pentiti” e i requisiti di “prova” che consentiranno indagini e condanne più veloci anche nei procedimenti che, a partire dal 1992, saranno dedicati ai reati connessi alla violazione del finanziamento pubblico ai partiti.

Dopo la rottura tra Dc e Psi che portò nel 1987 alle dimissioni del governo Craxi e, nuovamente, ad elezioni anticipate, il tema delle riforme istituzionali rimase vivo. Il PSI alla riforma dello Stato centrale aggiunse quella degli enti locali con il Senato delle Regioni. Da parte sua la Dc va al voto con un progetto di riforma del sistema elettorale che è un mix di proporzionale e maggioritario guardando ai sistemi francese e tedesco con l'elettore che esprime due voti: uno per il partito ed uno per la coalizione. Al fine di coinvolgere il Pci, De Mita propone di ripartire il “premio”: la maggior parte dei seggi al primo partito (o alla coalizione vincente) e la restante quota al principale partito d'opposizione (le ipotesi vanno dal 60-40 al 75-25 per cento).
La piattaforma della segreteria democristiana viene però contestato durante la campagna elettorale con un “Documento dei 39” sottoscritto da Forlani, Andreotti e Donat Cattin insieme a “Comunione e Liberazione” contro il bipolarismo esprimendo il timore di incrementare derive laiciste.
Dalla segreteria del partito si differenziano anche altri parlamentari che però auspicano in modo più marcato il maggioritario. E' in quell'occasione che decolla la Lega per la riforma elettorale promossa da Mario Segni con una novantina di parlamentari che propone l'adozione del sistema uninominale di tipo francese (ballottaggio con doppio turno) o inglese (uninominale secco).
Da parte sua il Psi reagisce insistendo sull'elezione diretta del Capo dello Stato e a tal fine chiede l'istituzione del referendum propositivo che, in alternativa alle commissioni bicamerali, apra la strada di riforme istituzionali attraverso iniziativa popolare.
Le elezioni politiche del giugno 1987 videro premiata l'alleanza conflittuale DC-PSI con un'avanzata dei due principali partiti di governo (dal 32,9 al 34,3 la DC e dall'11,4 al 14,3 il PSI) e un arretramento comunista (dal 29,9 al 26,6). Anche i tre partiti minori di governo hanno perso voti e prosegue la tensione tra i vertici della DC e del PSI che sfocia nella nomina di Goria a capo del governo per il perdurare del veto socialista contro il segretario della DC e la celebrazione dei referendum promossi dai radicali con l'appoggio dei socialisti e dei liberali sulla responsabilità civile dei magistrati e l'abbandono del nucleare. Sull'onda del “caso Tortora” e della catastrofe di Cernobyl anche DC e PCI rinunciarono ad opporsi e si dichiararono favorevoli all'iniziativa di referendaria. Per la prima volta l'abrogazione fu approvata. Le centrali nucleari vennero chiuse mentre per la responsabilità civile dei magistrati venne poi approvata (da DC, PSI e PCI) una legge che tutelava i magistrati dirottando sullo Stato l'azione di rivalsa. (Quando poi presso la Corte europea di Strasburgo l'Italia continuò a registrare condanne con un onere nel bilancio statale che avrebbe dovuto attivare la Corte dei Conti nei confronti dei singoli magistrati, il Parlamento della “Seconda Repubblica”, con apposito provvedimento, ostacolò l'accesso alla Corte Europea e definì “tetto” e tempi del risarcimento in modo da tranquillizzare i magistrati eventualmente colpevoli).
Il tema delle riforme istituzionali tornò quindi all'ordine del giorno dopo che finalmente Ciriaco De Mita approdò a Palazzo Chigi (aprile 1988) sulla base di un iter che era stato nuovamente avviato dalle Camere nel dicembre 1987.
