Il concetto di "Imposte" indica un rapporto oppressivo dello Stato sulla società. Una rivoluzione fiscale che collochi al centro del sistema la "Collaborazione" tra il governo e i cittadini nel finanziamento e nell'autogoverno (Empowerment) delle istituzioni di democrazia sociale
di Paolo Del Debbio
Assumiamo come ipotesi di lavoro che sia legittimo un impegno dell'Occidente a favore della modernizzazione e democratizzazione del mondo islamico. In questo volume questa ipotesi viene discussa e approfondita da varie angolazioni e, con una serie di cautele, distinguo e riflessioni, viene - nella sostanza - accettata come legittima. E poniamo che nel processo di "esportazione della democrazia" sia compreso anche un certo modello di "giustizia sociale" che ha avuto nel welfare (verso l'interno) e nella cooperazione internazionale (verso l'esterno, gli altri Paesi soprattutto quelli in via di sviluppo) le sue espressioni fondamentali nel XX secolo. Ci interroghiamo se questo modello, almeno nella versione che abbiamo conosciuto nel Novecento, sia un modello ancora valido e da "esportare" o se, piuttosto, non sia da salvare l'ispirazione remota di questo modello, quella della solidarietà sociale come uno dei doveri dello Stato democratico, e non sia - invece - da rivedere in profondità la sua configurazione "distributiva", tipica del secolo scorso ed evitare, così, il perpetuarsi degli errori già commessi in altri contesti, diversi da quelli originari.
Data l'importanza e la vastità del tema, quanto è scritto in questo contributo rappresenta un'ipotesi di lavoro, un abbozzo teorico, ai quali vado lavorando da un po' di tempo e - diciamo così - "mettendo alla prova" in vari contesti che vanno - tra gli altri - dai progetti di riforma del welfare alle questioni legate alla globalizzazione nel suoi impatti sui Paesi in via di sviluppo, dalla fondazione alle applicazioni del principio di sussidiarietà alle questioni di etica economica legate, principalmente, al rapporto tra produzione distribuzione della ricchezza. Ho tentato di incrociare questi dati che caratterizzano la scena del nostro tempo, noinché i suoi sforzi di conferire ad essi un significato ed un orientamento di tipo etico,1, con alcuni concetti che ruotano attorno alla nozione di giustizia così come emerge in una parte significativa della tradizione cattolica.
A buona ragione si può affermare che il secolo XX, in Occidente, sia stato il secolo della giustizia distributiva. "Soprattutto a partire dal secondo conflitto mondiale lo Stato viene concepito in Occidente come ordinamento per l'attuazione o l'approssimazione di ideali di giustizia sociale nel quadro di una economia di mercato".2 Questa vera e propria mutazione ha origine nelle critiche dei partiti cristiano-sociali e socialisti alla concezione borghese del diritto formale per la quale lo Stato si limita ad assicurare una funzione protettivo-repressiva del diritto e non anche una funzione promozionale, attiva, del diritto stesso. Si passa, secondo la definizione dello studioso francese di Pubblica Amministrazione, Paul Legendre, dallo Stato guardiano notturno allo Stato-provvidenza.3
"Mentre lo Stato liberale classico - scrive ancora Portinaro - si limitava a far fare, regolando la condotta attraverso le norme, lo Stato sociale diventa soggetto di azione diretta, appunto attraverso tecniche premiali (Bobbio, 1977). Ciò comporta il crescente ricorso a politiche di tipo distributivo: di conseguenza anche in seno alla teoria della giustizia l'accento viene spostandosi sui problemi della giustizia distributiva. Nel senso comune come nell'elaborazione teorica la questione su cui nell'età delle democrazie ci si è più interrogati diventa così quella del rapporto tra giustizia ed eguaglianza".4 Oltre l'eguaglianza "liberale", che vuole i cittadini eguali dinanzi alla legge, e oltre l'eguaglianza "socialista", che vuole i cittadini eguali materialmente, "l'eguaglianza decisiva per la concezione della giustizia del Welfare State democratico è l'«eguaglianza delle opportunità»".5
