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2014,
Numero 8

Il “tintinnio di sciabole” e la vittoria dell'asse

Sull'orlo dell'emergenza democratica
di Critica Sociale

Le tre settimane comprese tra la caduta del governo e l'accordo quadripartite del 18 luglio sono generalmente ricordate, come il periodo del “tintinnio di sciabole”. Tale espressione, ascrit­ta a Pietro Nenni, non trova riscontro in alcun documento del luglio 1964 e risale verosimilmente al 1967-1968, ovvero all'epoca delle inchieste dell”‘Espresso”. Come scriverà Moro nel suo Memoriale, “la situazione era tesa e tanto più per l'agitarsi dei centri di azione agraria, dichiarata espres­sione di destra, pieni di acredine verso il centrosinistra.
Da parte loro poi i comunisti protestavano comprensibilmente per il prolungarsi della crisi”. Il timore di un colpo di Stato a opera dell'estrema destra o dei comunisti si intreccia con gli ultimi preparativi del Piano Solo e i laborio­si negoziati per la nascita del nuovo governo.
Riguardo il pericolo comunista, nel corso della presente ricerca si sono reperiti diversi rapporti inviati dai servizi segreti al presidente del Consiglio e al presidente della Repubblica. Il primo memorandum in or­dine di tempo, elaborato a fine novembre 1963, analizza la strategia e i metodi cui il PCI ricorrerebbe per assumere il controllo del paese. Il SIFAR lamenta l'attenuazione delle misure di discriminazione negli organismi statali, decisa da Gronchi all'indomani dell'elezione al Quirinale: da quel momento gli attivisti comunisti avrebbero “proliferato, come cellule can­cerose, negli organismi statali ed in seno ai partiti democratici, democri­stiano compreso”.
Con efficace sintesi, il SIFAR individua i metodi del PCI nella tattica degli scioperi (a singhiozzo, a catena, a settore) e nella tecnica degli scandali (amplificata dalla superiorità del proprio apparato propagandistico).
Nel contesto geopolitico della guerra fredda, il SIFAR si attende dal governo Moro un'“azione senza ambiguità ed ulteriori cedimenti”, nella consapevolezza della crescente insidiosità dei piani comunisti per la con­quista del potere mediante “le vie democratiche”, come attesterebbe il ri­suonare “nella TV e nella radio degli attuali accenti sinistroidi e filosovie ­tici”.
Le conclusioni operative prospettate dai servizi segreti sul piano politico consistono in quattro punti, concatenati tra loro:
1) riarmo ideologico;
2) fomentazione della scissione socialista;
3) “valorizzazione” dei socialdemocratici, delle correnti DC di centro­ destra e degli autonomisti del PSI;
4) eliminazione “dal seno dei partiti democratici di tutte le infiltrazio­ni comuniste”.

Le relazioni mensili del Comando generale dell'Arma dei carabinieri e i rapporti trimestrali della Direzione generale di Pubblica sicurezza descrivono una situazione dell'ordi­ne pubblico priva di particolari emergenze. Nonostante l'elevato numero di scioperi settoriali, nemmeno il movimento dei lavoratori è all'offensiva. Come constata il segretario della CGIL Novella, “nelle grandi aziende mo­nopolis te la reazione operaia ai licenziamenti e alle riduzioni di orario è debole” . Ai primi di aprile, la Direzione comunista adotta un piano di lavoro che prevede un'ondata di manifestazioni e un “eccezionale sfor­zo di propaganda”. Nella relazione sul secondo trimestre 1964, il capo della polizia Vicari segnala l'azione del PCI “che, avvalendosi delle organizzazioni fiancheggiatrici e sindacali, ha intensificato la sua campagna con­tro il governo di centrosinistra”.
Se i richiami alla frequenza degli scioperi non suonano allarmanti, a ogni buon conto carabinieri e polizia, questure e prefetture controllano dirigenti e quadri comunisti, nonché l'attività della scuola di partito delle Frattocchie.
Sull'effettiva consistenza del “pericolo comunista”, bisogna conside­rare che le iscrizioni al PCI tendono da tempo al declino. Nel concludere i lavori della Direzione del 2 aprile 1964, Berlinguer ammette l'esistenza di dissensi interni e traccia un quadro altamente problematico: “Non creare illusioni e non creare ostacoli al movimento di massa unitario. Non porre davanti al partito la prospettiva delle elezioni. Accentuare nei pros­simi mesi la pressione politica generale. Non possiamo prevedere quello che avremo fra un mese o due. Vi invito a non fare i profeti”.
Se si inseriscono questi dati nel contesto della spaccatura del movimento comunista internazionale è difficile immaginare l'assalto proletario ai centri del potere .
Lo stesso De Lorenzo accenna alle analisi di quanti credono che il PCI “versi in una situazione drammatica a causa degli sviluppi del dissidio cino-sovietico”, pur reputando realistica la tra­dizionale divaricazione tra l'estremismo della base e il tatticismo dei ver­tici.
All'apertura della crisi di governo, la segreteria del partito de­nuncia il fatto che “gruppi apertamente reazionari approfittano delle attuali difficoltà per rivolgere un attacco contro le istituzioni democratiche e repubblicane, e in questo modo preparare le condizioni dell'avvento di un regime autoritario” e invita alla più grande vigilanza le forze democratiche, le masse popolari e le organizzazioni della classe operaia. Il 3 luglio, una mobilitazione nazionale raduna a piazza San Giovanni circa centomila persone, convenute per ascoltare Giorgio Amendola e Palmiro Togliatti . Quell'iniziativa lancia un segnale a quanti, in am­bito politico e militare, auspicano un giro di vite repressivo. Grazie a un'entratura ai massimi livelli, il SIFAR conosce in anteprima le idee-guida del discorso di Amendola. Da parte sua, così Togliatti stronca le vociferazioni di golpe: “In Italia la via per qualunque involuzione reazio­naria è sbarrata; chi volesse attentare alla nostra libertà sappia che non ci sono speranze''. La manifestazione, inquadrata da un servizio d'ordine di circa tremila militanti del PCI, si svolge tranquillamente e non dà luogo a nessun incidente, come viene rilevato anche dalle forze di polizia e dai carabinieri .
