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DOSSIER MEDIO ORIENTE/1 DIRITTO E PSICOLOGIA DELLA PACE

La pace in Medio Oriente non è oggi né più vicina né più lontana di quanto non lo fosse in passato quando, grazie ad una felice convergenza tra autorevolezza delle leadership regionali e volontà della diplomazia internazionale - a Camp David nel 1978, come a Oslo negli Anni 90, e poi ancora con la Road Map, nel 2003 - si è quasi arrivati a varcare la boa. Ma poi, nulla

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Simona Bonfante

Il Medio Oriente è come un'equazione multipla.  Le incognite non si chiamano x, y o z, ma confini, terra e sovranità istituzionale.

E'  su questioni di terra, di confini, dello status di Gerusalemme est, della sovranità sul territorio palestinese, a Gaza come nel West Bank – e dunque di sicurezza, legittimità politica e legale - che Israele tratta con la controparte, Hamas e Autorità Palestinese, per la stabilizzazione, pacifica e definitiva, della regione.

Terra e confini – nella fattispecie, le Alture del Golan – sono anche l'oggetto del dialogo tra Israele e Siria avviato nell'ultimo anno, grazie alla mediazione della Turchia e la volontà della comunità internazionale ad investire i due paesi, formalmente belligeranti dal 1967, della responsabilità di chiudere col conflitto, la violenza, l'abuso militare. In breve, la responsabilità di fare la pace e neutralizzare l'innesco più pericoloso della polveriera mediorientale, l'Iran, e i suoi rami esterni, Hamas ed Hezbollah.

Di terra e confini, infine, si tratta tra Gerusalemme e Beirut, per chiudere una volte per tutte con l'occupazione abusiva da parte di Israele dei territori di Sheeba Farm che, come ha ricordato il Segretario di Stato Usa, Condoleezza Rice, nel suo viaggio in Libano, alla fine di settembre, sono la « pre-condizione per il negoziato diretto tra le due parti ».

Terra, confini e legittimità del potere costituito non sono opinioni ma fatti giuridici, regolati dal diritto internazionale.

Il Diritto internazionale si esprime attraverso atti formali e vincolanti ; nel caso di conflitti, le Risoluzioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.

 La pace in Medio Oriente non è oggi né più vicina né più lontana di quanto non lo fosse in passato quando, grazie ad una felice convergenza tra autorevolezza delle leadership regionali e volontà della diplomazia internazionale - a Camp David nel 1978, come a Oslo negli Anni 90, e poi ancora con la Road Map, nel 2003 - si è quasi arrivati a varcare la boa. La stretta israeliana su Gaza e il proliferare degli insediamenti abusivi nei territori; la guerra israelo-libanese dell'estate 2006 e il consolidarsi dell'alleanza tra Siria e Iran - e tra questi e le centrali del terrorismo mediorientale ; e infine l'indebolimento della leadership palestinese ed il rafforzarsi, in Libano e Palestina, delle forze della « resistenza » anti-sionista hanno reso remote le prospettive di una pace che, solo pochi anni prima, con la clamorosa « rottura » di Ariel Sharon, appariva finalmente possibile, se non prossima.

La storia degli ultimi anni è una lenta ma puntuale marcia indietro nel cammino per la normalità : Hamas vince Gaza e getta i semi di una guerra civile tra palestinesi moderati e « falchi ».
E poi c'è la competizione intra-musulmana per l'egemonia in Medio Oriente, lo scontro di « civiltà » con l'Occidente, la radicalizzazione del discorso politico nazionale e regionale, il proliferare di un'arma impropria, il terrorismo, e il consolidamento dei regimi illiberali grazie allo sfruttamento della risorsa dello sviluppo mediorientale, il mercato del petrolio.