Dal punto di vista teorico molte sono state le elaborazioni novecentesche attorno alla giustizia distributiva,6 sempre a cavallo tra ricerca filosofica ed economica proprio in virtù della dimensione fondativa del concetto stesso di giustizia distributiva: basti pensare alla teoria neocontrattualista di John Rawls, Una teoria della giustizia, alle teorie libertarie di Robert Nozick, Anarchia, Stato e Utopia e di Friederich von Hayek, Legge, legislazione e libertà, fino alla teoria dei diritti come capacità di Amarthya Sen, Commodities e capabilities. Osserva giustamente Stefano Zamagni "Non deve allora stupire se a partire dagli anni sessanta, in concomitanza con la caduta di credibilità del programma keynesiano, si assiste a una ripresa di interesse alle questioni di giustizia. Due insiemi di ragioni possono essere indicate. In primo luogo le difficoltà di varia natura (esternalità, incompletezza dei mercati, non convessità, asimmetrie informative e così via) connesse al corretto funzionamento del meccanismo di mercato hanno affievolito quelle che parevano solide certezze circa la capacità del mercato di conseguire l'obiettivo della stessa efficienza. In secondo luogo, si è andata diffondendo la consapevolezza secondo cui le società in cui viviamo sono assetti complessi in cui accade, simultaneamente, di avere eguali diritti ma ricchezze diseguali".7
A partire dall'Ottocento, e poi con maggiore forza nel Novecento, si afferma un riformismo di tipo sociale che accetta, nella sostanza, il sistema di mercato, ma vuole correggerlo e adeguarlo ai bisogni sociali. Questa è la radice del welfare state. Nel suo sviluppo si ha un punto di rottura nei confronti di un vincolo che era caratteristico del suo inizio: il vincolo di bilancio che non consente allo Stato di spendere, per rispondere ai bisogni sociali, più di quanto incassi. Questo sviluppo "incontrollato" della spesa, come noto, inizia a provocare i primi problemi negli anni Settanta quando i paesi industrializzati si trovano di fronte ad un doppio problema: una crescita sempre più sostenuta della domanda di servizi sociali (e quindi delle uscite nel bilancio degli stati) accanto ad una riduzione consistente della crescita del reddito disponibile e, quindi, delle entrate pubbliche (derivanti dall'imposizione fiscale). Questo doppio problema caratterizzerà la storia del welfare fino ai nostri giorni, fino alle limitazioni al deficit e debito pubblico imposte dal Trattato di Maastricht ai Paesi europei aderenti ad esso.
Le critiche neoliberali a questo stato di cose si appuntano proprio sugli abusi e gli spechi di una spesa pubblica indiscriminata, dispersiva, non selettiva da un lato e la burocratizzazione del welfare così concepito, dall'altro, che - in più - non risolve i problemi per i quali spende: la condizione dei più svantaggiati. Su questo punto la critica è interna anche alla parte di coloro che, pur essendo sostenitori del welfare, rilevano la sua incapacità di attenuare in modo sostanziale le disuguaglianze.8
Ma c'è un altro rilievo che qui maggiormente ci interessa sottolineare. E' la dimensione "deresponsabilizzante" che questo stato di cose ha procurato nei confronti dei soggetti che hanno percepito, via via, l'assistenza loro offerta dallo Stato come una condizione più o meno permanente e non temporanea in vista di un reinserimento pieno e autonomo nella vita economico-produttiva e, particolarmente, del lavoro. Sono molto importanti e significativi, in questa direzione, le osservazioni che provengono da una fonte di indiscussa dottrina solidarista come Giovanni Paolo II nella Lettera Enciclica Centesimus Annus del 1991. In essa il Pontefice fa proprie alcune preoccupazioni. Assunte da larga parte della comunità scientifica, neoliberale e non, che studia il fenomeno del welfare. "Non sono, però, mancati eccessi ed abusi, che hanno provocato, specialmente negli anni più recenti, dure critiche allo «Stato del benessere», qualificato come «Stato assistenziale» […] Intervenendo direttamente e deresponsabilizzando la società, lo Stato assistenziale provoca la perdita di energie umane e l'aumento esagerato degli apparati pubblici, dominate da logiche burocratiche più che dalla preoccupazione di servire gli utenti, con enorme crescita delle spese. Sembra, infatti, che conosce meglio il bisogno e riesce meglio a soddisfarlo chi è ad esso più vicino e si fa prossimo al bisogno".9
