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2014,
Numero 6

La rivincita di Berlino sulla II Guerra

Export-offensive
di Stefano Casertano

La nuova strategia mediatica di Angela Merkel è memore dei Monty Python: se le domandano qualcosa sull'austerity, dice di non sapere cosa sia. «Sa, questa parola in Germania prima non esisteva», è la frase che la Signora d'Europa ha regalato ai cronisti nel corso dell'incontro con Enrico Letta la scorsa settimana. Però, Angela Merkel dovrebbe sapere bene cosa è l'austerity, perché è la strategia che sta garantendo il successo della Germania di oggi.
Partiamo da una constatazione: ai tedeschi i mercati dell'Europa meridionale per le proprie esportazioni interessano sempre meno. A trainare gli acquisti di prodotti tedeschi all'estero sono i mercati emergenti: l'Italia è al settimo posto tra i mercati esportativi tedeschi, mentre Spagna, Grecia e Portogallo sono ben lontani dalla cima della classifica. Nonostante il tracollo delle esportazioni verso i “paesi dell'olio d'oliva” (graziosa definizione che ho catturato a un congresso a Erfurt all'inizio del mese), il totale delle vendite tedesche nel mondo si è mantenuto costante. Si ringrazia Pechino: nel 2004, anno delle riforme di Schröder, i cinesi acquistavano ogni anno circa 20 miliardi di euro di prodotti tedeschi, con un aumento incessante fino a 67 miliardi nel 2012.
Non è frutto del caso: i tedeschi hanno annunciato da anni una “Exportoffensive” che unisce sforzi politici e industriali all'assalto dei mercati emergenti. Questo obbiettivo presuppone che i mercati europei passino in secondo piano. Il motivo di questa “coperta corta” è sia monetario, che industriale. I paesi del Sud importano più di quanto esportano, e ciò spinge l'euro al ribasso. Un euro basso consente ai tedeschi (che invece esportano più di quanto importino) di potere vendere i propri prodotti a prezzi più convenienti in dollari e yuan cinesi. Sempre allo scopo di mantenere i prezzi bassi, i tedeschi hanno progressivamente sostituito i tradizionali fornitori italiani con quelli cinesi e polacchi – in quest'ultimo caso, sfruttando i vantaggi commerciali offerti dall'appartenenza della Polonia all'Unione Europea (anche se non all'euro).
Il ruolo dell'austerity, da questo punto di vista, è molteplice. Prima di tutto, l'austerity impedisce (almeno nelle intenzioni) che un deficit meridionale succhi risparmio tedesco. In questo modo, i soldi tedeschi devono essere investiti in Germania. Inoltre, i paesi in crisi investono essi stessi i propri risparmi in Germania e aiutano lo sviluppo del paese (quanti vostri amici hanno comprato la mitica “casa a Berlino?). L'austerity garantisce poi che i crediti del sistema bancario tedesco verso il Sud Europa siano onorati, riversando il fardello sui cittadini che sopportano un maggior carico fiscale.
L'austerity poi, impedendo le riforme (che costerebbero denaro in casse integrazioni, assegni di disoccupazione et similia – come sa bene la Germania con l'esperienza del 2004-2007), evita che i paesi possano tornare competitivi, e che possano creare le condizioni per ritornare a esportare fuori dall'Europa – spingendo così l'euro al rialzo, e colpendo la strategia “cinese” della Germania. C'è inoltre la questione energetica: il prezzo del barile è ancora molto alto, e la crisi dei consumi europei agisce da “calmiere naturale” dei prezzi – anche di quelli del gas, a tutto vantaggio dell'industria tedesca che è ad altissima intensità energetica.
L'austerity è quindi vantaggiosissima per la Germania: garantisce la solvibilità del debito, impedisce l'emersione di concorrenti internazionali, mantiene l'euro basso, abbassa i costi della bolletta energetica, impedisce la fuoriuscita di fondi dalla Germania e attira fondi dall'estero. La scelta tedesca di sacrificare il Sud Europa per il bene delle esportazioni verso la Cina dipende dalla constatazione che i mercati europei sono comunque saturi; e che in questi anni è necessario stabilire in fretta una presenza affidabile nei mercati emergenti, sfruttando tutti i vantaggi possibili. Rinunciare all'austerity consentirebbe di far riemergere mercati come Spagna e Grecia, che per la Germania sono sempre stati secondari. Si preferisce quindi un “lento declino” o, ancor meglio una stagnazione del Sud Europa, a tutto vantaggio di un inserimento tedesco nelle nuove rotte del commercio mondiale.
Questa strategia ovviamente incontrerà alcuni limiti, ma non sono quelli che comunemente si pensa. È noto che una crisi economica ancora più recessiva e prolungata nel meridione europeo potrebbe avere effetti negativi sia sulle esportazioni tedesche, che su quelle cinesi, colpendo il rapporto che si sta creando tra Berlino e Pechino. Ma la soluzione dei tedeschi non sarà la rinuncia all'austerity, quanto un'evoluzione di questa politica: si cercherà di stimolare la domanda domestica tedesca, che rimane relativamente ancora tra le più basse (pro capite) dei paesi industrializzati. Lo stesso deve fare – e in parte sta già facendo – la Cina. Grazie al vantaggio che sta acquisendo ora, la Germania potrà permettersi di abbassare le tasse, stimolando i consumi privati, e aumentando ancora di più la distanza con il resto d'Europa.
In questo modo, si creerà un nuovo “primo mondo”, che includerà la Germania e la Cina (e anche gli Stati Uniti), e che escluderà il quadrante mediterraneo dall'elite mondiale. La Germania sta perseguendo così una “Strategia Vittoriana” in cui si sfruttano i vantaggi del continente per puntare sul commercio con l'Asia. Ma cosa costringe i “paesi dell'olio d'oliva” a fare il gioco della Germania? Il problema è stato, fino a ora, quello della mancanza di una guida politica in grado di negoziare la posizione con i tedeschi. L'opinione di riferimento è quella di George Soros: il Sud deve minacciare di uscire dall'euro o, ancor meglio, minacciare di far uscire la Germania. Governi effimeri e tecnici di vario curriculum sulle sponde del Mediterraneo hanno inseguito lo spettro di un “aiuto tedesco” che non ha alcuna base economica o d'interesse in Germania: le negoziazioni su fondi e fondini di salvataggio non servono a granché. Nell'epoca del post-realismo conta solo l'interesse: l'unico modo per far scoprire la Germania è opporre una posizione unita, che smonterebbe tutta l'architettura commerciale tedesca. Così, per ora la Germania ha vinto la Guerra dell'euro, ma lo scontro non è ancora finito.

Accademico, giornalista e autore. Ha un MBA della Columbia University di New York