Anche in quel caso esso assunse la parvenza della ricerca di un “tavolo parallelo” per un rapporto preferenziale tra Dc e Pci al fine di ridimensionare la pressione socialista sulla leadership democristiana. La Dc insistette quindi per la scelta della maggioranza e non del capo dell'esecutivo da parte dell'elettore dichiarandosi contraria anche all'elezione diretta del Sindaco. L'ascesa di Achille Occhetto nel vertice comunista sull'onda della sconfitta elettorale, con la nomina a vicesegretario, sembrò schiudere una prospettiva positiva a questa aspirazione di De Mita. Il Pci in novembre approvava la relazione di Occhetto al Comitato Centrale sulle riforme istituzionali in cui egli si dichiarava contrario al presidenzialismo in quanto “occorre un organo di garanzia della vita democratica”, mentre sembrava più disponibile al sistema maggioritario in quanto “il voto deve dire quale maggioranza deve governare” e pertanto, aggiungeva, “occorre individuare il meccanismo elettorale più adatto a questo fine”. Occhetto auspicava pertanto una prospettiva di “alternanza programmatica” accompagnandola con la disponibilità, nell'immediato, a governi transitori basati sul primato dei programmi al fine di varare le riforme istituzionali che vedessero un largo consenso dalla Dc al Pci.
I margini di manovra di De Mita, stando a Palazzo Chigi con l'appoggio di Craxi, si riveleranno però non ampi come era già accaduto a Craxi quando era ‘premier'. Il dibattito parlamentare si svolse nel maggio 1988 ed in concreto il lascito di questa fase del dibattito su modifiche istituzionali sarà la modifica dei regolamenti parlamentari con una forte limitazione del voto segreto come auspicava il leader socialista quando era a Palazzo Chigi. Le possibilità di intesa tra Dc e Pci saranno quindi spente con il precipitare verso la crisi con il congresso socialista del maggio 1989 che porterà alla sostituzione di De Mita con Giulio Andreotti.
Nella bozza di accordo che Andreotti propose a Craxi vi era una ripresa dell'impegno per riforme istituzionali con l'apertura al semipresidenzialismo. E cioè: se dopo le prime votazioni in cui si richiede la maggioranza qualificata nessuno viene eletto in Parlamento si passa all'elezione diretta. Si trattava di una posizione di mediazione che teneva conto del fatto che la Dc aveva preso posizione contraria sul presidenzialismo come sul monocameralismo ed il collegio uninominale “all'inglese”.
Dopo la caduta del Muro di Berlino, il venir meno dello scenario della “guerra fredda” implicava un generale riposizionamento dei soggetti politici con conseguenti modifiche del quadro istituzionale.
Non mancavano in tale contesto l'emergere di nuovi soggetti come la Lega Lombarda (che conquistò il 20 per cento in Lombardia nelle elezioni regionali del 1990) ed il movimento referendario di Mario Segni che raccoglieva firme trasformando di fatto il referendum da abrogativo in propositivo. La cancellazione di brani legislativi era infatti finalizzata a istituire un sistema maggioritario nelle elezioni comunali, la riduzione delle preferenze da tre ad una alla Camera e l'uninominale a turno unico per il Senato. Tre referendum definiti da Giuliano Amato per il PSI “incostituzionalissimi”.
All'inizio del febbraio 1991, al congresso di trasformazione del Pci in Pds, il segretario Achille Occhetto si rivolgeva alla DC dichiarandosi disponibile a “concordare una riforma elettorale che favorisca l'alternarsi di due blocchi al governo del Paese”. Due settimane dopo il presidente della Camera, Nilde Jotti, proponeva la trasformazione del Senato in Camera delle Regioni con l'appoggio dei capigruppo del Pci e del Psi, ma registrando la ferma opposizione del presidente del Senato, Giovanni Spadolini, leader del Partito repubblicano passato all'epoca all'opposizione. Il presidente del Consiglio, Giulio Andreotti, interveniva quindi per dichiarare che non esistevano condizioni per le riforme istituzionali nella legislatura.
Intanto si sviluppava l'iniziativa di Segni dopo che la Corte Costituzionale aveva autorizzato il solo quesito sulla preferenza unica.
Dopo il successo del referendum di Mario Segni sulla preferenza unica, il 9 giugno 1991, la Dc accantonando il complesso delle riforme istituzionali rilancia la riforma elettorale in vista del rinnovo delle Camere del 1992 prospettando un sistema maggioritario temperato nel senso di un accantonamento del premio di maggioranza e di una riduzione dell'ampiezza dei collegi elettorali (sulla base di un testo della commissione affari Costituzionali della Camera imperniato su riforma del bicameralismo e delle autonomie regionali che sarà portato in aula nel luglio 1991). In alternativa al presidenzialismo sostenuto dai socialisti i democristiani propongono il “cancellierato”, il premier nominato non più dal Capo dello stato, ma dalle Camere.