Seguendo lo stesso filo logico si potrebbe analizzare, e in molti lo hanno fatto, la storia della cooperazione internazionale nelle sue fasi successive alla seconda guerra mondiale. Al riguardo conviene riproporre una lunga citazione da un libro di Piero Gheddo, esperto di cooperazione internazionale, che chiarisce queste varie fasi. "a) All'inizio degli anni Sessanta si pensava che bastasse aiutare economicamente finanziando i «piani di sviluppo», realizzare micro-progetti, trasferire macchine e tecnologie, commerciare […] Ma i Paesi aiutati non progredivano, per tanti motivi: corruzione degli Stati, instabilità politica, guerre guerriglie, colpi di Stato, scarse infrastrutture (strade, elettricità, ecc.), scelte «socialiste» e statalizzanti […] b) Negli anni Settanta si è passati a privilegiare la soluzione politico-rivoluzionaria […] Il comunismo ha governato in 31 Paesi del mondo: in tutti è stato fallimentare. c) All'inizio degli Ottanta, i Paesi che avevano fatto la rivoluzione e adottato un sistema di tipo sovietico o cinese di governo non producevano abbastanza per nutrire i propri popoli. d) Dagli anni Ottanta si è cominciato a capire che lo sviluppo dei popoli più poveri può venire solo dall'evoluzione di mentalità e cultura, dall'educazione a produrre di più e da governi stabili che sostengano l'agricoltura e le popolazioni rurali".10
A questo tipo di ragionamento che emerge dall'analisi degli anni di cooperazione internazionale fallimentare che abbiamo alle spalle, si aggiunge la rinnovata sensibilità verso gli effetti positivi possibili (a determinate condizioni) del commercio internazionale. Anche da questo punto di vista la riflessione estiva si è spostata da una sorta di antagonismo preconcetto nei confronti del commercio internazionale stesso ad una più realistica richiesta di miglioramento del sistema delle relazioni commerciali internazionali secondo alcuni parametri etici più specifici.11 Anche in questo caso, come in quello del welfare, la riflessione e l'esperienza hanno portato gradualmente ad accentuare gli aspetti legati alle potenzialità autonome dei Paesi e alle loro possibilità concrete di essere "ammessi" alla pari nel circuito del commercio internazionale, piuttosto che quelli legati alle donazioni da parte dei Paesi industrializzati e alle strategie di protezione dei Paesi in via di sviluppo dal commercio internazionale. Questo è avvenuto, come nel caso del welfare, per il fallimento dei tentativi contrari a quest'ultima impostazione logica. Dunque maggiore responsabilizzazione dei Paesi poveri e parità di accesso ai mercati internazionali come chiavi alternative successive ai fallimenti precedenti agli anni Novanta. Il "principio di sussidiarietà", ove applicato nella elaborazione di un nuovo sistema di welfare e anche per una nuova formulazione della cooperazione internazionale, può rappresentare una sorta di antidoto a questo processo di "deresponsabilizzatone" e, più in generale, di infiacchimento della società civile (o dei Paesi in via di sviluppo) che disperde, così, le sue energie vitali nel mare della burocratizzazione della società ad opera del welfare stesso degenerato, come visto sopra, nello "Stato assistenziale".
Per il principio di sussidiarietà12 lo Stato interviene solo quando il soggetto del quale decide di interessarsi non può svolgere quella funzione, o rispondere a quel bisogno, per il quale lo Stato si rende soggetto attivo, non può farlo da solo. E lo fa solo per il tempo necessario a quel soggetto per essere rimesso in grado, nei casi dove ciò è possibile, di poter rispondere da solo a quel bisogno e svolgere da solo quella funzione per la quale lo Stato - temporaneamente - gli ha prestato aiuto. La parola sussidiarietà viene dal latino subsidium afferre, portare aiuto.
Come scrisse il Papa Pio XI nella Enciclica Quadragesimo Anno: "il compito della società stessa è quello di aiutare in maniera suppletiva [«subsidium afferre»] le membra del corpo sociale, non già distruggerle o assorbirle".13
Cosa vuol dire, in termini di giustizia sociale, che poi è il tema che ci interessa, quanto scritto da Pio XI? Cosa significa aiutare i membri della società in maniera "suppletiva", non assorbirli, non distruggerli?