Se anche per le forze dell'ordine la prospettiva di un colpo di Stato comunista risulta remota, appare più consistente un sollevamento pro­ mosso dall'estrema destra. Il 10 maggio, “Nuova Repubblica” ha organiz­zato un affollato comizio al teatro Adriano, che si è concluso con una manifestazione anticomunista giunta fino alle porte del Quirinale. Il mo­vimento pacciardiano è monitorato dall'ambasciata statunitense, che pe­raltro lo considera velleitario: “[...] not taken seriously either by the [...] Italian ruling group nor by the people at large”. Contrariamente a quanto si è poi sostenuto da più parti, non vi è alcuna convergenza tra Pacciardi e il generale de Lorenzo. Anzi, il comandante dall'Arma raggua glia sia Nenni sia i rappresentanti americani sui progetti dell'ex ministro della Difesa, con giudizi senza appello: “Pacciardi ha alcune buone idee, ed è onesto e sincero, ma il suo approccio è completamente sbagliato”.
Ritenuto da molti un capitano di ventura con rade e scompagnate truppe, Pacciardi si dimostra in realtà un fine politico lad­dove individua nell'accoppiata Segni-Merzagora il perno della possibile svolta presidenzialista. All'indomani delle dimissioni di Moro, egli invita il presidente del Senato a un rinnovamento di metodi e contenuti, per “restare nell'ambito costituzionale ma non con le procedure normali”.
Secondo il suo auspicio, “il Capo dello Stato deve prendere la situazione in mano, fare un messaggio alle Camere, cioè al Paese, rilevando che la situazione è grave ma rimediabile purché non si lascino marcire i proble­mi che non possono aspettare. Perciò il Capo dello Stato deve nominare il Presidente del Consiglio e su sua proposta i ministri. Alcuni ministri tecnici debbono essere presi fuori dal Parlamento . Contro un governo Presidenziale le Camere non voterebbero”.
In caso di bocciatura parlamentare e di contestazioni comuniste nelle piazze, si dovrebbe rispondere con la ferrea gestione dell'ordine pubblico e le elezioni anticipate.
Mer­zagora concorda sull'opportunità di un governo tecnico e lascia intende­re che opererà in quella prospettiva, pur consapevole delle remore demo­cristiane. “Nuova Repubblica” si avvicina ai Centri d'azione agraria del principe Sforza Ruspoli, già promotori di agitazioni nelle regioni rurali del Sud.
Il 5 luglio, Pacciardi e Ruspali terranno un comizio a Ba­ri, chiudendo l'intervento con la promessa di “portare la rivolta in tutte le campagne, casolare per casolare”.

Fin dal giorno della caduta del governo (26 giugno), il Comando ge­nerale delle forze armate statunitensi nel Sud Europa redige un memo­randum sulla possibilità di un prossimo colpo di Stato da parte della destra italiana. Neofascisti e pacciardiani - peraltro non coordinati tra loro - intenderebbero organizzare nella capitale manifestazioni di piazza; qualora a esse si contrapponessero militanti di sinistra, i carabinieri as­sumerebbero immediatamente il controllo della situazione, senza coin­volgere la polizia (politicamente inaffidabile), in attuazione del Piano Solo. Il rapporto del comando SIFAR era già noto, ma viene presentato per la prima volta in questo volume senza alcuni importanti omissis, in particolare una frase in stile telegrafico, censurata fino a oggi: “President Segni aware this plan”. È questo un decisivo elemento di conoscenza, sinora secretato dagli americani, che conferma in via definitiva il livello di coinvolgimento del presidente della Repubblica nella genesi e nell'approvazione del Piano Solo.
Per questo motivo, lo stesso 26 giugno si svolge una riunione dei vertici dell'Arma dei carabinieri, per disporre l'aggiornamento della lista delle persone “potenzialmente pericolose” per l'ordine pubblico: i cosiddetti “enucleandi”, appartenenti quasi esclusivamente a partiti e a organizzazioni - sindacali e culturali - della sinistra comunista e socialista.
Il 27 giugno iniziano le consultazioni al Quirinale. Lo scioglimento anticipato delle Camere viene subito escluso, poiché non conviene . né ai partiti di governo né alle forze di opposizione [478]. Dall'apertura della crisi, il SIFAR redige rapporti informativi (definiti veline) per il presidente della Repubblica. Documenti finora inediti, al tempo stesso informativi e orientativi, in quanto comunicano a Segni ciò che egli desidera sentirsi dire: che il centrosinistra non riscuote la fiducia degli italiani, che “tra l'idea cattolica e le istanze socialiste” vi è incompatibilità, che “soltanto il Capo dello Stato potrà dire la parola decisiva” e che in lui confidano tutti i benpensanti.

Fin dal primo giorno inizia una sotterranea prova di forza tra Segni e Moro: il capo dello Stato vorrebbe affidare il governo a un esponente del­ la destra DC (Scelba, Pella o Leone) o a una personalità tecnica come Mer­zagora; il presidente del Consiglio uscente cerca di convincere i quattro partiti della coalizione a pronunciarsi compatti sul suo nome, in modo da obbligare Segni a conferirgli l'incarico. La prospettiva politica sostenuta dalle destre è riassunta in questi termini dall'editoriale apparso sul “Cor­riere della Sera”: “Abbiamo bisogno d'un governo d'emergenza per una situazione d'emergenza” [440]. All'uscita dalle consultazioni al Quirinale, Merzagora annuncia ai giornalisti di essere disponibile per una simile soluzione.
