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2014,
Numero 8

La problematica nascita del primo Moro-Nenni

Le resistenza del Presidente Segni e nella DC
di Critica Sociale

Nel 1956, la pubblicazione del Rapporto Chruscev sui crimini stalini­sti e il sanguinoso intervento sovietico a Budapest hanno segnato il punto di rottura tra PSI e PCI. Quattro anni dopo, le tragiche vicende del luglio 1960 dimostrano l'impossibilità di un'alleanza di governo estesa fino all'e­ strema destra missina. I commenti alla caduta del governo Tambroni pon­gono generalmente l'accento sulle proteste di piazza, che pure furono si­gnificative nell'isolamento del presidente del Consiglio.4 Tuttavia, in quell'agitata estate 1960, Moro e Nenni posero segretamente le premesse
- sotto l'ala protettiva del SIFAR del generale de Lorenzo - dell'alleanza di centrosinistra. Una formula cui pervenire attraverso passaggi graduali, a partire dall'astensione socialista sull'esecutivo delle “convergenze paralle­le” (terzo governo Fanfani, 26 luglio 1960-2 febbraio 1962), con il succes­sivo sostegno esterno al tripartito DC-PRI-PSDI (quarto governo Fanfani, nonostante i mugugni provocati dalla sua scarsa esperienza governativa.
Alla triade Fanfani-La Malfa-Lombardi che nel 1960 promuove l'alle­anza di centrosinistra si è dunque sostituito il team Moro-Nenni-Saragat, con i primi due impegnati nella guida complessiva dell'azione di governo. Il segretario DC Aldo Moro è il catalizzatore dell'alleanza quadripartita, l'accorto mediatore in grado di assorbire i contraccolpi di un'intesa da molti avversata per ragioni politiche e/o personalistiche. In seno alla DC, il gruppo di Scelba minaccia di votare contro il governo e finanche di uscire dal partito, ma il rischio di scissione rientra dopo la decisa presa di posizione dell ‘'Osservatore romano” e, forse, la propalazione di una velina scandalistica da parte del SIFAR. La corrente dorotea, di gran lunga maggioritaria nel partito cattolico, concede a Moro un sostegno condizionato, per orientarne le decisioni in senso antisocialista.
Consape­vole dei limiti posti al suo operato, egli utilizza accortamente quell'appoggio per impostare una politica di ampio respiro, di estensione della base politica della democrazia italiana con il coinvolgimento del PSI. Oltre alla presidenza del Consiglio, Moro vorrebbe mantenere la segreteria della DC, ma le pressioni interne lo inducono a cedere questo secondo incarico, il 24 gennaio 1964. Tre giorni dopo, il Consiglio nazionale democri­stiano nomina come nuovo segretario il doroteo Mariano Rumor.
L'arrivo dei socialisti nelle stanze del potere si rivela assai più proble­matico del previsto. L'alleanza tra Nenni, De Martino e Lombardi, rico­stituita faticosamente al xxxv Congresso, esprime due diversi modi di con­cepire il centrosinistra. Nenni e De Martino interpretano l'incontro con la DC come orizzonte riformista di ampio e graduale respiro, mentre Lom­bardi vuole modificare in modo rapido e radicale il sistema : “La politica delle riforme di struttura deve trovare necessariamente il suo perno nella politica di programmazione democratica che modifichi i rapporti di clas­se e i rapporti di potere, che incida realmente sul sistema dell'accumula­ zione privata”.
La divaricazione tra autonomisti e lombardiani è attenuata dalla presenza di una forte corrente di sinistra, che tiene temporaneamente compatto il gruppo dirigente socialista.
La scissione dei “carristi” (coloro che erano stati favorevoli all'intervento sovietico in Ungheria) si prospetta il 26 novembre al Comitato centrale del PSI, che approva l'accor­do di governo in un'atmosfera “di umiliazione più che di orgoglio” [34]. I “carristi” non votano l'esecutivo di centrosinistra e, in seguito alla loro esclusione, costituiscono il PSIUP.
