IL NUOVO ORDINE MONDIALE
La strategia Usa per una governance multipolare con Cina e India. Una riflessione per la rivista americana Foreign Affairs, del prof Daniel W. Drezner – docente di Politica Internazionale alla Fletcher School of Law and Diplomacy presso la Tufts University, nonché autore di "All Politics Is Global."
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La politica estera dell'Amministrazione Bush - con l'attenzione globale catturata dall'iniziativa in Medio Oriente, la diffidenza montante contro l'unilateralismo militare, il conformismo catastrofista sull'Iraq – è stata oggetto in questi anni di analisi drammaticamente parziali. Ciò ha nei fatti impedito di rendere adeguatamente conto di un aspetto cruciale ed invero ambizioso della politica estera dell'America Repubblicana: il progetto di riconfigurazione delle istituzioni internazionali, attraverso la redistribuzione del potere verso i paesi “emergenti”, come Cina e India. È questo il senso della riflessione, consegnata alla rivista americana Foreign Affairs, dal prof Daniel W. Drezner – docente di Politica Internazionale alla . Così – spiega l'autore – Washington è ormai attivamente impegnata nel compito di valorizzare il profilo delle potenze emergenti presso i consessi internazionali, dal Fondo Monetario Internazionale (Fmi), all'Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms), e coinvolgere paesi come Cina e India nei più autorevoli forum per la discussione di temi “pesanti”, come la proliferazione nucleare, le relazioni monetarie, l'ambiente. La dottrina del “nuovo ordine mondiale” non è nuova, con quel copyright depositato nella cassaforte ideologica di famiglia, per l'appunto da Bush padre. Un nuovo ordine mondiale – è la pragmatica constatazione di fondo – si è già realizzato nei fatti, con l'increbilmente rapida crescita delle potenze asiatiche, ed il conseguente scivolamento ad Est del fulcro degli interessi geopolitici ed economici globali. “Goldman Sachs e Deutsche Bank – si legge – stimano che entro il 2010 il combinato di crescita globale e reddito interno di Brasile, Russia, India e Cina – i paesi del così detto Bric – supererà quello della somma di Stati Uniti, Giappone, Germania, Regno Unito e Italia, raggiungendo, entro il 2025, un valore economico effettivo pari a due volte quello dell'insieme dei paesi rappresentati nel G7.”Il nuovo ordine mondiale si pone quindi primariamente l'obiettivo di fissare un nuovo equilibrio multilaterale, giudicando auspicabile un sistema istituzionale internazionale inclusivo, che riconosca alle nuove potenze un peso adeguato all'influenza conquistata sui campi dell'economia e della finanza globale, e permetta di governare la multipolarità nel rispetto di una cornice legale comune. A dispetto dellla disattenzione generale – osserva insomma Drezner - George W. Bush è riuscito a compiere la missione inseguita, un ventennio prima di lui, da George H. W. Bush, costruendo nei fatti quel “nuovo ordine mondiale” che il padre aveva così opportunamente delineato. Il successo della strategia americana non è tuttavia ancora garantito. Due – secondo l'autore – sono, infatti, i principali ostacoli al consolidamento strutturale dei progressi sin qui conseguiti da Bush. Da una parte, l'ostilità al progetto dei paesi che avvertono come un'insidia al proprio status internazionale l'eventuale ingresso nelle istituzioni globali dei nuovi protagonisti asiatici. “Alcuni stati membri dell'Unione europea – si legge nel paper – hanno mostrato un ben scarso entusiasmo per la strategia americana. Anzi, per assicurarsene il fallimento, la Ue si è data parecchio da fare per implementare accordi bilaterali e di cooperazione con i paesi emergenti, in modo da contrastare l'offensiva unilaterale degli Usa.” La seconda difficoltà incontrata dall'Amministrazione Bush è invece legata alla cattiva reputazione che ha circondato Washington dopo il discredito dagli Usa tributatato alle istituzioni internazionali, all'inizio della crisi irakena. Il fatto che, dopo aver umiliato l'Onu, l'Amministrazione diriga adesso una partita a livello di organismi internazionali così complessa è fonte di non poche perplessità negli stakeholder globali, come prova la resistenza di quella coalizione di “scettici” verso l'apertura a Cina e India, che conta paesi “non-allineati”come Argentina, Nigeria e Pakistan. Nonostante il trend della crescita asiatica fosse consolidato già negli Anni 90, e nonostante la fine della Guerra Fredda offrisse una storica opportunità di avviare un processo di radicale riforma dell'ordinamento giuridico internazionale, la Presidenza democratica guidata da Bill Clinton non ha intrapreso la strada della riforma degli organismi sovranazionali, perseguendo piuttosto il rafforzamento delle istituzioni già esistenti