Il presidente del Senato vorrebbe guidare un governo super partes, con un carattere di esecutivo “a termine”, limitato cioè all'attuazione di un pacchetto di misure prioritarie per modernizzare lo Stato, com­battere la crisi economica, riportare le istituzioni a un corretto funziona­ mento (riducendo il ruolo delle segreterie di partito). Un programma so­stanzialmente anti-partitocratico e contrario allo statalismo di quanti - privi di effettive qualità - si legano a questa o a quella forza politica per assicurarsi lucrose presidenze di enti, occupando cariche cui non sareb­bero mai pervenuti per propri meriti. Nelle intenzioni del proponente, il governo di unità nazionale esclude una situazione di contrapposizioni e aspre lotte.
Merzagora prevede sconquassi sociali e incidenti di piazza nel caso in cui il centrosinistra continui ad aggravare la situazione economica, e concepisce il suo gabinetto come la sola misura in grado di evitare lo scivolamento del paese nel marasma dello scontro interno. Egli è sicuro di interpretare la volontà degli imprenditori e del mondo finanziario; in effetti la Confindustria - attraverso il suo presidente Furio Cicogna - lo stima e lo appoggia.
Fanfani, osservatore acuto e tutt'altro che di­sinteressato, sintetizza mirabilmente nel proprio diario: “Merzagora ha detto a Moro che ci vuole una soluzione: la sua”.
Il presidente del Senato ha in animo un esecutivo d'emergenza, che affianchi ai maggiori esponenti politici - democristiani (Colombo, Fanfa­ni, Leone, Moro, Scelba, Taviani) e dei partiti alleati (Giolitti, La Malfa, Saragat, Tremelloni) - personalità dell'economia e della finanza da inse­diare nei ministeri chiave. Si tratta di una decina di “tecnici” che nel loro settore godono fama di esperti e di galantuomini.
Contrariamente a ciò che spesso si legge, Merzagora non prende invece in conside ­razione Pacciardi come un possibile ministro degli Interni. Nei tormenta­ ti organigrammi alcuni nomi sono barrati e sostituiti da altri candidati. Tra i cancellati figurano Pietro Nenni (probabilmente più utile alla segre­teria del PSI, per garantire la collaborazione del partito), il segretario libe­rale Giovanni Malagodi e il missino Gastone Nencioni, indicato come ministro della Riforma burocratica e poi sostituito dal compagno di par­tito Araldo Crollalanza.
La presenza di un esponente neofascista è l'ele­mento di maggiore sorpresa nelle liste preparate da Merzagora. Difficile comprenderne la logica forse per scongiurare contestazioni di piazza?
Quanto al programma, il presidente del Senato punta anzitutto - e lo indica come prima delle tre “premesse irrinunciabili” - all'abbattimento dei costi della politica, con un ferreo controllo sulle finanze dei partiti, onde costringerli a “smobilitare gran parte dell'apparato, [e] cessare dal vivere come fuori legge o come contrabbandieri”. Tra le priorità vi è la ri­ strutturazione degli enti previdenziali, con la riduzione dei contributi con­ trobilanciata daJl' eliminazione dei potentati costituiti dalla “casta di am­ministrazione”. Il terzo provvedimento prevede - entro un semestre - il riesame della Costituzione, per adeguarla ai mutamenti nel frattempo in­tervenuti e sfrondarla dalle parti caduche. Le altre proposte sono la ridu­zione del bilancio statale, un anno di tregua salariale, il tetto massimo alle retribuzioni dei funzionari pubblici, l'appello al rimpatrio di capitali espor­tati illegalmente e infine la stipulazione di un patto di lealtà tra classe di­rigente e cittadini sull'attuazione del programma di governo, con il presi­dente della Repubblica investito del ruolo di garante dell'intesa.
L'intensità del rapporto con Segni induce a credere che Merzagora fosse a conoscenza, quantomeno in termini generali, dell'esistenza del Piano Solo. Nell'incontro di marzo con i rappresentanti della CIA, de Lo­renzo aveva infatti anticipato che avrebbe esposto, da lì a poco, i suoi piani di sicurezza al capo dello Stato e al presidente del Senato. In ogni caso, sembra acclarato che Merzagora conti su ben altre sponde dei carabinieri, come aveva già scritto a fine aprile a Moro: “Mi rifiuto di pensare che vi sia un solo uomo politico che nella sua mente si affidi alla Celere e ai suoi caroselli per sistemare le cose”.
Peraltro, nell'organigramma del governo di emergenza, il titolare degli Interni sarebbe stato Scelba, notoriamente ostile a de Lorenzo. Improbabile, dunque, la sua opzione pro Piano Solo, tanto più che tra lui e il comandante dell'Arma i rapporti sono formali.
In definitiva, Merzagora confida anzitutto su se stesso, ovvero sulla superiorità della propria capacità analitica rispetto a quella di chiunque altro e ai primi di giugno continua a inviare memoriali allarmati al presidente della Repubblica.
Il SIFAR, che ha sempre diffidato di Merzagora, dispone di un infor­matore nell'immediato entourage di Palazzo Madama; le notizie raccolte dall'affidabilissima fonte vengono sintetizzate e trascritte nelle veline per Segni, che in questo modo è aggiornato sulle più riservate valutazioni politiche del presidente del Senato. In una conversazione del 30 giugno con un alto funzionario, “Merzagora ha concluso dicendo che quasi cer­tamente il Presidente Segni affiderà nuovamente l'incarico all'On. Moro, ma il Parlamento non concederà la fiducia ad un secondo ‘centro sinistra' quindi si dovrà per forza ripiegare su un ‘governo di tecnici', che i gruppi parlamentari saranno costretti ad appoggiare”.
Il reincarico al pre­sidente del Consiglio uscente consisterebbe dunque in un'insidiosa trap­pola ... Sempre dall'infido collaboratore di Merzagora apprendiamo che l'auspicato esecutivo di salute pubblica, guidato da tecnici non parlamentari, dovrebbe operare per un biennio al massimo, con il compito di rias­sestare la deplorevole situazione economica.

