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2014,
Numero 6

Sistema bancario e crisi italiana

Considerazioni sulla crisi economica
di Fracesco Caputo Nassetti

Il consolidamento

Forse non tutti ricordano che appena tre lustri fa i temi centrali del dibattito sul sistema bancario italiano erano due: l'arretratezza del sistema, che era definito come la “foresta pietrificata”, e la scarsa dimensione delle banche italiane: la più grande banca italiana non era nemmeno nel novero delle prime 50 banche mondiali .
Quindici anni dopo la fotografia è completamente diversa. Si è passati da 992 banche del 1998 a 740 banche a fine 2011 (di queste 411 sono BCC e 78 filiali di banche estere) con un calo del 25%. La principale modifica non è rappresentata dal minore numero di banche, bensì dalla conformazione del sistema bancario. Il nostro sistema bancario attuale è composto da alcune grandi banche di dimensione tale da ben figurare in tutte le classifiche europee e mondiali. Il sistema bancario è fatto ad “X” in quanto esistono 6 grandi banche (con un attivo di oltre 100 miliardi du euro) e numerose banche di piccole dimensioni, mentre si è ridotto significativamente il numero delle banche di medie dimensioni (3 banche tra i 50 ed i 100 miliardi di attivo). L'economia del nostro Paese, peraltro, è rimasta un sistema di imprese medie. Da qui si è generata una prima discrasia in particolare nei modelli di gestione delle imprese medie che più hanno sofferto di questo cambiamento.
Il consolidamento del sistema bancario è avvenuto principalmente per aggregazioni tra banche nazionali ed in parte con l'entrata nel mercato bancario domestico di grandi banche straniere (Credit Agricole, BNP e Dexia). Ad un certo punto di questo percorso si era temuta la balcanizzazione del sistema bancario italiano attraverso l'acquisizione del controllo delle maggiori banche da parte di istituti stranieri così come è avvenuto in molti paesi dell'Europa dell'est e dei balcani nei quali oggi è raro trovare banche di proprietà nazionale.
Su questo sfondo si è svolto il braccio di ferro tra il Ministro dell'economia e le fondazioni bancarie, nel quale i contendenti hanno avuto alterne fortune.
Sull'altare del consolidamento, però, sono state sacrificate le specializzazioni al fine di contenere i costi. Credito agrario, industriale, fondiario, navale, cinematografico,....sono gradualmente scomparsi e con loro una generazione di bancari specializzati in tali settori. Per realizzare rapidamente il consolidamento tra le diverse banche è stato necessario standardizzare al massimo le procedure, eliminando ove possibile la componente umana nel processo. La specializzazione, che è il contrario della standardizzazione, è noto che ha costi notevoli.
Sempre al fine di ridurre i costi e per rendere più oggettiva la valutazione del credito sono stati introdotti sistemi di rating che determinano non solo la possibilità di concessione dei finanziamenti, ma anche il loro pricing e i relativi accantonamenti. Si è passati dalla soggettività delle valutazioni da parte degli addetti ai crediti, che in certi casi si era dimostrata facilmente asservibile a criteri diversi da quelli della prudente analisi creditizia, alla gelida oggettività e rigidità del rating, che cerca di rendere standard valutazioni che standard non possono essere. La casistica è assai abbondante in questo campo. Inoltre, vi è stato un arretramento nella presenza internazionale delle banche italiane in seguito alla chiusura e vendita delle reti estere sempre al fine di ridurre i costi con la conseguente perdita di competitività del sistema paese. Basti pensare che la Banca Commerciale Italiana prima della fusione in Banca Intesa era presente in 47 paesi in cinque continenti. Di questi fenomeni ne ha risentito in negativo l'economia e il sistema Italia e sempre maggiore è la domanda di specializzazione a cui lentamente si stanno di nuovo indirizzando le banche.


La salute del sistema bancario

Se da un lato il consolidamento ha consentito di mantenere il controllo nazionale degli istituti bancari, principalmente tramite le fondazioni bancarie, dall'altro lo stato di salute delle banche italiane è assai debole dopo 4 anni di crisi internazionale.
Si paga oggi il mancato intervento dello Stato a supporto del capitale delle banche che ha costretto il sistema a contenere gli impieghi causando un credit crunch di proporzioni mai viste in precedenza.
Basti pensare che gli altri paesi sono intervenuti massicciamente nel capitale delle banche immettendo enormi liquidità nel sistema. La tabella che segue offre in maniera tangibile l'entità degli interventi statali a partire dal 2008 (gli importi comprendono anche i valori delle garanzie prestate): solo la Grecia, in stato fallimentare, ha fatto meno dell'Italia.