Vuol dire non togliere loro la responsabilità di sviluppare sé stessi in modo autonomo attuando il loro fine specifico di uomini. Cosa c'entra tutto questo con la giustizia sociale e con il nuovo paradigma al quale stiamo lavorando come alternativa quello della giustizia distributiva così come l'abbiamo conosciuta nel suo sviluppo, e anche nelle degenerazioni cui abbiamo rapidamente accennato, nel corso del XX secolo?
C'entra nel senso che la giustizia distributiva è, in qualche modo, inscrivibile entro la sfera del principio di sussidiarietà e che tale principio, come abbiamo visto, si riferisce, a sua volta, alla intrascendibile autonomia della persona umana come parte essenziale della sua vocazione fondamentale. Non è cioè un principio che vive in sé, di sostanza propria, ma la trova proprio nel fine specifico della vita delle persone. E' uno strumento per il rispetto del primato della persona umana.
Ora, tra le componenti essenziali e costitutive dell'uomo stesso, figura il suo bisogno di vivere, crescere e svilupparsi nella sua dimensione individuale e sociale che coincide con la sua attività economica. Questo appartiene alla sua dimensione costitutiva. E' - potremmo dire - qualcosa di insito in lui che si presta ad essere riconosciuto più che ad essere inventato. E' così - potremmo ancora dire - nella sua natura. Così come lo è il lavoro produttivo che è, anch'esso, legato all'uomo in modo indissolubile.14
Dunque la dimensione è dimensione costitutiva dell'uomo, non marginale, non accidentale. Questo non fa dell'uomo un homo oeconomicus, rimanda - più semplicemente - ad una sua dimensione costitutiva perché quel bisogno di vivere, crescere e svilupparsi si esercita nella sua dimensione economica.
Se questo è vero, e se la giustizia è, prima di tutto il riconoscimento di un diritto, allora la prima forma di giustizia che all'uomo "spetta" (di diritto, appunto) è quella che - nella tradizione cattolica - viene chiamata "giustizia commutativa".
"Giusto nel modo della giustizia commutativa - scrive il filosofo neoscolastico Josef Pieper - è quel singolo che dà all'altro, a cui non è già legato, all'estraneo insomma, quel che a lui compete - niente di meno, ma neanche niente di più. Anche nella donazione, è vero, si ha commutatio cambio di proprietà passaggio di una cosa da uno a un altro. Eppure la donazione non è un atto di giustizia, giacché il dono non è affatto dovuto, non è un debitum. Tommaso attesta con insistenza che la giustizia non eccede i limiti del dovuto. Non c'è qui, mi sembra, niente di pedante e tanto meno si tratta di un gretto minimalismo".15
L'economia che, come abbiamo detto, risulta entrare a pieno titolo nella struttura costitutiva dell'uomo, è composta, nella sostanza, di atti "commutativi" che trasferiscono, come dice S.Tommaso, qualcosa da qualcuno a qualcun altro ("Commutationes, secundum quas trasfertur aliquid ab uno in alterum […], in In Ethicorum, 5,4; n. 928).
E' rilevante la osservazione di Pieper che difende questa forma di giustizia dall'accusa di "minimalismo" e di "grettezza", per il nostro tempo nel quale, la giustizia, in campo sociale, è spesso identificata tout court con la giustizia distributiva, soprattutto se il discorso è di tipo sociale. Da qui deriva, come vedremo tra poco, anche l'accusa mossa all'economia, nella sua forma capitalistica o di libero mercato, di non essere sufficientemente - o per niente - distributiva.