Oltre all'ipotesi Merzagora, Segni non esclude di affidare il mandato a un esponente della destra ne come Pella o Scelba. Come racconterà quest'ultimo nelle sue memorie, il capo dello Stato [...] mi chiese di tenermi pronto, insieme con Pella, nella nostra qualità di ex presidenti del Consiglio, a una eventuale chiamata per la costituzione di un nuovo governo. Mi dichiarai contrario a questa soluzione, ma insistendo Segni sull'idea di sostituire ilgoverno Moro con un governo presidenziale formato da me o da Pella, gli domandai se avesse un programma per dominare le mani­festazioni che la formazione di un governo presidenziale avrebbe sicuramente provocato. Segni rispose di non avere elaborato alcun programma, ma che con­tava sui carabinieri. Gli dissi di essere cauto con i carabinieri perché a loro capo c'era un ufficiale al quale io, ministro dell'Interno, per due volte, per ragioni politiche, avevo opposto il mio no alla nomina a comandante generale dell'Arma.
Dopo una pausa di riflessione, la sera del 3 luglio Segni conferisce l'incarico a Moro. Il capo dello Stato spiega a Fanfani le ragioni di una scelta che può sembrare sorprendente: “Ha cominciato col dire che i grup­pi del centrosinistra con le loro pubbliche dichiarazioni lo hanno messo in condizione di non poter essere libero, quindi avrebbe dovuto rimanda­re Moro alle Camere, se tutti dicono di volerlo. Ha preferito confermargli l'incarico”. Ovviamente, Segni spera in un insuccesso del tentativo; lo asseconda il SIFAR, che commenta in una velina: “la vera dura battaglia comincerà allorquando Moro inizierà le proprie consultazioni”.

Ottenuto il reincarico, il 4 luglio lo statista pugliese avvia le consultazioni e subisce una memorabile “strigliata” dal presidente del Senato che, in luogo delle tradizionali felicitazioni, gli porge “le condoglianze per aver assunto un incarico tanto difficile quanto pericoloso”, definendo assurdo che a risolvere la crisi sia chi l'ha provocata. Merzagora lo esorta “per il suo bene” a rifiutare l'investitura, onde non aggravare una situazione già compromessa, destinata a esplodere in autunno con decine di morti , im­ponendo tardivamente il “governo di emergenza che io avevo appunto proposto all'inizio delle consultazioni, sicuro come ero allora nel mio can­dore e nel mio buon senso, che il Governo del centrosinistra non sarebbe stato riproposto da chi lo aveva messo al tappeto”.
Sul piano dei contenuti, Merzagora è scandalizzato dal “programma Giolitti che preve­de cose folli e inaccettabili anche dal punto di vista costituzionale e che trasformerebbe l'Italia in un Paese ad economia socialista”.
Espres­sioni durissime e persino provocatorie, ancora più rilevanti in quanto -dal circostanziato resoconto inviato a Segni - s'intuisce che il capo dello Sta­to conosceva e condivideva quanto Merzagora avrebbe detto a Moro in quella conversazione, definita “molto penosa”.
Il presidente incaricato, deciso a riproporre il suo governo in versione più moderata, chiede a Nenni garanzie preventive contro i “guastatori” socialisti. Analoga pretesa esprime il segretario democristiano Ru­mor: “Nei rapporti tra i partiti eliminare il doppio gioco azionista”. Il punto nodale è insomma la chiarificazione interna ai socialisti, che spianerebbe la strada al Moro bis, costringendo Segni e i riluttanti notabili ad accettare la riedizione edulcorata del centrosinistra.
L'am­basciatore francese riferisce in tal senso al Quai d'Orsay, e coglie nel segno. Si prefigura dunque il sacrificio di Giolitti e di Lombardi che, al Ministero del bilancio e alla direzione dell”‘Avanti!”, simboleggiano - nel­la percezione degli avversari dell'esecutivo - la socialistizzazione dell'Italia. In seno al PSI si ha immediata percezione di queste dinamiche, tanto è vero che a fine giugno Brodolini aveva dichiarato ai giornalisti che “non si può spaccare il PSI per far piacere alla DC”.
Al Comitato centrale del 3-4 luglio Lombardi è sul banco degli accusati, ma la resa dei conti è rinviata alla soluzione della crisi di governo; eloquente la sintesi di Nenni: “Sulla questione Lombardi abbiamo detto che esiste e va risolta. Ho precisato che non lo possiamo fare mentre la sua testa ci viene chiesta con insolenza”.
Effettivamente su Lombardi si addensa una bufera. Nella mattina del 6 luglio si parla di lui al Quirinale: il governatore della Banca d'Italia rie­voca per Segni un discorso dell'anno precedente (dunque anteriore alla nascita del governo Moro), nel quale l'esponente socialista fornì la sua interpretazione della programmazione. Il capo dello Stato, fortemente im­pressionato, chiede a Cadi di recuperare la trascrizione di quell'interven­to; ricevutala, giudica l'intento lombardiano sulla programmazione eco­nomica “antitetico a quello della Costituzione”.
Già il 6 luglio il SIFAR informa Segni - nella velina quotidiana - sulla disponibilità degli autonomisti al rinvio dell'ordinamento regionale a fine 1965; sull'urbanistica fervono difficili trattative; i contributi statali alla scuola privata vengono confermati, con l'accortezza di modificare la voce di bilancio [504]. Per parte sua Giolitti non esclude di restare al governo,ma “tutto dipende dal quadro politico e dalla soluzione dei problemi spe­ cifici del ministero del Bilancio”.
Il 7 luglio i delegati dei quattro partiti della maggioranza avviano il primo di una fitta serie di incontri. Le estenuanti trattative di Villa Mada­ma sono descritte attraverso le veline del SIFAR e gli appunti, finora inediti (e quasi illeggibili) di Nenni e dei suoi collaboratori. Il SIFAR fornisce a Segni un parere profetico: “si ritiene che, sotto l'influenza moderatrice di Nenni, Moro riuscirà a sciogliere la riserva in senso positivo”. Az­zeccata pure la previsione sulla sorte del ministro del Bilancio: “sempre precaria viene considerata la posizione di Giolitti”. I servizi segreti deci­frano con esattezza la situazione, anche se il ricompattamento dell'allean­za richiederà una dozzina di convulse giornate e lo spauracchio del Piano Solo.
