2014, Numero 8
Nenni e l'Avanti!: “Da oggi ognuno è più libero”
Cinquant'anni fa nasceva il centro sinistra con l'ingresso del PSI al governo
di Critica Sociale
Pubblichiamo in questo fascicolo, che segue nella numerazione quello sull'anniversario della morte di Kennedy che con Nenni ideò l'ingresso dei socialisti al Governo in funzione di contenimento dell'egemonia sovietica in Europa, una traccia per ragionare in occasione dei 50 anni sul primo centro sinistra: dall'“apertura” del quarto governo Fanfani (quello delle convergenze parallele, con l'astensione del Psi) del 1962 – che realizzo grandi riforme progressiste – al Governo Moro Nenni, con la partecipazione “organica dei socialisti all'esecutivo. I testi sono tratti dai lavori dello storico Giuseppe Mammarella e dalla documentazione raccolta in “Il Riformismo alla prova” a cura di Mimmo Franzinelli e Alessandro Giacone. Lo schema che guida la selezione è semplice: l'ingresso dei socialisti al governo e il programma riformista, nelle sue parti più “stataliste” come in quelle più “liberalsocialiste” è sempre stato causa di una dura lotta politica che ha spaccato innovatori e conservatori sia nella DC che nel PCI, oltre che nell'apparato dello Stato e nei “poteri forti” di ogni tempo e stagione. Ogni riforma, un successo. L'ostilità da destra e da sinistra è stata sempre feroce e la lettura di questi “appunti” sulla formula che proprio il Presidente Usa volle, ucciso pochi mesi prima di vederla realizzata, ne lascia la giusta impressione. Nenni rimessosi sulla strada tracciata anni prima da Saragat, ha tenuto duro nel quadro politico e nello stesso partito. Moro ha avuto nel leader socialista una spalla insostituibile, accerchiato com'era nella DC. Nel Pci ogni progresso era un tradimento e la spaccatura ruotava attorno al dilemma del sostegno all'esperienza progressista (oltre cui non si poteva andare dato il vincolo di Mosca) o l'aggiramento del Psi, e disarcionarlo con un'intesa con la Dc. Tutto finì – sarà un caso – nel 1969. Perché il movimento studentesco e la piazza non si riusciva a tenere? Occorreva il compromesso storico, una più larga intesa negli anni di piombo e degli “opposti estremismi”? Probabilmente. Sicuramente la data della fine della stagione di centro sinistra politicamente coincide con la Strage di Piazza Fontana. Il resto è DC-PCI che si conclude con la morte di Moro, e l'ultimo tentativo di Riforma dello Stato con il governo a guida socialista, finito come si sa e di lì a poco l'esilio di Craxi. Una strana vicenda quella dei socialisti nel governo dell'Italia. Che segue una linea politica e storica segmentata, interrotta, ma inspiegabilmente sempre rettilinea nella sua ostilità. Dal 1963 al 1993.
Il congresso di Napoli, destinato a segnare il nuovo corso politico, veniva accuratamente preparato; già nel settembre, a S. Pellegrino, la DC aveva tenuto un convegno sui temi economici del centro-sinistra e sopratutto su quello della programmazione, presentata da Pasquale Saraceno, l'economista del partito, come l'unico mezzo per eliminare i tradizionali squilibri settoriali del paese. Da queste impostazioni e da quelle espresse da Moro nella sua relazione congressuale, appariva chiaro il tentativo della DC ad esprimere una terza via fra capitalismo e socialismo, che giustificasse sul piano ideologico l'interclassismo politico del partito cattolico. Anche da parte socialista c'era stato negli ultimi due anni un più intenso sforzo per chiarire i termini dell'incontro con i cattolici. I socialisti col centro-sinistra miravano a realizzare una politica di riforme, che creasse le condizioni per una società più democratica e più progressista ma la sinistra lombardiana sottolineando con insistenza la necessità delle «riforme di struttura», già anticipava l'esigenza del passaggio da una società democratica ad una socialista. Il mancato approfondimento di questo tema produrrà gravi conseguenze per la compattezza del PSI, appena si manifesteranno le prime difficoltà del centro-sinistra. Ancora più importante agli effetti della scadenza che si avvicina, l'evoluzione socialista sul piano della politica estera. Nel marzo del ‘61, al XXXIV congresso