La conferenza internazionale, voluta dal Presidente George W. Bush per responsabilizzare l'insieme dei paesi dell'area sulla soluzione del conflitto, ha segnato il rilancio dell'offensiva diplomatica Usa nella regione, dopo il prolungato disengagement dell'Amministrazione Bush, nella fase di implementazione dell'ambiziosa « road-map » per la Palestina.

Il ritorno degli Usa in Medio Oriente era necessario. La disattenzione della super-potenza mondiale, pesantemente gravata del fardello irakeno e afghano, è stata vissuta nella regione come una licenza ad abbandonare la via della « speranza » e assecondare piuttosto quella del «destino  ».

Diritto e psicologia della pace
Quando, la scorsa estate, Israele ha accettato l'accordo con Hezbollah sullo scambio dei prigionieri, per i libanesi è stato come ricevere un bottino di guerra. Identificatosi con Hezbollah, nella lotta di resistenza nazionale contro il nemico esterno, Israele, il Libano ha letto nella decisione di Gerusalemme di accettare lo scambio « senza condizioni », la prova della sconfitta morale, se non materiale, degli israeliani nel conflitto del 2006.

Hezbollah ha voluto umiliare Israele, ponendo sullo stesso piano le spoglie dei due soldati israeliani rapiti dalle milizie islamiste libanesi, con la vita di un manipolo di terroristi, meritoriamente detenuti, da decenni, nelle carceri israeliane.
Per carità, Olmert ha cercato di spingere avanti la pace – avviando il negoziato indiretto con Damasco, riconoscendo Hezbollah come interlocutore de facto, e aprendo un canale diretto con Hamas. Ma ciascuno di questi fronti ha fatto avanzare il processo psicologico, non il cammino legale per la pace, ovvero la soluzione del problema giuridico dei confini.

Oggi, la mappa della sovranità territoriale nella regione risulta ben diversa da quella disegnata nel 1993, con la Dichiarazione dei Principi sottoscritta ad Oslo.
Gli israeliani hanno continuato ad espropriare terreni nel West Bank ed hanno chiuso Gaza all'interno di un imbuto che ne ha asfissiato l'economia e, come denunciano le organizzazioni per i Diritti umani, disumanizzato l'esistenza della popolazione. E poi c'è il Golan - le Alture conquistate alla Siria nella Guerra dei Sei Giorni, nel 1967, e che, secondo le Nazioni Unite, Israele è tenuto a liberare – e le Sheeba Farms – il terriotrio libanese dal quale gli israeliani non sono ancora pronti a partire.

Ora, che la pace sia una questione di terra, le leadership israeliane lo sanno da sempre.
Ed infatti, la proposta di Olmert avanzata nel corso del negoziato con l'Autorità palestinese è di un ritiro israeliano dal 93% dei territori attualmente occupati nel West Bank e la totale smobilitazione dalla Striscia di Gaza, dove Israele non è ufficialmente più presente dal 2005. I territori offerti in cambio degli insediamenti coprono un'area di deserto contigua a Gaza ed un corridoio di collegamento tra Gaza e West Bank.

Riconoscere, come ha fatto il leader dimissionario, che il prezzo della pace con palestinesi e siriani è lo sgombero dal West Bank e dal Golan significa implicitamente legittimare la posizione sin qui tenuta dalla controparte, ovvero il ripristino legale del status quo ante la guerra dei Sei Giorni del 1967. « E' vero che un accordo con la Siria è pericoloso – conviene Olmert – ma se si vuole una situazione a pericolo zero, meglio tasferirsi in Svizzera. »

Il problema però è che, mentre è in corso il negoziato con i Palestinesi continua l'espansione degli insediamenti israeliani nel West Bank.
E questa non è una novità. Secondo Gershom Gorenberg – autore di "The Accidental Empire: Israel and the Birth of the Settlements, 1967-1977 - se si guarda alla storia, si osserva che « l'iniziativa diplomatica ha sempre incrementato gli insediamenti » come se il vanificarsi degli sforzi per la pace dovesse essere offuscato da un progresso, tangibile e oggettivo, come un complesso residenziale. E stato così nel 1970, con l'avvio del disgelo tra Israele ed Egitto, negoziato dall'allora Segretario di Stato Usa, William Rogers, e nel 1998, con l'offensiva diplomatica di Bill Clinton per il rilancio del processo di Oslo. « In entrambi i casi – osserva Gorenberg sul Washington Post – la diplomazia ha fallito e l'occupazione è cresciuta ».