Moro introduce la ripresa delle trattative riassumendo le divergenze (politica fiscale, scuola, legge urbanistica) e invocando “la volontà politica degli aderenti alla coalizione”, in un clima di reciproca sfiducia e con generalizzate pretese di strappare concessioni agli alleati-rivali.
“Tut­ti d'accordo su tutto, tutti d'accordo su nulla,'' chiosa Nenni, consapevole dei dissidi su importanti punti programmatici. La trattativa è frena­ta da schermaglie e tatticismi, riserve mentali e tentazioni di forzatura. Rumor, Colombo e Gava prolungano ed esasperano il confronto, per alza­re la temperatura della crisi e imporre le proprie condizioni. Nenni inter­rompe Colombo per fargli notare l'inopportunità di certe misure da lui prospettate; il ministro reagisce piccato e minaccia le dimissioni . Nel po­meriggio il leader socialista gli invia (con copia a Moro) un messaggio conciliante : “Dico che se vogliamo che milioni di diseredati subiscano ancora per qualche tempo la loro dura sorte, dobbiamo dar prova di una estrema severità nel colpire i profitti, le speculazioni, le sperequazioni e gli abusi. Non c'è quindi un contrasto, e meno che mai un incidente, che turbi i nostri rapporti. C'è un problema da risolvere insieme”. Quel­la sera, Nenni confida al diario lo sgomento per le conseguenze del disac­cordo tra i partner del centrosinistra (“forse un governo presidenziale tipo Tambroni 1960; in ogni caso, l'avventura'') e delinea la resa socialista: “Evitare questo è più importante dell'urbanistica o delle regioni o di ogni singolo punto di un programma” .
La seconda giornata di trattative, 1'8 luglio, è burrascosa: ai tre argo­menti spinosi (scuola, urbanistica, programmazione) i democristiani ag­giungono il blocco della scala mobile sui salari e l'estensione del centrosinistra agli enti locali. L'indomani si giunge a un accordo sulle misure fiscali, ma per il piano Giolitti e la riforma regionale vi è il rinvio sine die, mentre il dissidio sulla questione scolastica si manifesta in tutto il suo vigore . Dopo la bocciatura del capitolo 88, Rumor esige “Una specie di riparazione da offrire alla DC o sotto forma di una leggina che estenda a tutte le scuole dell'obbligo il sistema dei contributi dati alla scuola privata”. Di fronte a questo irrigidimento, che rischia di impedire la formazione del governo, Nenni avverte già “il pericolo di uno scontro frontale fra la destra e le masse controllate dall'estrema sinistra” e fa ap­ pello alla responsabilità dei delegati dei quattro partiti.
Il 10 e 1'11 luglio sono due giornate interlocutorie, in cui emergono contrasti insanabili sulla scuola e la legge urbanistica.
A Villa Madama vi è un convitato di pietra: il presidente della Repubblica, contrario al piano quinquennale, da lui considerato come “il primo passo per uscire decisamente dal sistema economico attuale”. Nella crea­ zione di un ente statale nel campo dell'edilizia, egli ravvisa una violazione degli articoli 41-42-43-44 della Costituzione.
Durante la crisi, non sarà l'unica volta che Segni farà riferimento alla Carta del 1948: in una lettera a Cadi, in merito alla programmazione, parlerà - come si è prece­dentemente rilevato - di “spirito antitetico alla Costituzione”; ad accordo raggiunto, dirà a Moro di avergli mantenuto il proprio appoggio “entro i limiti della Costituzione” . Una Costituzione che, a suo avvi­so, esclude sia la pianificazione economica sia espropri urbanistici.
Peraltro, il capo dello Stato si oppone con vigore alla conferma di Giolitti al Bilancio ed esige il ripristino degli aiuti alla scuola privata, posizioni riecheggiate da Rumor durante le estenuanti trattative tra i quattro partiti della coalizione. La diffidenza del presidente della Repub­blica non risparmia nemmeno i leader democristiani, convocati separata­ mente al Quirinale per conoscerne le posizioni , documentate nelle regi­strazioni effettuate in segreto dal SIFAR . Segni ammonisce i suoi interlocutori alla coerenza tra ciò gli dicono e quanto poi sosterranno negli incon­tri di governo. Regista degli irrigidimenti del partito cattolico, Segni sintetizza nei suoi appunti la pressione esercitata sul politico vicentino : “Mattina parlo con Rumor e gli metto un po' di paura. Gli telefono più tardi che Mons. Dell'Acqua (senza fare il nome) vede la possibilità di un imminente scioglimento ed elezioni”.
Le premure del Quirinale investono anche Moro, che tuttavia rimane
- almeno apparentemente - fermo sulle proprie posizioni. Con frequenza quotidiana Segni lo ammonisce sull'urgenza di reintegrare i fondi alla scuola religiosa, come “riparazione del torto subito”. Un saggio epistolare del rullo compressore presidenziale: “L'accordo sulla scuola de­ ve esser completo e preciso. Sull'urbanistica, è superfluo rilevare che quan­ to si propone non è costituzionale . Sulle regioni, sono convinto che il loro costo non può esser sostenuto. Pensare che vi sono le alternative, alle quali accennai”. “Le alternative” rinviano al governo tecnico, con eventuali elezioni anticipate in caso di mancata fiducia parlamentare. Dal Vaticano giungono tuttavia segnali contrari agli auspici presidenziali: se il centrosinistra è considerato “una formula che si accetta per necessità”, la Santa Sede disapprova sia l'affossamento dell'alleanza con i laici sia lo scioglimento del parlamento.