"Anche - scrive ancora Pieper - all'indirizzo del contratto - il quale è una forma tipica di compensazione di interessi, ragion per cui la iustitia commutativa è stata anche chiamata «giustizia contrattuale» -, anche contro il contratto si potrebbe sollevare l'obiezione di minimalismo. Ed effettivamente - già ai tempi del romanticismo e, attraverso Ferdinand Tönnies, fino al movimento giovanile tedesco - esiste tutta una irrealistica sopravvalutazione dell'ideale della «comunità», in cui si arriva a definire la composizione contrattuale degli interessi come una forma inferiore di convivenza umana, fondata unicamente sul «freddo» calcolo dell'utile personale. - Ebbene, è esatto che le parti contrattuali sono degli «interessati»; sta appunto nella funzione del contratto definire i rispettivi diritti e assicurare il potere di pretendere dell'uno allo stesso modo che l'obbligo della prestazione da parte dell'altro. Se l'amore dice: ciò che appartiene a me appartiene anche all'amato, ecco la giustizia dal canto suo affermare: a ciascuno il suo, vale a dire a te il tuo e a me il mio".16
Se l'"economico" è costitutivo della matura dell'uomo (in quanto rispondente al suo bisogno di vivere, di crescere e di svilupparsi) e se tipico, fondativi, dell'"economico" è il "commutativo", allora risulterebbe che ciò che è da assicurare, in primis, all'uomo stesso è la "possibilità" di essere messo nelle condizioni di poter entrare nel "gioco commutativo".
Può essere interessante notare come, a partire da questo concetto di giustizia "la teoria tardoscolastica - come scrive Alejandro Chaufen - analizzava i profitti, i salari e le rendite come questioni di giustizia commutativa, e applicava regole simili a quelle usate per analizzare i prezzi dei beni. Poiché sono al di fuori della sfera della giustizia distributiva, essi dovrebbero essere determinati in base alla valutazione comune del mercato".17
Dunque l'economia e il lavoro produttivo vivono nel regno della iustitia commutativa. La "giustizia distributiva" non è, secondo la tradizione richiamata, una giustizia tra le singole parti ma tra il "tutto" (che nel nostro linguaggio potrebbe essere identificato con lo Stato) e le parti. Come scrive Anselm Günthor "La giustizia distributiva regola il rapporto giuridico tra la comunità e i suoi membri […] Nella giusta suddivisione dei beni tra i singoli membri della comunità, per es. nel sostegno delle loro iniziative, non si può adottare il criterio di dare a tutti nella stessa misura. Qui bisogna tener conto dell'importanza dei singoli membri in rapporto al tutto, dello loro indigenza di aiuto, del loro bisogno e di altri aspetti personali […] Chi non può uscire da un grave stato di bisogno con le sue forze, ha diritto ad essere aiutato dalla comunità in misura maggiore che non colui il quale non si trova nella medesima situazione di bisogno".18 La misura della iustitia distributiva, al differenza di quella della iustitia commutativa, si basa - dunque - su una misura che viene detta "geometrica", proprio perché in questo campo, come abbiamo visto dalle parole del Günthor, non può regnare un'uguaglianza aritmetica come regna, invece, in quella della commutationes. "Il carattere «cosale» proprio della giustizia, - scrive ancora il Günthor - che balza particolarmente in luce nel caso della giustizia commutativa con la sua misura «cosale» (medium rei), viene perciò attenuato nel caso della giustizia distributiva a favore di una considerazione più personale, che tiene conto dei bisogni particolari e della posizione del singolo nel complesso della comunità".19
Tra questi "bisogni" particolari del singolo, e considerando la sua "posizione nel complesso della comunità", può inscriversi anche quello del vivere, del crescere e dello svilupparsi entrando nel "gioco commutativo" attraverso il lavoro produttivo? E questo discorso che vale per il singolo non può, forse, valere anche per i Paesi in via di sviluppo? Non può essere considerato a tutti gli effetti come loro "spettanza", così come nel caso dei singoli, il diritto di essere messi in grado di entrare nel "gioco commutativo"?
E giungendo alla domanda centrale nel nostro abbozzo teorico non può dirsi che la prima forma di iustitia distributiva, stante la natura anche costitutivamente oeconomica dell'uomo, sia quella che favorisce, attraverso i suoi aiuti dati al singolo, alle formazioni sociali dallo Stato (e ai singoli Paesi dalla Comunità internazionale), l'ingresso del singolo, delle formazioni sociali e dei Paesi (in via di sviluppo) all'interno della iustitia commutativa?
E la sussidiarietà non può essere il principio regolatore di questo rapporto tra iustitia distributiva e iustitia commutativa?