Olmert, che pur si era impegnato ad Annapolis con il Presidente Bush a bloccare l'espansione, ha autorizzato nel corso del suo mandato la costruzione di un migliaio di nuove abitazioni a Maale Adumim – tra Gerusalemme e Gerico - ed altrettante a Givat Zeev e Beitar Illit - nella cintura attorno a Gerusalemme - come si ricava dai dati di Peace Now's Settlement Watch, per non parlare delle nuove costruzioni abusive « tollerate » nella West Bank.

Gerusalemme Est
Lo status di Gerusalemme è una questione atavica del contenzioso israelo-palestinese. Cionostante, o forse proprio a causa di ciò, rimane, insieme al problema del « diritto al ritorno » dei rifugiati palestinesi, fuori dal negoziato tra il governo israeliano e l'Autorità Palestinese.

Nel 1947, la Risoluzione 181 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite  faceva di Gerusalemme un corpo separato, sede di due Stati autonomi – Palestina e Israele – ma governata dalla Comunità internazionale.
Nel 1967, la Risoluzione 242 prevedeva una ripartizione della città entro i confini precedenti l'armistizio raggiunto al termine della Guerra dei Sei Giorni. Questa stessa linea giuridica viene confermata nel 1993, con gli Accordi di Oslo.

La vicenda tuttavia è oggi più aperta che mai. Le parti non solo divergono sul frame giurisprudenziale da adottare come presuposto negoziale, ma sia Israele sia i Palestinesi esprimono al proprio interno una tale pluralità di visioni da rendere impossibile stabilire quali siano in realtà i paletti di un potenziale negoziato.

Il Presidente dell'Autorità Palestinese, Abbas, vorrebbe il ritorno di Gerusalemme Est allo status pre-1967. Altri autorevoli e
sponenti del potere palestinese parlano invece della fine della soluzione « due stati », e della necessità piuttosto di dividere la città in due capitali distinte, Gerusalemme Est e Ovest, rispettivamente sotto sovranità palestinese e israeliana. A questa ipotesi, tuttavia, si oppone il Presidente israeliano, Shimon Peres, ostile allo smembramento della città simbolo della convivenza tra civiltà religiose.

Infine, ci sono i radicali, da entrambi le parti, che si oppongono a qualsiasi ipotesi spartitoria, rivendicando l'integrità di Gerusalemme sotto propria custodia. Per citare, il capo del politburo di Hamas, Khaled Meshaal, ha detto che per lui Gerusalemme significa « terra, geografia, storia e patrimonio religioso » e che per questo « non potrà mai essere condivisa con Israele. »  Analogamente, il falco del Likud, l'ex premier Benyamin Netanyahu, dichiara che « Israele non darà neppure un centimetro di Gerusalemme ».

Evidentemente – sostiene il politologo palestinese Ghassan Khatib – « il problema di Gerusalemme non potrà essere risolto senza aver prima risolto il problema più generale dei confini e degli insediamenti », dal momento che la maggior parte degli insediamenti abusivi nei territori occupati si trovano a Gerusalemme e nei suoi dintorni.

La questione della Città Santa non riguarda tuttavia solo Israeliani e Palestinesi, ma il mondo arabo e musulmano nel suo insieme, il quale condivide integralmente la posizione palestinese sul rispetto del Diritto internazionale, ovvero la liberazione dei territori occupati da Israele nel 1967, Gerusalemme Est compresa.

 


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