nazionale del PSI, Ia relazione di maggioranza riconosceva che la politica estera del l'Italia «pure nell'ambito dell'alleanza atlantica aveva ampie possibilità di contribuire al riavvicinamento dei blocchi e allo sviluppo della distensione». Nel gennaio 1962 appariva un articolo di Nenni su «Foreign Affairs», la rivista ufficiosa del Dipartimento di Stato americano, in cui il leader socialista scriveva che il suo partito non avrebbe sollevato la questione del ritiro dell'Italia dalla NATO, onde evitare di «turbare l'equilibrio europeo». Il comitato centrale socialista, in una sua riunione alla vigilia del congresso democristiano di Napoli, ribadiva questa impostazione, pur sottolineando l'«interpretazione difensiva» che il partito dava della alleanza. Esistevano ormai le condizioni essenziali perché si passasse alla realizzazione del difficile disegno e la DC, al congresso di Napoli, compiva la scelta definitiva. Nonostante l'opposizione moderata, coalizzata attorno a Scelba, l'alleanza tra Moro e Fanfani portava la grande maggioranza del partito sulle posizioni del centro-sinistra. Nella sua relazione al congresso, Moro confermava la necessità dell'incontro tra socialisti e cattolici, onde allargare «l'area democratica», e rivolgeva un aperto invito al PSI a voler appoggiare il futuro governo di apertura a sinistra. Quell'invito apriva ufficialmente la crisi del governo Fanfani, che il 3 febbraio presentava le dimissioni. Ancora una volta la crisi era extra-parlamentare: le dimissioni del governo e la sua ricostituzione venivano decise dai partiti e il parlamento veniva messo davanti al fatto compiuto secondo una prassi ormai stabilita da numerosi precedenti. Di essa si dolsero una volta di più i fautori del sistema· parlamentare tradizionale che vi vedevano una pericolosa esautorazione del parlamento e un altrettanto pericoloso aumento del potere dei partiti. Ma forse quella era una delle circostanze in cui «la partitocrazia» non era stata priva di effetti positivi: una operazione così lunga e complessa come era stata quella di apertura a sinistra, difficilmente avrebbe potuto essere condotta a termine nell'ambito del parlamento senza dar luogo a crisi ben più gravi di quelle effettiva mente verificatesi. Prendendo atto della volontà dei partiti, il presidente della Repubblica attribuiva, il 10 febbraio, al primo ministro Fanfani, che, dell'apertura a sinistra era stato il più convinto sostenitore, il mandato di costituire un governo con la partecipazione diretta dei democristiani, socialdemocratici e repubblicani e l'appoggio parlamentare del Partito socialista, secondo un mandato «imperativo» i cui termini erano chiaramente precisati. Dopo alcuni giorni di consultazione fra i partiti della maggioranza per la definizione dei dettagli del programma, che già negli ultimi mesi era stato oggetto di lunghi e faticosi negoziati, il nuovo governo si presentò alle Camere per ottenere quella fiducia che ormai, dopo gli accordi raggiunti, era una mera formalità. Il programma governativo comprendeva i seguenti punti: 1) impegno a consolidare la democrazia attraverso una sempre più vasta partecipazione delle masse popolari all'esercizio del potere, allo scopo di caratterizzare il nuovo governo come governo di tutto il popolo e non come strumento di classe; 2) unificazione del sistema produttivo nazionale del l'energia elettrica, il che significava in sostanza nazionalizzazione delle imprese produttrici di elettricità, per cui il governo si impegnava a presentare entro tre mesi dal voto di fiducia un progetto di legge che avrebbe specificato i modi e le condizioni dell'operazione; 3) istituzione di un comitato di studio incaricato di proporre una forma di programmazione economica che permettesse l'integrazione dell'iniziativa privata con quella statale; 4) attuazione dell'ordinamento regionale, secondo quanto previsto dalla Costituzione. In tale attuazione il governo si impegnava a dare la precedenza alla regione a Statuto Speciale Friuli-Venezia Giulia; 5) esecuzione del «piano verde» per lo sviluppo dell'agricoltura che, formulato nel 1959 e approvato nel giugno del ‘61, prevedeva una spesa di 550 miliardi in