Secondo il principio di sussidiarietà, infatti, "è alla singola persona - scriveva e rispettivamente alla società più ristretta (la quale è più vicina alla singola persona che non la società più ampia) che primariamente spetta di operare, in ogni campo; la società in generale e, rispettivamente, la società maggiore hanno di loro natura il compito di prestare aiuto là dove la singola persona e la società subordinata non riescono a compiere ciò che dovrebbero con le loro forze e con i propri mezzi".20
La società maggiore, per esprimerci con un'espressione tipica di questo linguaggio, "deve autolimitarsi, fino all'autoeliminazione, nella sua funzione di aiuto: quando il proprio intervento ha portato i soggetti aiutati ad un livello tale che essi possono proseguire con le proprie forze per soddisfare i propri bisogni, la società maggiore deve ritirarsi ed intervenire nell'eventualità che la società minore si trovi nuovamente nelle condizioni di essere aiutata. Attivare azioni di aiuto nei confronti di una società minore in difficoltà per poi mantenere l'occupazione di spazi in cui si è intervenuti per una pur doverosa e legittima attività sussidiaria, di aiuto a chi ne aveva bisogno, significa anche limitazione degli spazi di libertà dei soggetti - considerati sia individualmente sia nella loro globalità - della società minore".21
L'aiuto portato dalla "società maggiore" corrisponde - nella logica di quanto andiamo scrivendo - alla iustitia distributiva che, dunque, "deve autolimitarsi, fino all'autoeliminazione, nella funzione di aiuto" per lasciare spazio, nella vita dei singoli, alla iustitia commutativa.
Abbiamo utilizzato concetti, espressioni, vocaboli e idee che vengono dalla tradizione cattolica e che alcuni fanno risalire direttamente a S.Tommaso d'Aquino, mentre altri non riconoscono direttamente in lui la fonte di questa distinzione.22 Lo abbiamo fatto perché, in essi è contenuto un apporto teorico che sembra ben incrociarsi con il punto al quale è giunta la riflessione "laica" che ha caratterizzato il XX secolo, secolo della giustizia distributiva, e che potrebbe aprire le porte del XXI secolo come secolo della giustizia commutativa. Non per esaurimento del portato teorico e pragmatico della giustizia distributiva ma, anzi, per un processo di inveramento dello stesso concetto che, depurato da un suo utilizzo che ha dato adito a prassi degenerative, potrebbe riacquisire la sua forza sussidiaria originale. In questa direzione la giustizia distributiva non diviene l'obiettivo primario cui tendere per assicurare il "diritto" alla giustizia dei singoli, dei singoli associati (le "società minori") o dei Paesi in via di sviluppo, ma un obiettivo intermedio - diremmo strumentale - per rendere ognuno di questi soggetti capax commutationis.
Note
1 In questo senso si muovono le molte ricerche che si occupano, con particolare riguardo al tema della globalizzazione, di tracciare alcune linee-guida etiche per orientare le scelte politiche in materia. Si pensi, solo per ricordare uno dei più significativi, il lavoro che sta guidando il teologo tedesco Hans Küng all'interno della sua fondazione Weltethos. Di Hans Küng si possono vedere Progetto per un'etica mondiale, Rizzoli, Milano, 1991; con K.-J. Kuschel, Per un'etica modiale. La dichiarazione del Parlamento delle religioni mondiali, Rizzoli, Milano, 1995; Etica mondiale per la politica e per l'economia, Queriniana, Brescia, 2002. Un utile lettura che mostra l'evolversi del pensiero del teologo di Tubinga può essere quella di Gianmaria Zamagni, La teologia delle religioni in Hans Küng. Dalla salvezza dei non cristiani all'etica mondiale (1964-1990), EDB, Bologna, 2005.
2 Cfr. Pier Paolo Portinaro, I dilemmi della giustizia in Luciano Gallino, Massimo L.Salvadori, Gianni Vattimo (con la direzione di), Atlante del Novecento, vol.III, Utet, Torino, 2000, p.925.
3 Paul Legendre, Stato e società in Francia. Dallo Stato paterno allo stato-provvidenza: storia dell'amministrazione dal 1750 ai nostri giorni (1968), Comunità, Milano, 1978.