Il 13 luglio, in seguito a una fitta serie di incontri, l'accordo quadri­ partito sembra in dirittura d'arrivo: raggiunta l'intesa sulla legge urbani­ stica, le misure anticongiunturali, la programmazione e le regioni, l'esito delle trattative è giudicato “positivo” dal SIFAR.
Si registra invece una totale insoddisfazione dei lombardiani, che rifiutano i cedimenti di Nenni e De Martino . Con Lombardi e Giolitti sono schierati Tristano Co­dignola, Tullia Carettoni, il ministro Carlo Arnaudi, i sottosegretari Luigi Anderlini e Arialdo Banfi. Si delinea così - per dirla con Giolitti - un'”inevitabile epurazione” dei dirigenti staccatisi dagli autonomisti . Con dodici voti contro sei la Direzione del PSI autorizza il prosieguo della trattativa.
Nenni vorrebbe da Lombardi le dimissioni dalla responsabilità dell”‘Avanti!”, come conseguenza del suo passaggio all'opposizione inter­na, ma il desiderio resta al momento inappagato. Fino ad allora si­lenzioso, Giolitti annuncia l'abbandono del Ministero del bilancio. La sua delusione è comprovata dall'annotazione diaristica del 13 luglio: “Non sono disposto a fare il beccamorto del mio piano né la foglia di fico di un centrosinistra ormai svuotato di ogni forza politica”.
Nenni appare disperato per il prezzo pagato dal suo partito a fronte di risultati assolu­tamente insoddisfacenti. Sul piano programmatico, infatti, chi “più ha rinunciato alle posizioni già assunte, giuste o non che fossero, è proprio il PSI. [...] Si ricordino tutti che il PSI ha pagato a questa politica il maggior prezzo: una scissione. Ed anche ora per continuare questa politica è avve­nuta una lacerazione nella stessa attuale maggioranza del Psi”. Di qui, le accorate invocazioni agli “alleati” a non infierire: “oltre questo, altro non si può chiedere”.
Ai vertici della DC intransigenti e possibilisti si contendono la scena. Giorno dopo giorno, il segretario Rumor e il capogruppo al Senato Gava si differenziano da Moro e dal capogruppo alla Camera Zaccagnini . Gli analisti della CIA esaminano la diversificazione nel partito di maggioranza relativa, con Moro nel ruolo di “pontiere” verso i socialisti e Rumor di garante moderato contro “pericolose concessioni”.
Il duplice binario della delegazione rispecchia le divisioni del partito tra fautori e detrattori dell'alleanza.
Le correnti di Forze Nuove (i sindacalisti di Pastore e Donat Cattin) e della Sinistra di Base (dell'ex ministro Sullo) fanno la fronda ai dorotei e aprono ai tre partiti laici, in particolare alle richieste di tutela dei lavoratori dipendenti. Nelle trattative di Villa Madama, Rumor si op­pone alla strumentalizzazione di queste aperture e prorompe collerica­mente: “Qui si fa vivisezione della DC e non lo posso permettere!”. Appena i delegati dorotei annunciano che il capo dello Stato rifiuterà di firmare la legge urbanistica, Saragat prospetta la versione italiana del “caso Mil­lerand”, il presidente francese che nel 1924, manifestatosi il disaccordo con il Cartello delle sinistre (appena giunto al potere), era stato costretto alle dimissioni. L'intransigenza democristiana ricompatta so­cialisti, socialdemocratici e repubblicani, che escludono alternative al cen­trosinistra. Riassumendo gli eventi del 14 luglio (anniversario della presa della Bastiglia), Nenni annota nel suo diario: “Siamo finalmente arrivati alla stretta finale e probabilmente alla rottura”, mentre le veline del SIFAR presentano la DC come vittima dell'altrui prepotenza: “si tratta di ben strane trattative queste dei quattro partiti, nel corso delle quali tre soci si coalizzano ai danni del quarto per costringerlo alla resa sotto la minaccia della rottura e del ricatto” [552].
I colloqui riservati tra politici italiani e funzionari dell'amministrazione statunitense s'infittiscono quando la crisi entra in un vicolo cieco e le trattative s'impantanano. Un rapporto della CIA del 15 luglio raccoglie i pareri di una decina di politici, i cui nomi sono ancora oggi coperti dal segreto. Un esponente DC afferma che solo un miracolo potrebbe salvare Moro (ma precisa di non credere nei miracoli ...). Un collega di partito ritiene che i socialisti, se garantiti contro il rischio di elezioni anticipate, cederebbero alle pretese programmatiche DC. Un terzo parlamentare indi­ca quale punto di forza del centrosinistra il sostegno vaticano, fattore confermato dai sondaggi americani tra le gerarchie ecclesiastiche.
L'interruzione dei negoziati avviene in un contesto pesante e minac­cioso, in cui aleggia la preoccupazione per un colpo di forza . Fin dal 29 giugno la segreteria del PCI ha emanato un comunicato allarmistico sul pericolo portato alla democrazia da “gruppi apertamente reazionari”, de­cisi a favorire con la loro azione I'”avvento di un regime autoritario”. A cavallo tra giugno e luglio il Comando generale dell'Arma registra pe­santi allusioni di alcuni parlamentari comunisti, i quali nei comizi sotto­lineano “che l'Italia ‘non è una Repubblica Sud Americana' e che qualsia­si atto di forza sarebbe stroncato dai lavoratori”.
Si segnalano episodi clamorosi di propaganda, mediante scritte murali, a favore di un governo dei militari che amalgami i carabinieri di de Lorenzo ai seguaci di Pacciardi.
Siccome si diffonde, all'estero come in Italia, la preoccupazione per un possibile tentativo golpista, alcune veline per Segni commentano con fastidio le “voci irresponsabili e incontrollate di iniziative da parte delle Forze Armate”. La frequenza delle smentite esprime la profondità delle inquietudini di fronte alle “tendenziose insinuazioni” provenienti da ambienti apparentemente ben informati.