e dei relativi modelli di governance. L'obiettivo che appariva allora prioritario era infatti quello di garantire l'affermazione dell'egemonia americana sulla nuova Europa democratica dell'Est, dai Blacani alle repubbliche ex sovietiche. “Rifare le istituzioni internazionali – osserva tuttavia l'autore – è un compito ingrato, che costringe chi ha il potere di rinunciare a parte della propria influenza.” Negli anni di Clinton questa rinuncia non appariva affatto giustificata. “Cina e India erano sì in ascesa, ma lo status di superpotenza che si riconosce loro adesso, nei primi Anni 90 appariva ancora come di là da venire.”Non solo, la strategia di Clinton risultava invero efficace rispetto agli obiettivi dichiarati, avendo in effetti contribuito a consolidare l'egemonia Usa su quella nuova fetta di mondo “democratico”. “Questi risultati – osserva ancora l'autore – avevano però un costo occulto”. Le potenze emergenti cominciavano infatti a vedere nell'esistente modello di governance internazionale un ostacolo alle proprie potenzialità. Se ne ha prova in alcuni episodi critici dello scorso decennio - la diatriba tra paesi asiatici e Fmi, per l'atteggiamento ostile da questo tenuto nel corso della crisi dei mercati finanziari degli Anni 90; la frustrazione di New Dehli per le riserve espresse nel 1998 da Washington sui test nucleari che l'India portava avanti; le difficoltà tra Cina e Nato, culminate col bombardamento accidentale dell'ambasciata cinese a Belgrado; episodi che hanno per un po' esplicitato la contrapposizione tra gli interessi in gioco, espressi da una parte, con la via americana all'egemonia democratica, e dall'altra con la rivendicazione cinese della sovranità statuale. In un certo senso quindi, lo spregiudicato rifiuto dell'Amministrazione Bush di rispettare la Convenzione sulle armi biologiche dando inizio – unilateralmente – all'operazione Enduring Freedom, ha fornito ai competitor dell'egemonia Usa il pretesto per consolidare l'ipotesi di un disegnio alternativo a quello americano, ovvero un ordine mondiale “altro”, fondato su strutture di diritto internazionale governate ad est e rette da un sistema economico tra i più fiorenti ed incisivi della storia recente del mondo. La dottrina teocon, insomma, si è resa irricevibile per la stessa incapacità dei suoi promotori. È qui che interviene la drastica correzione di cui gli analisti non tengono conto ancora sufficiente conto. La priorità dell'Amministrazione americana oggi è infatti legata non tanto alla pacificazione del Medio Oriente quanto al ribilanciamento della governance globale, con lo spostamento dell'asse sui paesi emergenti. “Non è un caso – osserva ancora lo studioso – che questo riposizionamento strategico coincida con la nomina di Condoleezza Rice a Segretario di Stato, e di Henry Paulson a Segretario al Tesoro”.Insomma, anche nella versione più dottrinaria, il disegno di Bush è sempre stato un multilataralismo selettivo, fondato sulla profonda convinzione che, da una parte vadano legittimate, sostenute e rafforzate quelle istituzioni internazionali, come il Wto, che agiscono con efficacia dando prova di saper governare l'attuale complessità multipolare; e che, dall'altra, vada impressa una radicale rivoluzione in quegli organismi che, come l'Onu, vivono uno stallo cruciale rispetto alla effettiva capacità di conseguire gli obiettivi dichiarati. “Le istituzioni globali – si legge nel paper – cessano di essere appropriate quando il decision-making è ripartito in maniera non corrispondente all'effettiva distribuzione del potere, il che è precisamente quanto avviene oggi.” Ne sono esempio il Consiglio di Sicurezza dell'Onu e il G7.“I paesi del G7 – ragiona l'autore – si sono assunti il compito di gestire gli squilibri macroeconomici sorti negli Anni 70. Hanno avuto un certo successo negli Anni 80, quando rappresentavano oltre la metà dell'attività economica globale. Ma oggi, anche con l'estensione alla Russia (il così detto G8), non riescono più ad ottenere risultati efficaci senza il placet del peso massimo dell'economia globali, la Cina.” Partner degli europei in questa resistenza al nuovo multilateralismo Usa sono quei paesi ormai ai margini dell'economia globale che, consapevoli della inevitabilità di una sorte per loro tanto inclemente, tentano di allontanarne il più possibile l'arrivo. Tra i mezzi di cui la resistenza dispone, vi è naturalmente l'ideologia dell'anti-americanismo che, vuoi anche per colpa degli americani medesimi, punta a compattare un'altrimenti assai eterogenea compagine di paesi “non allineati”, tra cui l'Europa ma anche – per ragioni non sempre identiche – la Nigeria o il Brasile o la Russia. Il saggio può essere consultato in originale sul sito di Foreign Affairs.
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