Una statua in bronzo, non più alta di due metri, raffigurante un combattente dell’Armata Rossa. Stava lì, sulla piazza principale di Tallin, a testimoniare quella lotta di liberazione dalla dittatura nazista che, per l’Estonia, ha significato invero cinquantanni di occupazione, repressione, regime sovietico.
Era ancora lì, la statua, ancora solo pochi giorni fa. Era lì nonostante l’indipendenza ottenuta dalla piccola repubblica baltica nel 1991; lì nonostante l’ingresso nell’Unione europea celebrato nel 2004, nonostante l’Estonia di oggi – con la sua fiorente economia, la vitalità delle sue città, il cosmopolitismo dei suoi abitanti, la compiutezza della sua democrazia – sembra aver del tutto archiviato, metabolizzato il passato vissuto sotto il regime sovietico.
L’Estonia è un paese di poco più di un milione di abitanti, trecentomila dei quali russi. All’indomani dell’indipendenza, venne deciso di concedere la cittadinanza solo a quanti risedessero nel paese da prima dell’annessione a Mosca, avvenuta nel 1945. Una decisione che nei fatti ha escluso la grande fetta di russi che vivono da allora come una comunità indipendente, separata dal resto della popolazione autoctona.
E sono proprio costoro, quei trecentomila russi di Estonia, che giovedì 26 aprile sono scesi in piazza a Tallin per protestare contro la rimozione della statua, o meglio il suo trasferimento presso un cimitero militare dove il 9 maggio prossimo si sarebbe dovuto celebrare l’anniversario della fine della Seconda Guerra Mondiale.
Quel trasloco voluto dalle pacifiche autorità estoni è stato interpretato dai russi di Tallin come un affronto, un insulto alla memoria dei combattenti per la liberazione dal nazifascismo. Comincia allora una protesta che, dalle strade della capitale estone, rimbalza a Mosca dove l’ambasciata del governo di Tallin viene circondata dai manifestanti, per lo più giovani, che minacciano l’incolumità del personale diplomatico costringendolo, nei fatti, alla segregazione dentro le mura dell’edificio. La polizia russa non interviene. Non fa nulla per impedire il lancio di sassi contro le finestre dell’edificio né per liberare i diplomatici che, ambasciatore incluso, vi sono costretti in trappola da ormai un’intera settimana.
Intanto a Tallin la situazione si aggrava, ci scappa un morto. Le autorità russe insorgono. Gli estoni parlano di gangster, non di manifestanti. Insulti che infiammano la reazione di Mosca. La crisi è un crescendo. All’ambasciatrice a Mosca, Marina Kaljurand, viene impedito di tenere una conferenza stampa dai manifestanti che che irrompono nella hall dell’ambasciata al grido “Estonia, vergogna” e chiedono le scuse del Presidente estone.
L’Unione Europea interviene, cercando di mediare con Mosca per una tempestiva liberazione dei diplomatici. Ma Mosca nega vi sia un pericolo reale, anzi, rilancia le accuse contro le autorità di Tallin e chiede la liberazione dei manifestanti russi arrestati nella capitale estone nel corso dei disordini. Non solo. Chiede un’inchiesta per accertare le circostanze della morte del connazionale e, attraverso il Ministro degli Esteri, Sergei Lavrov, si rivolge direttamente all’omologo tedesco, Frank-Walter Steinmeier, in qualità di rappresentante della Presidenza europea, perché si predisponga la verifica del rispetto dei diritti umani nell’azione repressiva della polizia estone contro i manifestanti russi.
Intanto la crisi sconfina. La Polonia esprime solidarietà al popolo estone e dichiara di voler procedere alla rimozione di tutti i simboli del passato regime e dei monumenti inneggianti i combattenti della sconda guerra mondiale, che ancora disseminano le città polacche. In Ungheria intanto insorge anche il Partito Comuinista che denuncia la profanazione della tomba dell’ultimo leader del regime socialista, Janos Kadar, le cui spoglie – denuncia la responsabile locale del partito dei lavoratori, Gyula Thurmer - sono state sottratte la notte del 2 maggio e il sepolcro profanato da atti vandalici testimoniati dalla scritta: “non c’è posto per un assassino in una terra cosacrata”. Una scritta che riproduce le parole pronunciate poco tempo prima dal primo ministro ungherese in una manifestazione pubblica. I comunisti russi, con una dichiarazione del leader Gennady Zyuganov, esprimono la propria solidarietà ai compagni ungheresi e chiedono venga fatta giustizia alla memoria di quel leale combattente per la liberazione dai nazisti.
Intanto, con un copione che si ripete ormai identico a se stesso in tutte le crisi scoppiate tra Russia e paesi confinanti nel corso degli anni – co...