Nella fase calda della crisi, il periodico della corrente DC dei basisti pubblicherà la fotografia di un drappello di carabinieri a cavallo, impe­gnato nel controllo dell'ordine pubblico, corredato da una didascalia si­billina: “E si sperava che i carabinieri si sarebbero prestati ad un colpo di Stato”. Ovviamente il Comando generale dell'Arma riceverà copia della rivista, archiviata nel materiale su quella scottante estate.
Le convocazioni al Quirinale del presidente del Senato ( 13 luglio) e del capo di Stato Maggiore dell'esercito, Rossi (14 luglio) vengono deco­dificate dalla classe dirigente come segnali minacciosi, sintomatici del possibile scavalcamento di una politica incapace di rispondere ai problemi del paese. Quegli incontri atipici sono invece spiegati dal SIFAR come atti stabilizzatori: “ricevendo il Presidente del Senato prima e il Capo di Stato Maggiore della Difesa, ha voluto rassicurare gli italiani, così si osserva in ambienti responsabili, che egli non permetterà che la situazione interna possa degenerare in manifestazioni pericolose per le istituzioni dello Sta­ to e per la libertà, il benessere e la sicurezza dei cittadini” [552].
Pietro Nenni vede riaffacciarsi, nella frustrazione di una crisi senza sbocchi positivi, i fantasmi del passato . A metà luglio comprende che la situazione è ancora fluida e si dovrà ancora attendere una chiarificazione programmatica, preliminare al decollo del nuovo centrosinistra, ma il pen­siero del leader socialista corre “a Giolitti che nel settembre-ottobre 1922 aspettava a Vichy la chiamata del re...” [557]. L'annotazione diaristica pa­ragona i temporeggiamenti di Moro a quelli di Giovanni Giolitti, e sottin­tende il timore che - come già Vittorio Emanuele III - Segni possa conse­gnare il governo a una personalità sostenuta dai militari.
Effettivamente, negli ambienti favorevoli alla coalizione di centrosi­nistra, si teme che la situazione possa sfuggire di mano l ceto politico. La mattina del 16 luglio - e non del 15 luglio, come si legge in tutti gli scritti sul Piano Solo - il generale de Lorenzo sale a sua volta al Quirina­le.
Il raffronto tra le due agende del comandante dell'Arma dimostra che l'appuntamento è stato deciso all'ultim'ora (infatti non compare nell'agenda compilata dal segretario di de Lorenzo).
Segni avverte de Loren­zo di prepararsi a un confronto con Moro e con i rappresentanti democri­stiani. In giornata, l'incontro con il generale viene pubblicizzato con un comunicato stampa che, per la sua irritualità, colpisce il mondo politico. L'evento risolutore della crisi è la riunione segreta in casa Morlino (16 luglio) dei vertici democristiani - in due incontri separati - con il comandante dell'Arma e il capo della polizia. Convegno rimasto a lungo segreto e che solo recentemente è stato possibile ricostruire sulla base di rappor­ti inediti di de Lorenzo. La riunione è stata concordata tra Segni e Moro per verificare la tenuta dell'ordine pubblico nell'ipotesi di un governo di emergenza e di elezioni anticipate. De Lorenzo sintetizza linee guida e obiettivi “stabilizzatori” del Piano Solo e Vicari conferma la saldezza dell'ordine pubblico anche nell'ipotesi di uscita di scena del centrosinistra.

Ebbene, il decisivo episodio è ignorato dalle veline del SIFAR.
I protagonisti dell'incontro (Moro, Gava, Rumor, Zaccagnini, de Lo­renzo e
Vicari) hanno sempre affermato che a casa Morlino si parlò solo della situazione dell'ordine pubblico, che non destava particolari preoccupazioni. Ricostruzione plausibile, ma al tempo stesso minimizzatrice: poiché era proprio l'assenza di manifestazioni di piazza a rafforzare l'ipo­tesi di un governo tecnico e l'abbandono del centrosinistra. Infatti, nel salutare Moro, il capo della polizia Vicari gli sussurra all'orecchio di farsi subito da parte.
Lo statista pugliese già conosceva l'esistenza del Piano Solo o la apprese proprio in quell'occasione? Non è possibile rispondere alla domanda se non basandosi su una serie di osservazioni psicologiche. Il 14 luglio, in seguito alla drammatica riunione di Villa Madama, Nenni lo vede allo stremo: “Ho esortato Moro a lasciare il campo libero agli in­triganti del suo partito. Egli è stretto da tutte le parti: da Segni, da Fanfa­ni e da Rumor. Forse anche dalla Chiesa [...]. Ci vorrebbe un colosso per resistere e Moro non lo è”.
In realtà, Moro regge l'offensiva di doro­tei, scelbiani e fanfaniani: egli è ben più coriaceo di quanto non appaia.
Alcune ore dopo l'incontro a casa Morlino, il presidente incaricato torna al Quirinale. Il capo dello Stato ipotizza - in caso di accettazione delle proposte socialiste - la nascita di un secondo partito cattolico (“sa­rebbe politicamente la fine di tutto”). Sia per Segni sia per Moro, l'unità della DC è presupposto irrinunciabile dell'attività politica. Il monito del presidente della Repubblica suona dunque particolarmente duro: “State attenti a quello che fate. La condizione che posi deve essere osservata nell'interesse della stessa democrazia”.
Nei suoi appunti lo stesso Segni descrive Moro come “molto stanco e depresso”, “molto abbattuto” e incli­ne ad abbandonare. Ma il capo dello Stato intuisce che egli “farà ogni sforzo per riuscire”.

In serata, Moro è allo stremo delle forze e avverte un malessere a Vil­la Madama. La riunione tra le quattro delegazioni viene dapprima sospe­sa, poi rinviata all'indomana. In una pausa delle trattative, Ru­mor sussurra a Nenni: “Aiutateci, siamo al limite della disgregazione, dopo di che non ci sarà posto che per lo scontro diretto destre e comunisti senza nulla in mezzo”. A fine giornata, lo stesso Nenni annoterà nel suo diario: “Moro è stato duramente attaccato da ogni parte. Su di lui nella giornata di oggi si è esercitata la pressione di Segni perché si ritiri, e di­cono anche quella di Vicari, ma non ci credo. Moro era visibilmente di­ sfatto” [563].