4 Cfr. Pier Paolo Portinaro, Idem.
5 Idem.
6 Per una rapida sintesi si può consultare Stefano Zamagni, Giustizia distributiva, teorie economiche della, in Stefano Zamagni (a cura di), Enciclopedia dell'impresa. Politica economica, Utet, Torino, 1994, pp.284-294.
7 Cfr. Stefano Zamagni, op. cit., p.285.
8 Su questo punto cfr. per la situazione italiana Tito Boeri, Uno stato asociale. Perché è fallito il Welfare in Italia, Laterza, Roma-Bari, 2000 e Pierpaolo Donati, Lo Stato sociale in Italia. Bilanci e prospettive (Rapporti Mondatori), Mondadori, Milano, 1999. Per la situazione europea rimane utile la lettura di Maurizio Ferrera, Anton Hemerrijk, Martin Rhodes, The future of Social Europe, Celta Editore, Oeiros, 2000.
9 Cfr. Giovanni Paolo II, Enciclica Centesimus Annus, 48/d in Raimondo Spiazzi (a cura di), Dalla «Rerum Novarum» alla «Centesimus Annus». Le grandi encicliche sociali, Massimo, Milano, 1991, pp. 618-619. Per una analisi del testo cfr. Mario Toso, Verso quale società. La dottrina sociale della Chiesa per una nuova progettualità, Libreria Ateneo Salesiano, Roma, 2000, pp. 406 e ss.
10 Cfr. Piero Gheddo e Roberto Beretta, Davide e Golia, Paoline, Cinisello Balsamo, 2001, p.50-51.
11 In questo senso si muove lo studio di Christoph Stückelberger, Global Trade Ethics, WCC Publications, Ginevra, 2002.
12 Questo principio trova deve la sua prima formulazione ufficiale al Papa Pio XI che, nella Enciclica Quadragesimo Anno, ne diede questa formulazione: "che come è illecito togliere agli individui ciò che essi possono compiere con le forze e l'industria propria per affidarlo alla comunità, così è ingiusto rimettere ad una maggiore e più alta società quello che dalle minori ed inferiori comunità si può fare. Ed è questo un grave danno e uno sconvolgimento del retto ordine della società; perché l'oggetto naturale di qualsiasi intervento del società stessa è quello di aiutare in maniera suppletiva [«subsidium afferre»] le membra del corpo sociale, non già distruggerle ed assorbirle" in AAS 23 (1931), p.203. Per una prima analisi filosofico-teologica del principio e della sua evoluzione storica si può consultare Paolo Magagnotti (a cura di), Il principio di sussidiarietà della dottrina sociale della Chiesa, Edizioni Studio Domenicano, Bologna, 1991.
13 Idem.
14 Questa tematica trova uno sviluppo piuttosto approfondito nell'opera di Arthur Rich, Etica economica, Queriniana, Brescia, 1993, in particolare il capitolo 1. della Parte seconda "La questione del senso in economia", pp. 285-316.
15 In Josef Pieper, La giustizia, Morcelliana-Massimo, Brescia-Milano, 2000, p.80.
16 Crf Josef Pieper, op. cit., p. 81.
17 In Alejandro Chaufen, Cristiani per la libertà. Radici cattoliche dell'economia di mercato, Rubettino, Soveria Mannelli, 1999, p. 119. Sul tema è molto utile consultare: Raymond de Roover, «Scholastic Economics: Survival and Lasting Influence fron Sixteenth Century to Adam Smith» in The Quarterly Journal of Economics 69 (1955), pp. 161-190; Alejandro Chaufen, «Justicia distributive en la Escolástica tardía», Estudios publicos 18 (1985), pp. 5-20.
18 In Anselm Günthor, Chiamata e risposta, vol III, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo, 1988, p. 112.
19 Idem.
20 Cfr. Luigi Rosa, "Il principio di sussidiarietà nell'insegnamento della Chiesa" in Aggiornamenti sociali, novembre 1962, pp. 597-598.
21 Cfr: Paolo Magagnotti, op. cit., p.52.
22 Sono tra i fautori dell'ipotesi di una filiazione diretta della distinzione delle due iustitiae Josef Pieper nell'opera citata sopra, mentre sono più cauti nell'attribuzione sia Anselm Günthor, citato anch'esso sopra, e John Finnis, Aquinas. Moral, Political and Legal Theory