La rivoluzione conservatrice di Putin non è stata compresa dai governi occidentali, convinti dal decennio eltsiniano che la Russia post-sovietica potesse essere facilmente addomesticata, convertita al liberalismo politico-economico e trasformata in un alleato remissivo
I DUBBI DI WASHINGTON RAFFORZANO PUTIN
di Fabio Lucchini
John Vinocur, Columnist dell'International Herald Tribune, critica aspramente l'Amministrazione Bush ed in particolar modo il vicepresidente statunitense Dick Cheney, che considera: “all'800 per cento responsabile del fatto che la Russia abbia sospeso il Trattato sulle Forze Convenzionali in Europa, minacci di puntare nuovi missili verso il territorio di paesi membri dell'Unione Europea e parli addirittura della possibilità che si verifichi nei prossimi anni un confronto missilistico tra Mosca e Washington”. In sintesi, al governo americano vengono rimproverate la leggerezza, l'acquiescenza e l'inerzia con cui ha agito negli ultimi mesi rispetto alle manovre ed alle provocazioni russe. Una linea analitica sviluppata da “Critica Sociale” negli ultimi mesi, anticipando il rinnovato, per quanto intempestivo, interesse della stampa nazionale rispetto alla minaccia politico-strategica che la Russia di Putin rappresenta per gli interessi ed i valori del mondo occidentale.
Del resto, le vicende internazionali degli ultimi mesi evidenziano una realtà politica poco edificante per le diplomazie occidentali. La disputa rispetto ai sistemi antimissile in Polonia e Repubblica Ceca, i dissensi sugli strumenti da utilizzare per fronteggiare il programma nucleare iraniano e la decisione russa di sospendere il Trattato sulle Forze Convenzionali, senza dimenticare l'assertiva politica del Cremlino in materia energetica, delineano un quadro allarmante. Alla decisa ed intransigente tutela dei propri interessi messa in campo dalla Russia i governi occidentali hanno risposto con una postura titubante e conciliante, mostrandosi incapaci di unità di intenti e d'azione. Vinocur sottolinea la remissività dell'Amministrazione Bush e della sua eminenza grigia, Dick Cheney, inclini a minimizzare l'aggressività e i colpi di mano di Mosca ed a considerare i ripetuti contrasti degli ultimi tempi come normali divergenze tra paesi amici. Se l'Europa manca ancora della coesione politica necessaria per rispondere coerentemente alle mire strategiche russe, gli Stati Uniti tendono invece a sottovalutare e rimandare il problema, forse troppo assorbiti dalla gestione dell'interminabile dopoguerra iracheno.
La rivoluzione conservatrice di Putin non è probabilmente stata compresa appieno dai governi occidentali, convinti dal decennio eltsiniano che la Russia post-sovietica potesse essere facilmente addomesticata, convertita al liberalismo politico-economico ed infine trasformata in un remissivo e collaborativo alleato. L'avvento di Putin ha spazzato via queste illusioni. La “diplomazia dei sorrisi” degli anni Novanta non appare più lo strumento adeguato per trattare con Mosca, mentre appare svilente l'atteggiamento di quei governi europei che, in nome delle buone relazioni commerciali con la Russia, si sono sinora adeguati alle spregiudicate manovre del Cremlino.