L'atteggiamento di Moro durante le convulse giornate del luglio 1964 può essere interpretato secondo due chiavi di lettura. Egli patisce eviden­temente le pressioni e le tensioni cui è sottoposto, e le sue condizioni psi­cofisiche crollano proprio nel periodo in cui apprende l'esistenza del Piano Solo. E il 22 luglio, Nenni lo descrive nuovamente “distrutto fisicamente e moralmente abbattuto. È evidente che non regge né al peso dell'ufficio né all'attacco che è mosso contro di lui”. Al tempo stesso, non si deve sottovalutare l'abilità manovriera e la lungimiranza politica dello statista che - combinando inerzia, apparente cedevolezza e tenace resistenza - as­sicura alla ne il massimo risultato possibile. Il 16 luglio, lo stesso Nenni si chiede se il malessere di Moro non sia analogo “alla fase degasperiana degli svenimenti di venti anni orsono”.
Il politico romagnolo si rife­risce a quanto accadde tra il 7 e il 10 dicembre 1945, quando De Gasperi riuscì a formare il governo anche grazie a un provvidenziale svenimento, forse simulato. In Moro bisogna inoltre considerare la componente dell'uo­mo di potere, che rinvia sine die le riforme sgradite al proprio partito e, messo in causa da Merzagora sull'approvazione democristiana del Piano Giolitti, replica con cinismo: “E chi l'ha visto?”.
Gli eventi del 16 luglio pongono fine a due settimane di tatticismi e immobilismi. Negli appunti di Villa Madama, lo spauracchio del Piano Solo non appare mai direttamente, ma è probabile che Nenni ne abbia sentore proprio in quei giorni. In un promemoria qui non riprodotto - probabilmente successivo al 196483 - il leader socialista riassumerà la fine delle trattative con un accostamento evocativo:16 luglio - Pressioni di Segni (e si dice di Vicari) su Moro perché si ritiri. 17 luglio Accordo fatto alle 3 di mattina [del 18 luglio].

Nenni spiega ai compagni la necessità di raggiungere l'intesa con la DC anche a costo di “qualche dolorosa mutilazione”, ovvero l'uscita dei lombardiani dal governo e dal gruppo dirigente socialista. La velina del SIFAR riassume le posizioni DC, presentate in modo ultimativo agli alleati e (come profetizzato da Scalfaro) integralmente accolte: “priorità per i problemi connessi alla sfavorevole congiuntura economica; rinuncia al piano Giolitti che viene citato soltanto a titolo di riferimento; rinunci a alla espropriazione generalizzata; estensione del centrosinistra alle amministrazio ni regionali, provinciali e comunali; ripristino dello stanziamento per la scuola privata e nuovo inserimento del capitolo 88 nel bilancio della Pub­ blica Istruzione”. La stretta finale si concentra su controversie no­minalistiche. Per volontà di Rumor, bandire da testi ufficiali e dichiara ­zioni il vocabolo esproprio, tranne prevederne l'introduzione “non prima però di cinque anni”. Come prefigurato, il ripristino delle sov­venzioni alla scuola confessionale viene mascherato sotto diverso capito­ lo di spesa. Il “generico riferimento” al Piano Giolitti equivale al suo ab­bandono. L'accorto uso delle aggettivazioni si combina alla ricetta del rinvio dei provvedimenti sui quali regna il disaccordo, a partire dall'impo­sizione periferica del centrosinistra. In una sarabanda di schermaglie, con rotture delle trattative seguite dalla ripresa del dialogo, viene stabilita una particolare interpretazione delle intese, con tacite limitazioni, non inseri­ te a verbale per evitare agli autonomisti la bocciatura in sede di partito : ciò vale in particolare per l'urbanistica.
Alle 3 del mattino di sabato 18 luglio, dopo un'estenuante seduta di quattordici ore, il quadripartito è ricostituito. L'accordo di governo è un capolavoro di diplomazia, di reticenza, di bizantinismi e di ipocrisia. Si afferma che la coalizione si propone l'intransigente difesa della libertà e delle istituzioni democratiche, l'ordine e lo sviluppo sociale (e come po­trebbe essere altrimenti?). Si precisa che la bocciatura parlamentare dei fondi alla scuola confessionale “non voleva esprimere sfiducia dei gruppi di maggioranza né verso il Governo né verso i partiti della coalizione” . Viene sottolineato che la legge urbanistica “non colpirà in alcun modo la proprietà della casa” (impiegherà anni per giungere a conclusione, lasciando campo libero alla speculazione edilizia); la riforma regiona­le viene subordinata a esigenze di bilancio ed è pertanto accantonata. Analogo rinvio de facto a medio-lungo termine per la riforma delle leggi (fasciste) della RS e per lo Statuto dei lavoratori.
La sopravvivenza del centrosinistra costa ai socialisti un duplice arre­tramento: nel programma e negli assetti interni del governo. La modifica dell'accordo quadripartito è formalizzata dall'annacquamento di alcuni punti e dall'accordo di attribuire ad altri un valore puramente di facciata .
Ma la dichiarazione congiunta dei quattro partiti sostiene che la pur lunga crisi non abbia prospettato un'alternativa al centrosinistra al di fuori di “avventure extra-parlamentari” .
Sarà questo il principale merito dell'asse Moro-Nenni: aver evitato disordini paragonabili a quelli del luglio 1960 e, nell'arco della legislatura che si concluderà nel 1968, non aver ostacolato il progresso democratico del paese, come del resto l'evoluzione dei costumi e delle mentalità.

(Tutto finirà con la strage di piazza Fontana, nota della Critica)