A sua volta il Pci, ribadita l'ostilità al presidenzialismo, propone il doppio turno e cioè, afferma Occhetto, “una prima tornata dove si vota il partito del cuore, e una seconda dove si vota per la coalizione di governo”.
Quel momento di rinnovato impegno sulle riforme istituzionali trova come elemento propulsore il messaggio del Presidente Cossiga alle Camere il 26 giugno 1991.
L'iniziativa di Cossiga fu diversamente accolta. e, di fatto, non condivisa dai tre principali partiti. Cossiga infatti accompagnò il messaggio alle Camere con un intervento televisivo a reti unificate in cui si rivolgeva direttamente al Paese affermando: “Le istituzioni sono smarrite. (…) Ai signori del Parlamento dico: basta con rinvii. Ora spetta al Parlamento discutere e deliberare. Domani, a voi, il popolo italiano!”
Sebbene Cossiga auspicasse un “nuovo patto nazionale” e dichiarasse che “nulla ora impedisce” che il partito di Occhetto “prenda risolutamente posto, qualora lo voglia, nei grandi schieramenti politici e partitici europei”, Massimo D'Alema commentava: “Le proposte di Cossiga sono quelle del piano della P2”. D'altra parte l'appello di Cossiga di far coincidere il processo di riforme istituzionali con una nuova formula di governo che una sintesi del Quirinale tratteggiava come “un governo di grande coalizione garantito nel suo equilibrio interno da una presidenza neanche tendenzialmente sospettabile di egemonia” - e cioè né democristiana né craxiana - determinava la presa di distanza anche da parte degli altri due principali partiti.
La Dc giudicò negativamente l'iniziativa ed aprì la contestazione della sua legittimità in assenza di controfirma da parte del presidente del consiglio Giulio Andreotti. Fu quindi il vicepresidente del consiglio socialista – Claudio Martelli, ministro della giustizia - che controfirmò il messaggio del Quirinale. Ricorda Martelli: “L'idea che Cossiga aveva in testa era quella di farsi prolungare il mandato presidenziale per due anni per realizzare la riforma semipresidenziale”.
Craxi apparve però prudente al congresso del Psi di Bari dove, il 26 giugno, eresse a suo modello una citazione di Ugo La Malfa: “Se capeggiassi un movimento di rivolta al sistema, avrei tre, quattro milioni di voti. Non li potrò mai avere questi voti. Sono un uomo del sistema, della democrazia così come è nata dalla Liberazione, mi muovo nel quadro dei partiti”.
Nel dibattito parlamentare introdotto il 23 luglio 1991 da un testo comune in cui la Iotti e Spadolini ricordavano le riforme istituzionali già varate (riforma della presidenza del consiglio, la legge sulle autonomie locali, le norme sulla responsabilità civile dei magistrati, la disciplina dello sciopero nei servizi pubblici, la riforma della contabilità pubblica, il nuovo procedimento amministrativo, la legge comunitaria, la riforma dei regolamenti parlamentari e l'avvio della riforma del bicameralismo) a contestare Cossiga fu principalmente Oscar Luigi Scalfaro: “Quando il Capo dello Stato fa intendere di preferire la Repubblica presidenziale rispetto a quella parlamentare, si mette in contrasto con le parole e lo spirito della Costituzione. L'appello generico al popolo sovrano può portare a situazioni pericolose”.
Da parte sua il Psi, con l'intervento di Giuliano Amato definiva la proposta del maggioritario una riedizione non solo della “legge truffa” del 1953, ma della legge Acerbo del 1923. Per i socialisti il maggioritario rappresentava “il tentativo di dare la maggioranza per legge a chi non la riceve dal corpo elettorale”. A sua volta Mario Segni evocava il pericolo fascista contro il presidenzialismo di Craxi paragonandolo a Mussolini.
Il Pri, di fronte al maggioritario della Dc, apriva sul presidenzialismo (che era stato una tradizionale proposta del partito d'azione). “La Repubblica presidenziale – dichiarava Giorgio La Malfa – non uccide il Parlamento”.
I toni si infiammavano con Psi, Pli e missini favorevoli a Cossiga, mentre radicali, Rifondazione comunista e Democrazia Proletaria ne chiedevano le dimissioni. Nel Pci cresceva la tensione con Giorgio Napolitano che il 25 luglio (in un'intervista a Marcello Sorgi su “La Stampa”) contestava gli applausi comunisti a Scalfaro: “Non credo che lo si possa applaudire per la linea che sostiene se si vuole una profonda riforma del sistema istituzionale politico ed elettorale”. E si dissociava da “ogni tentazione di accordi striscianti o di manovre di collusione con la DC con l'obiettivo dell'isolamento del PSI”. Lo stesso giorno Pietro Ingrao in un pubblico dibattito con D'Alema incalzava il vertice del Partito. Titolava “L'Unità”: “Occhetto scelga, o me o Napolitano”.