Stati Uniti 2.330,5 miliardi di Euro
Regno Unito 1.148,0 miliardi di Euro
Germania 418,0 miliardi di Euro
Belgio 196,3 miliardi di Euro
Irlanda 159,0 miliardi di Euro
Olanda 143,8 miliardi di Euro
Francia 128,2 miliardi di Euro
Svizzera 45,6 miliardi di Euro
Danimarca 40,3 miliardi di Euro
Austria 33,0 miliardi di Euro
Spagna 19,7 miliardi di Euro
Lussemburgo 10,1 miliardi di Euro
Portogallo 6,2 miliardi di Euro
Italia 4,1 miliardi di Euro
Grecia 3,4 miliardi di Euro

Simultaneamente i mercati azionari ed obbligazionari si sono chiusi per le banche eliminando una possibile via di raccolta di capitale di rischio e di debito necessario per finanziare la crescita.
Inoltre, a partire dall'agosto 2007 è venuto meno anche il mercato interbancario che fino a quella data era estremamente liquido e nel quale una qualsiasi grande banca italiana poteva raccogliere in un paio di ore 1 miliardo di euro senza difficoltà. Questo mercato oggi non esiste più e difficilmente tornerà ad esistere in quanto la banca centrale funge da mercato interbancario privo di rischi. Infatti le banche che necessitano di raccolta effettuano le c.d. autocartolarizzazioni finalizzate a trasformare in titoli i propri impieghi che vengono utilizzati presso la banca centrale come collaterale per raccogliere denaro. Le banche che hanno eccesso di raccolta rispetto ai loro impieghi depositano presso la banca centrale la propria liquidità che un tempo circolava nel mercato interbancario. L'impiego della liquidità presso la banca centrale non assorbe patrimonio e non comporta rischi di credito a differenza del mercato interbancario. Sembra, pertanto, difficile che si possa tornare indietro e ripristinare la liquidità di un tempo.
La mancanza di iniezioni di capitale da parte del settore pubblico insieme all'impossibilità di accedere al mercato dei capitali, sia azionari che obbligazionari, e la sparizione del mercato interbancario ha fatto sì che la massa monetaria disponibile alle banche per gli impieghi sia drammaticamente venuta meno.
La crisi finanziaria si è nel frattempo trasformata in crisi economica colpendo numerosi settori ed imprese. Ciò ha comportato una significativa lievitazione delle sofferenze, le quali a loro volta assorbono maggiore capitale regolamentare ed economico. Le banche si trovano come detto nella impossibilità di raccoglierlo e di crearlo con gli utili.  Sono pertanto costrette a ridurre gli impieghi al fine di liberare capitale regolamentare. La riduzione degli impieghi è così pressante che a sua volta comporta il fallimento di imprese altrimenti sane che muoiono per mancanza di linee di credito per circolante pur essendo patrimonialmente robuste. Si assiste sempre più spesso all'inedito fenomeno di fallimenti con attivo fallimentare maggiore del passivo.