cinque anni, da distribuirsi tra interventi governativi e investimenti privati mediante prestiti a basso interesse (dall'l al 3 per cento). Venivano inoltre concordati provvedimenti per migliorare le condizioni di vita nelle campagne, in fase di rapido deterioramento sotto la pressione delle «fughe» verso le città industriali; 6) piano per lo sviluppo e la democrati zzazione della scuola. Questi i provvedimenti di maggiore impegno. Altri se ne aggiungevano con la riforma del Senato, quella dell'amministrazione statale, il piano pluriennale per la riforma scientifica, l'aumento delle pensioni, ecc. In politica estera, il governo si proponeva di confer mare la solidarietà e l'attiva partecipazione dell'Italia alla politica di integrazione europea e a quella atlantica. Si impegnava inoltre a collaborare con le potenze alleate in tutti gli sforzi per giungere alla favorevole soluzione di tutti i problemi oggetto di contrasto fra est e ovest al fine di consolidare la pace mondiale. Su questo programma, il 10 marzo, il governo otte neva la fiducia con i seguenti risultati: alla Camera: 295 voti favorevoli, 195 contrari, 83 astensioni; al Senato : 122 voti favorevoli, 58 contrari. Avevano votato contro comunisti, liberali, monarchici, neo-fascisti. In seno al Partito socialista, per l'irrigidimento dei «carristi», cioè della sinistra che due anni più tardi si distaccherà dal partito, era prevalsa la tesi dell' astensione su quella del diretto appoggio al governo. Pur tutta via, il PSI entrava ugualmente a far parte della maggioranza, impegnandosi a dare voto favorevole sui vari progetti di legge di attuazione del programma governativo. L'astensione significava pertanto che il PSI prendeva atto, approvandole, delle intenzioni del governo, ma chiedeva la prova che quelle intenzioni venissero seguite da atti concreti. Insieme ad un significato politico a quell'astensione poteva essere riconosciuto anche il valore di una riaffermazione ideologica, rappresentante, essa l'ultimo segno di una opposizione che era stata alla base di tutta la tradizione socialista.
Un anno di attività governativa
Il primo governo di apertura a sinistra durava poco più di un anno, trovando un limite obbligato nelle elezioni per il rinnovo del parlamento, fissate per l'aprile 1963. Nonostante il poco tempo a disposizione, il programma del governo veniva in buona parte attuato entro il febbraio 1963, data dello scioglimento delle Camere. Nel dicembre 1962, dopo gli ultimi ostinati tentativi delle destre di bloccarla, veniva approvata la legge per la nazionalizzazione dell'industria elettrica, che pre vedeva un cospicuo rimborso in rate decennali alle società espropriate e la costituzione di un organismo di stato: l'ENEL. La misura, che rappresentava il maggior adempimento democristiano alle condizioni poste dai socialisti per la collaborazione con il governo Fanfani, rispondeva a due ordini di esigenze: economiche e politiche. Dal punto di vista economico la nazionalizzazione mirava a modificare una politica di prezzi e di costruzioni di nuovi impianti improntata al massimo profitto, e quindi nettamente sfavorevole a quelle zone economicamente depresse alla cui valorizzazione aveva mi rato la politica di tutti i governi nell'ultimo decennio. Sotto il profilo politico il provvedimento di nazionalizzazione tendeva a ridimensionare il potere e 1a capacità di pressione dei grossi monopoli privati, di cui le industrie elettriche rappresentavano la più spregiudicata espressione. Qualche tempo più tardi, i socialisti avrebbero ammesso che dei due obiettivi il secondo era quel lo che premeva loro di più, rivelando quanto forti fossero ancora le influenze ideologiche tradizionali. Per il modo in cui venne realizzata e per le conseguenze psicologiche ed economiche che esso doveva avere. quel provvedimento sarà soggetto a forti critiche negli anni successivi, contribuendo ad orientare gran parte della più qualificata opinione di sinistra democratica verso forme nuove di intervento e di controllo della «mano pubblica» sulla economia privata. Un'altra importante realizzazione del primo governo di centro-sinistra, il cui significato politico non era meno