“L'irreparabile per il mio partito e per me è avvenuto,” confessa amaramente Nenni a Moro, con valutazione poi dimostratasi profetica, “mentre per il tuo partito e per te è ancora sulla bilancia. È anzi assai probabile che la secessione socia­lista eviti la secessione democristiana.” Nella sua analisi mensile, il Comando generale dell'Arma dei carabinieri interpreterà la scissione come “un successo della DC ed in particolare dell'on. Moro”.
Dopo la fuo­ruscita dei “carristi” emergono malumori e divergenze di linea tra auto­nomisti e lombardiani, tanto più che - per smorzare l'impatto degli scissionisti e ridurne il seguito - sono cooptati nella Direzione e nel Comitato centrale del partito diversi esponenti della sinistra (del che Nenni si pentirà ben presto) .
Giunti al governo animati da attivismo e buona volontà, i socialisti allibiscono nel rendersi conto dell'inefficiente burocrazia ministeriale. Vorrebbero promuovere, anche sul piano formale, un cambia­ mento di stile; disdegnano le inaugurazioni di opere pubbliche e aborri­scono gli abiti da cerimonia, seppur - alla prova dei fatti - non rie­scano a sottrarsi alle lusinghe e alle tentazioni del sottogoverno. In effetti, la questione è di assoluta rilevanza , poiché la DC con­ solida il proprio sistema di potere grazie alle ingenti risorse costituite dalla spesa pubblica.
Nenni commenta angosciato le condizioni economiche in cui il cen­trosinistra inizia la propria esperienza e non ha parole per descrive­re lo stato dei conti pubblici : l'approvazione dei bilanci per l'esercizio 1964-1965 avviene con una “discussione agghiacciante”; dalla riu­nione con Moro e i ministri finanziari, “sono saltate fuori cifre paurose [...] da far rizzare in testa i capelli che non ho”.
Nella delicata con­ giuntura del paese, i socialisti non possono soddisfare le pur legittime ri­vendicazioni dei ceti popolari da essi rappresentati: “Tutti singolarmente hanno ragione,” annota Nenni. “Tutti globalmente abbiamo torto.” Insomma, la tanto magnificata “stanza dei bottoni” si rivela per il vecchio leader socialista un luogo da incubo, che gli provoca sensazioni d' impo­tenza. E, nel tormentato rapporto con Moro, è quest'ultimo che ha più filo da tessere.''
L'avvio del centrosinistra ha conseguenze rilevanti anche sul PRI. In seguito al voto contrario al governo Moro, l'ex ministro della Difesa Ran­dolfo Pacciardi, figura storica del partito, viene espulso. Di lì a poco, pre­si contatti con gli ex nemici fascisti [61] e con alcuni altri avversari del nuovo ministero, creerà il movimento Nuova Repubblica e fonderà il set­timanale “La Folla”.
L'ambasciata statunitense a Roma ne è informata già il 10 febbraio 1964, a tre settimane dal lancio del movimento, ma la valutazione è negativa, per il ridottissimo seguito e il carattere vel­leitario del gruppetto raccolto attorno al vecchio esponente repubblicano. Un giudizio assolutamente realistico, tanto è vero che tre mesi più tardi l'ambasciata confermerà il fallimento delle aspirazioni pacciardiane. L'espulsione dell'ex segretario non sembra comunque indebolire il PRI: come recita il comunicato dei probiviri repubblicani, “gli uomini cam­biano, il Partito resta” [165].