La crisi economica italiana

In passato le crisi hanno avuto durate decisamente più brevi e l'ecopnomia mondiale non era globalizzata, ovverossia le economie nazionali non erano interconnesse come lo sono oggi. Ciò significava che il mercato rimaneva in apnea per un limitato periodo e le imprese non perdevano la propria clientela. La combinazione di questi due elementi - durata della crisi e globalizzazione - comporta che le quote di mercato vengono prese da altri attori minando la sopravvivenza delle nostre aziende - anche quelle forti - che, superata l'apnea, non ritrovano la propria clientela.
Esiste un generalizzato interesse a vederci in ginocchio per acquistare a prezzi stracciati le nostre aziende ed i nostri assets, infrastrutture, immobili, ecc... D'altronde è sempre stato così e il mondo occidentale è stato alla finestra delle grandi crisi dell'America latina e dell'Europa dell'est, aree nelle quali è pervasiva la presenza di multinazionali e banche occidentali, che comprarono a man bassa le imprese dei paesi in crisi a prezzi di liquidazione fallimentare. Ora la ruota pare invertirsi e sono i paesi una volta noti per l'iperinflazione e il debito astronomico ad avere la liquidità per comprarsi i gioielli occidentali. Russia, Cina, India e Brasile in prima fila.
La crisi in Europa è più grave rispetto a quella degli USA, paese dal quale è partita. Il frazionamento politico europeo senz'altro non aiuta, ma c'è chi insinua che vi sia lo zampino degli americani quando hanno percepito che la moneta europea poteva essere un sostituto del dollaro come riserva valutaria. Gli americani hanno una imprescindibile necessità di vendere i propri titoli di stato agli stranieri che finanziano il cronico deficit del paese. Se tali capitali fossero massicciamente dirottati verso il continente europeo le conseguenze per gli Stati Uniti potrebbero essere assai pericolose.
Cosa c'è di meglio che una bella crisi in Europa che smorzi queste velleità? Ma forse è solo speculazione giornalistica.
La realtà è che il nostro paese ha problemi strutturali: siamo come una impresa con 2.000 miliardi di euro di debiti, un fatturato in diminuzione da 10 anni ed un conto economico in perdita da dieci anni. In simili condizioni qualsiasi azienda sarebbe fallita.
Fino a poco tempo fa nessuno se ne curava, poi all'improvviso il debito e la mancanza di crescita sono diventati il centro dell'attenzione fino a portare il differenziale tra i nostri titoli di stato a dieci anni rispetto a quelli tedeschi attorno al 7%, livello insostenibile nel medio periodo. L'attenzione appare scemata soltanto quando nell'agosto del 2012 la BCE ha dichiarato di intervenire illimitatamente a sostegno degli stati membri. In pratica i mercati si sono calmati soltanto quando è intervenuto un potente garante che, potendo stampare moneta, è difficilmente battibile dalla speculazione. Ma non può essere una soluzione permanente e non cancella il nostro enorme debito. Prima o poi si pagano anche le commissioni di garanzia.
L'imperativo è ridurre il debito in maniera importante.
Per fare ciò vi sono diversi modi: il primo virtuoso basato sulla crescita, che consente maggiori entrate, in contemporanea con una rigida disciplina nei costi. Purtroppo siamo ben lontani da questo possibile scenario: non vi è la capacità politica di ridurre i costi pubblici nè la forza di realizzare le importanti riforme strutturali presupposti per la crescita economica.
La seconda strada per ridurre il debito è una imposta pesante patrimoniale di 600 miliardi di euro.  Le dimensioni sono tali da raffigurare una sorta di esproprio forzoso. Penso che gli italiani sarebbero anche disposti a dare una tantum il proprio sangue se questo servisse a salvare il paese e le generazioni future, ma soltanto nel caso in cui lo Stato sia stato in grado prima di chiudere l'emorragia della spesa pubblica corrente e abbia venduto partecipazioni in società quotate, immobili e beni pubblici.
Qualcuno potrebbe dire che 600 miliardi sono troppi. In realtà è meno di quanto gli italiani perderebbero in seguito ad una ristrutturazione (o default) del debito pubblico. Infatti, visto che il 60% del debito pubblico è in mano a soggetti italiani e che la perdita si potrebbe agevolmente ritenere nell'ordine del 50% del valore nominale dei titoli, gli italiani perderebbero almeno 600 miliardi (cioè il 50% dei 1.200 miliardi di debito pubblico a loro mani) con l'aggravante che il nostro paese sarebbe escluso per un decennio o forse più da qualsiasi mercato internazionale dei capitali facendoci precipitare nella povertà.
La necessaria strada per un debitore pesantemente indebitato, che perde da oltre un decennio con un fatturato in calo è avere il coraggio di implementare tre cose:
a) interrompere l'emorragia della spesa pubblica corrente con un drastico taglio dei costi pubblici e dei costi della politica;
b) vendere massicciamente i beni pubblici non essenziali (includendo le partecipazioni statali in grandi imprese);
c) applicare una imposta patrimoniale una tantum di importanti dimensioni.
Il combinato disposto di queste tre manovre deve portare ad una riduzione di debito di 600 miliardi di euro. E' probabile, purtroppo, che non esista in Italia una forza politica capace di intraprendere una strada così in salita. Questo porta ad una terza opzione: la parziale rinuncia alla sovranità.
Se non saremo in grado di realizzare una delle due soluzioni sopra descritte, allora sarà l'Europa ad imporsi, così nessun politico ne avrà la colpa e tutti si potranno lamentare di Bruxelles (o Berlino). Prima o poi il costo della garanzia offerta dalla BCE dovrà essere pagato e lo pagheremo con cessione di sovranità.
Se gli italiani potessero sperimentare per una sola settimana della loro vita come si vive nei paesi del nord Europa, in Svizzera, nel baltico potrebbero apprezzare il livello di legalità, di rispetto sociale, di integrità delle istituzioni e sarebbero ben disposti a quei sacrifici sopra descritti per avere una società di qualità superiore.
Una quarta via è quella che comporta l'uscita dell'Italia dall'euro. Tale soluzione rappresenterebbe di fatto una patrimoniale ben più pesante di quelle sopra descritte, ma appare anche, purtroppo, quella politicamente più digeribile in quanto non crea alcuna tassa. In tale scenario la nuova divisa si svaluterebbe pesantemente, svilendo il valore dei risparmi, dei beni immobili e dei redditi degli italiani che si troverebbero ben più poveri rispetto ad una patrimoniale autoimposta di 600 miliardi. I guadagni in competitività grazie alla svalutazione non sarebbero in grado di compensare le perdite patrimoniali.
L'unica cosa certa è che oggi viviamo in un limbo grazie alla garanzia della BCE, ma tale situazione non può durare in eterno. Il problema del nostro debito andrà affrontato e alla fine i debiti si pagano! O li paghiamo volontariamente vendendo i nostri beni pubblici, tagliando la spesa pubblica e tassando i cittadini con una patrimoniale importante oppure si affronta una procedura concorsuale.
Seneca ci ricorda che fu proprio il greco Esiodo ad affermare che sera parsimonia in fundo est (tardi si risparmia quando si è agli sgoccioli).