rilevante, fu l'insediamento della Commissione nazionale per la programmazione economica, avvenuta il 6 agosto 1962. Ad essa veniva affidato il compito di preparare un programma di sviluppo economico che aveva come principali obiettivi l'eliminazione degli squilibri tra settori produttivi, tra aree sviluppate e aree sottosviluppate, e nella riduzione di quelli tra consumi pubblici e privati. Due altre misure, nello spirito della nuova formula di centro-sinistra - una tassa sui dividendi azionari e una sui profitti di carattere immobiliare -, venivano approvate con una legge del dicembre ‘62. Ambedue miravano a colpire la speculazione, specie quella che si era sviluppata negli ultimi anni sulle aree edificabili at torno alle grandi città in fase di rapida espansione e che aveva accresciuto artificiosamente i prezzi dei terreni, rendendo impossibile la costruzione di case popolari a basso prezzo. Anche una legge per le pensioni assume va particolare importanza politica in quanto, disponendo sostanziali aumenti per varie categorie di lavoratori, accresceva il potere di acquisto e quindi la capacità di consumo delle classi meno abbienti. Nel gennaio 1963 veniva approvata la legge sulla riorganizzazione della scuola, che prevedeva la costituzione della scuola me dia unica, portando la frequenza obbligatoria fino al quattordicesimo anno e limitando l'insegnamento del latino, considerato una delle caratterizzazioni classiste del sistema scolastico italiano. Insieme agli adempimenti non mancarono le inadempienze del programma di centro-sinistra: la più importante fu quella relativa all'istituzione dell' ordinamento regionale, uno dei temi a cui l'opinione ·pubblica si manifestava meno sensibile e a cui una minoranza era fortemente ostile; tale ·riforma era strettamente collegata con gli obiettivi di allargamento della partecipazione politica perseguiti dai socialisti e dalla sinistra cattolica.
L'attuazione dell'articolo 17 della Costituzione, che regolava appunto l'ente regione, veniva rinviata ulteriormente. Da alcuni si temeva la formazione di regioni a maggioranza comunista nell'Italia centrale; da altri il costo eccessivo delle nuove strutture amministrative, mentre c' era addirittura chi vedeva nelle autonomie regionali un pericolo di disgregazione per lo stato e l'unità nazionale. Sul rinvio influirono certamente considerazioni di carattere elettorale da parte dei democristiani, il cui elettorato era nella maggioranza anti-regionalista. La mancata realizzazione delle regioni e i contrasti che sempre più frequenti sorgevano tra democristiani e socialisti, per Ia concorrenza di questi ultimi alle posizioni di potere negli organismi economici e amministrativi pubblici di cui la DC aveva acquisito il controllo in tanti anni di gestione governativa, determinavano all'inizio del ‘63 una situazione di tensione tale da sembra re prossima a provocare una crisi di governo. Con gli occhi alle elezioni politiche ormai vicine, i partiti della maggioranza tendevano ciascuno a riprendere la propria libertà e a sviluppare quei temi più suscettibili di avvantaggiarli presso l'elettorato. Si trattava tuttavia di diversioni tattiche cui le maggioranze della DC e del PSI ricorrevano per meglio difendersi dagli oppositori interni ed esterni. Al di là di esse, proprio alla vigilia elettorale, veniva riaffermata da tutti i partiti la volontà di continuare sulla strada del centro-sinistra. Repubblicani e socialdemocratici · dichiararono che non avrebbero partecipato a nessun governo che non fosse fondato su una maggioranza di centro-sinistra, mentre i socialisti arrivarono a proporre alla DC un accordo di legislatura su di un programma organico di centro-sinistra. La proposta del PSI, ricevuta con favore dalle correnti della sinistra cattolica, veniva declinata dalla segreteria democristiana: il partito di maggioranza relativa preferiva affrontare la campagna elettorale libero da un lega me che sarebbe apparso compromettente agli occhi del proprio elettorato moderato. Nonostante ciò, appariva evidente che anche la DC considerava ormai la politica di “apertura” come irreversibile.
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