Alleato della DC fin dal 1947, e favorevole da tempo alla prospettiva del centrosinistra (prefigurata nel 1958 dal bicolore DC-Psdi), il Partito socialdemocratico è, tra i quattro alleati, quello meno destabilizzato dalla svol­ta politica. La sua figura di maggior spicco, Giuseppe Saragat, accede alla Farnesina e approfitta dei frequenti viaggi all'estero per ritagliarsi uno spazio autonomo sulla scena internazionale, in particolare grazie ai suoi rapporti privilegiati con l'amministrazione Johnson e con il governo labu­rista di Harold Wilson. A inizio gennaio, Saragat viene sostituito da Mario Tanassi alla segreteria del partito. Se l'unificazione socialista viene talora invocata (andrà in porto solo nel 1966, ma si rive­lerà effimera), non mancano i motivi di attrito tra il PSDI e il PSI, in primis il progetto di forza multilaterale atomica, difeso da Saragat e avversato da Nenni e il coordinamento della politica economica, segnato da vari diverbi tra il ministro delle Finanze Tremelloni e il ministro del Bilan­cio Giolitti. Meno problematici, invece, i rapporti dei leader socialdemocratici con il presidente del Consiglio.
La presenza in Italia del più agguerrito partito comunista occidentale, legato a Mosca da un vincolo di fedeltà, contribuisce a bloccare il sistema politico, valorizzando di conseguenza il ruolo dei socialisti, sdoganati dal­la terra di nessuno tra opposizione e governo. All'interno del PCI la leader­ship di Palmiro Togliatti - rafforzata nel 1954 dall'estromissione di Pietro Secchia - è indiscussa, e pure all'esterno l'immagine del partito coincide con quella del suo segretario.
Tuttavia la realtà è ben più sfaccettata. I verbali della Direzione rivelano, dall'inverno 1963-1964, la rarefazione della presenza di Togliatti, probabilmente per una concomitanza di fatto­ri: problemi di salute e stanchezza di fondo verso la politica, acuita da una strisciante crisi esistenziale. Alla vigilia della nascita del governo Moro, il vertice comunista esprime aperture sulla fase politica, poiché il malessere dei ceti popolari imprime agli eventi una “spinta a sinistra [che] non può essere fermata”.
Tuttavia, il programma di governo sottoscritto dai socialisti induce a giudizi nettamente negativi. A fine novembre 1963, Togliatti - relazionando alla Direzione del partito - afferma che “la linea Carli è pienamente accolta” ed esprime stupore per l'accettazione sociali­sta di un simile documento. Egualmente categorico il “riformista” Amen­dola, secondo cui “l'inserimento del PSI nell'area governativa sulla base di un cattivo accordo è un fatto molto grave” e “la pressione delle masse può essere l'elemento determinante per sbloccare la situazione, superare le difficoltà e i pericoli”.
La maggioranza dei membri della Direzione ritiene che si tratti del “peggior governo di centrosinistra” [104], nonostan­te Berlinguer faccia notare che questa formula “può far pensare che non ve ne possa essere uno peggiore” [117].
Valutati i cedimenti programmatici dei nenniani, i dirigenti comunisti (con qualche eccezione, Napolitano in primis) considerano realistica la spaccatura del PSI. In un primo momento, confidano in una scissione “che avvenga a destra e non a sinistra”, ovvero che segni la sconfitta degli autonomisti, per poi rendersi presto conto del rischio di essere scavalcati a sinistra da una nuova formazione politica. Come riassume Terracini, la scissione conviene soprattutto a democristiani e socialdemocratici, mentre al PCI converrebbe l'attivismo della sinistra socialista come condi­zionamento degli autonomisti. La strategia di Basso è quindi criticata dallo stato maggiore del partito, che considera la divisione del PSI come una iattura, termine che viene ripetuto e dibattuto in modo quasi ossessivo.
Costituitosi il PSIUP, Amendola esorta i suoi compagni alla “lotta sui due fronti” e denuncia un “pericolo di sinistra di una certa gravità”. Si temono contraccolpi sull'unità del movimento sindacale. La Direzione condanna quasi unanimemente la posizione del segretario della federa­zione giovanile, Achille Occhetto, che incontra esponenti del neo-costitui­to partito proprio mentre la FGCI subisce una forte perdita di ade­renti e stenta ad attrarre nuovi iscritti.