VINCITORI E VINTI
La recessione Usa e i suoi effetti nel mondo
Nouriel Roubini è un autorevole analista finanziario per Foreign Policy e professore di economia alla New York University's Stern School of Business che, partendo dal presupposto pleonastico che una crisi economica Usa si riverbererebbe sul resto del mondo, si dedica ad una puntuale analisi dei meccanismi che la spirale recessiva metterebbe in moto a livello globale. Nel dettaglio, chi ci guadagnerebbe, chi rischierebbe di perderci?
Fra i tanti che avrebbero solo da temere in caso di una crisi americana, Roubini inserisce Messico, Canada, Indonesia, Malaysia, Taiwan, Corea del Sud, America Latina, Estonia, Lettonia, Lituania, Ungheria, Bulgaria, Romania, Regno Unito, Francia e Germania. Fra i pochissimi beneficiati, gli Stati Uniti medesimi (o meglio, alcuni settori della loro economia) e i consumatori europei. Discorso a parte meritano la Cina e il Giappone, per certi versi danneggiati e per altri favoriti dall'ormai plausibile insorgere di una spirale recessiva.
Canada e Messico, vicini di casa dell'America, traggono dalle esportazioni verso gli Stati Uniti un quarto del loro Pil. Appare dunque evidente come un rallentamento americano possa avere un effetto destabilizzante sulla loro industria manifatturiera.
Più complessa la dinamica mediante la quale una crisi americana colpirebbe le rampanti economie del sud-est asiatico. Indonesia, Malaysia, Taiwan e Corea del Sud riforniscono di materie prime e di componenti semi-lavorate il colosso cinese, che a sua volta esporta negli Stati Uniti. Un rallentamento dell'export cinese avrebbe conseguenze molto serie sulla stabilità economica di quella parte del continente asiatico che soggiace, più o meno direttamente, alla sfera d'influenza di Pechino.
Un discorso simile vale per quei Paesi dell'America Latina (Brasile, Argentina e Cile in testa) che, nel caso di difficoltà di Washington e Pechino, dovrebbero trovare nuovi acquirenti per le loro materie prime. I prezzi dei minerali brasiliani, del rame cileno e del bestiame argentino finirebbero col crollare, con le prevedibili conseguenze.
Le economie dei Paesi Baltici e degli Stati più arretrati dell'Europa Centrale sarebbero esposte a gravi contraccolpi se il worst scenario si dovesse concretizzare. Caratterizzati da deficit ingenti, da monete sopravvalutate e da mercati immobiliari gonfiati, i fragili sistemi economici di Estonia, Lettonia, Lituania, Ungheria, Bulgaria e Romania verrebbero destabilizzati in caso di massiccio drenaggio dei crediti internazionali in seguito ad un crisi globale. Una riduzione della domanda americana colpirebbe anche le economie più solide del Vecchio Continente, riducendo i profitti delle aziende attive sul mercato nordamericano e svalutando, in caso di ulteriore indebolimento del dollaro, il valore degli investimenti tedeschi, britannici e francesi negli Stati Uniti. L'alto prezzo del petrolio non sarebbe certo d'aiuto. Inoltre, le difficoltà del mercato immobiliare rallenterebbero notevolmente la crescita economica europea.
Ambivalente la situazione di Cina e Giappone. Da un lato, il rallentamento dell'economia globale indotto dalle difficoltà americane causerebbe una diminuzione dei prezzi di petrolio, energia e materie prime, per la gioia di quei Paesi che ne sono voraci consumatori. Tra gli importatori, ne trarrebbero giovamento l'Europa e, per l'appunto, Pechino e Tokyo. E' vero, d'altro canto, che l'economia cinese deve molto della sua recente crescita alla stabilità ed alla salute del suo competitor americano. Se la recessione colpisse i consumatori Usa, le esportazioni cinesi ne risentirebbero e con esse lo sviluppo impetuoso del Dragone. Allo stesso Giappone, la cui economia oscilla spesso tra crescita e recessione e tra inflazione e deflazione, conviene augurarsi che gli Usa non soffrano troppo nei prossimi mesi e che la crisi non si diffonda. Afflitta da bassi consumi interni, l'economia giapponese è stata negli ultimi anni sostenuta infatti dalla domanda esterna di beni “Made in Japan”.
Alcuni settori dell'economia Usa e i consumatori europei finirebbero invece, secondo le ipotesi formulate da Roubini, col trarre vantaggio dalle disgrazie globali innestate dalla recessione incombente oltre Atlantico. Un dollaro debole accrescerebbe la competitività statunitense su i mercati internazionali e la riduzione dei prezzi delle case non dispiacerebbe sicuramente agli acquirenti. I beni americani potrebbero a breve diventare molto convenienti per i possessori di euro. Una New York invasa da soddisfatti turisti europei rappresenterebbe in quest'ottica il lato luccicante della medaglia. Così, la crisi economico-finanziaria globale, drammatica per molti, renderebbe felici una ristretta fascia di europei benestanti e qualche fortunato commerciante americano.
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