Di fronte all'acuirsi della tensione Pci e Psi concordavano un raffreddamento e nella fase conclusiva sia Occhetto sia Craxi intervenivano accantonando asprezze polemiche.
In conclusione, dopo la iniziale impennata che sembrava prefigurare il voto a ottobre, il dibattito parlamentare si concludeva con un nulla di fatto ed un generale consenso a rinviare ogni riforma, anche elettorale, a dopo le elezioni del 1992.
Il Capo dello Stato si sentì smentito e rifiutò di ricevere i presidenti delle Camere, Spadolini e Iotti, che avrebbero dovuto riferire al Quirinale sull'esito del dibattito.
Si sanzionò incapacità e/o rifiuto di procedere ad un'autoriforma del sistema politico con l'incrociarsi di contemporanee ipotesi - sia di alleanza programmatica sia di contrapposizione frontale - tra Dc e Pci, tra Dc e Psi, tra Pci e Psi. La conclusione del dibattito parlamentare del luglio 1991 fece quindi calare il sipario sulla scena delle riforme istituzionali.
Per valutare la mancata autoriforma del sistema politico, anche dopo la fine della “guerra fredda”, va tenuto presente che l'orizzonte strategico della sinistra italiana, sia pur nobilitato dal richiamo all'unità antifascista per l'attuazione della Costituzione, ha sempre avuto come obiettivo - da Togliatti a Craxi, da Saragat a Berlinguer – andare al governo con la Democrazia Cristiana.
Vi fu un'interruzione nelle elezioni del 1948, ma, successivamente l'obiettivo del Pci e del Psi già all'inizio degli anni cinquanta, quando ancora erano “stalinisti”, era la ripresa della collaborazione con il partito di maggioranza relativa auspicando il prevalere, nel suo seno, delle correnti progressiste contro quelle conservatrici. L'”alternativa” sarà quindi brandita essenzialmente come azione di disturbo: negli anni settanta dal Psi contro il “compromesso storico” Dc-Pci e negli anni ottanta dal Pci contro la “governabilità” Dc-Psi (dando vita in pari tempo alle prime esperienze di giunte Dc-Pci nei Comuni). Berlinguer nel sostenere l'”alternativa democratica” proponeva però il “governo diverso” come “tappa intermedia” ed Achille Occhetto mentre proponeva l'alternativa teorizzava la “rivoluzione copernicana” ovvero giunte e governi “di programma” offrendosi alla Dc come alleato di ricambio e meno oneroso del Psi.
L'unico spiraglio concreto per un possibile sviluppo di una dialettica “europea” fu rappresentato dalla prospettiva presidenzialista avanzata dai socialisti, ma che venne all'epoca da un lato, ritenuta dagli osservatori di sinistra “sostanzialmente di destra”, “più sudamericana che gaullista” (Piero Craveri) e dall'altro sostenuta dai socialisti senza legarla ad una rottura con i democristiani. A sua volta, tra il 1982 e il 1991, il maggioritario fu proposto dalla Dc con l'appoggio del Pci soprattutto come minaccia al fine di contrastare il presidenzialismo. Un contenzioso decennale secondo un neutralizzarsi a vicenda.
Nell'undicesima legislatura i lavori della bicamerale istituita dopo le elezioni del 1992 furono terremotati dagli sviluppi delle inchieste giudiziarie con il suo presidente, Ciriaco De Mita, dimissionario in seguito ad un avviso di garanzia e sostituito da Nilde Iotti. Quella messa in stato di accusa dei partiti di centro-destra e di centro-sinistra creò le condizioni per il passaggio al maggioritario secondo schieramenti alternativi imperniati sulle forze che erano state nell'Italia repubblicana all'opposizione e non erano al momento incalzate dalla magistratura. Il primo passo fu la modifica della legge per le elezioni amministrative che vide nell'autunno del 1993 a Roma e a Napoli l'elezione diretta del Sindaco con candidati espressi o dai neofascisti del MSI o dagli ex comunisti del PDS.