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EFFETTO DOMINO IN TUTTA L'ASIA

di Francesca Morandi


Con l'assassinio della leader dell'opposizione in Pakistan, Benazir Bhutto, diventa più concreto  il rischio di un “effetto domino” del terrore che potrebbe minacciare l'intera Asia. E' infatti il Pakistan il perno sul quale oggi si poggiano gli equilibri di tutto l'Oriente. Il Paese del presidente Pervez Musharraf si colloca infatti tra due realtà profondamente diverse: ad ovest chiude il Medio Oriente, che è un'area altamente instabile, ed è vittima di infiltrazioni di estremisti islamici provenienti dall'Asia occidentale, in particolare dall'Afghanistan; ad est, si apre invece alle dinamiche dell'Asia orientale che coinvolgono Paesi in forte espansione economica come la Cina, l'India e il Sud-est asiatico. In questo quadro il Pakistan rappresenta un pilastro essenziale dell'architettura geopolitica americana che necessita un alleato come Islamabad contro il terrorismo e allo stesso tempo appoggia l'India per contenere le ambizioni cinesi nella regione. Per prevedere gli eventuali sviluppi della situazione in Pakistan è necessario capire innanzitutto chi  sia il vero autore dell'omicidio di Benazir Bhutto. Se l'assassinio fosse opera occulta del governo di Musharraf, come accusa il marito della Bhutto, ciò significherebbe che il presidente continua a tenere in pugno il Paese, destinato a una deriva autoritaria ma dove continuerebbe a reggere un equilibrio tra il governo centrale e le frange integraliste. Se a compiere l'attentato fosse stata invece Al Qaeda (come rivendica la stessa organizzazione terroristica), fiancheggiata da gruppi affiliati locali, è probabile che la violenza terroristica si espanda nel Paese e oltre i suoi confini a vantaggio dei radicali islamici militanti. In questa seconda ipotesi il rischio è quello di un'anarchia totale interna al Pakistan con una situazione simile a quella afghana dove il governo centrale del presidente Hamid Karzai non controlla ampie porzioni di territorio che sono sotto il controllo dei talebani. L'ex generale Musharraf è stato finora in grado di frenare il radicalismo di matrice musulmana, verso il quale ha spesso usato un atteggiamento compiacente al fine di tenere aperto un canale di collegamento sotterraneo con coloro che potrebbero rovesciare il suo governo. Ma se il Pakistan piomba nel caos, i fondamentalisti potrebbero approfittarne per spezzare la tacita e insoddisfacente alleanza con Musharraf e mirare al potere. Un piano che farebbe, quasi certamente, scattare un intervento da parte degli Stati Uniti che mai lascerebbero che la bomba atomica pachistana cada nelle mani di gruppi radicali islamici. Un intervento che aprirebbe uno scenario di guerra di vaste proporzioni per Washington e aumenterebbe il terrorismo anche in Occidente.  Un Pakistan destabilizzato non sarebbe, tra l'altro, in grado di continuare a fare da sponda agli Usa nella lotta contro gli integralisti in Afghanistan, dove i talebani potrebbero conquistare nuove posizioni rendendo ancor più fragile l'esecutivo di Karzai, che rischierebbe di capitolare.  Con la conseguenza di un rafforzamento del fondamentalismo islamico combattente nell'intera area afghano-pachistana. E dunque di una possibile “talebanizzazione” del Pakistan.  Sul versante opposto, quello a est del Pakistan, si osserva che il ruolo di Islamabad è nuovamente centrale nella trama di equilibrio tra le potenze seppur in stretta relazione a quello di New Delhi. L'India gioca infatti un ruolo fondamentale  nelle strategie di osservazione della crescita cinese messe in atto da Stati Uniti e Giappone. Con la sua popolazione di oltre un miliardo di abitanti, l'India è l'unico Paese al mondo in grado di fungere da contrappeso demografico al “Gigante Rosso”, che conta su un miliardo e 300 milioni di individui. Nell'ipotesi che la corsa economica indiana acceleri, New Delhi potrebbe inoltre frenare le ambizioni politiche di Pechino. Un freno, quello posto dall'India alla Cina, che fa comodo a molti. Non è un caso che lo scorso settembre si sono realizzate manovre militari congiunte tra australiani giapponesi, indiani e americani. E sempre in questa direzione va interpretata la collaborazione economica avviata negli ultimi mesi dal governo di New Delhi e di Tokyo, i cui Paesi hanno interesse a contenere la potenza della Cina, con la quale hanno, tra l'altro, contenziosi territoriali aperti. Se il Pakistan cadesse nelle mani degli integralisti, verrebbe meno il ruolo di contenimento svolto dall'India in funzione anti-cinese. A quel punto il governo indiano sarebbe obbligato a concentrarsi nella difesa dei propri confini rispetto a un nemico storico, il Pakistan, con il quale si riaccenderebbe la disputa sul Kashmir. Una situazione che riaprirebbe la possibilità di un conflitto nucleare tra India e Pakistan, entrambi detentori di armi atomiche e scatenerebbe una corsa agli armamenti nell'intera area.  

Con la morte di Benazir Bhutto si è spenta la speranza di un Pakistan più democratico – sebbene le elezioni  dell'8 gennaio siano state confermate – colpito oggi da...



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