Con l’assassinio di Benazir Bhutto il Pakistan rischia di precipitare nel caos, secondo i piani dei nemici della democrazia e della libertà. Dividere l’Occidente e creare un blocco fondamentalista in Asia e Medio Oriente: questo il disegno del jihadismo internazionale
Fabio Lucchini
Benazir Bhutto conosceva bene i rischi che correva. La prima donna leader di un paese musulmano non poteva che suscitare l'odio ed il rancore delle correnti estremiste, mai prima d'ora così vitali in Pakistan. Il 18 ottobre scorso, giorno del suo ritorno in patria dall'esilio di otto anni che si era auto-imposta, la Bhutto era stata accolta dal più sanguinoso attentato della storia nazionale. Ciò che avvenne a Karachi due mesi fa appare oggi come il triste presagio dei fatti di Rawalpindi. La figlia di Zulfiqar Ali Bhutto, premier deposto e ucciso dai militari nel 1979, ha coraggiosamente affrontato il suo destino esponendosi pubblicamente e tenendo comizi di fronte a folle oceaniche. “In Pakistan,” diceva, “il contatto diretto con la gente è l'unico mezzo per far politica.”
Benazir Bhutto era a capo della maggiore forza d'opposizione, il Partito del Popolo del Pakistan (PPP), e si apprestava a partecipare alle elezioni legislative dell'8 gennaio con ottime possibilità di ottenere una vittoria che le avrebbe consegnato per la terza volta il mandato di Primo Ministro. Il presidente pakistano Pervez Musharraf e l'ex premier Nawaz Sharif, rimasto il principale oppositore del governo, si dichiarano uniti nel cordoglio per la gravissima perdita, ma i motivi di convergenza tra i due finiscono qui. Il governo di Islamabad viene accusato di non aver protetto adeguatamente la Bhutto. Molti, compreso il marito della defunta, accusano apertamente Musharraf di complicità con gli attentatori. Scontri tra i sostenitori della leader dell'opposizione e la polizia hanno caratterizzato le ore immediatamente successive all'attentato. Il Pakistan rischia la guerra civile ed il disordine. Proprio quello che vogliono gli oscurantisti, i nemici della democrazia e dei diritti civili: la composita alleanza tra al-Qaeda (che ha già rivendicato l'assassinio), i signori della guerra filo-talebani che imperversano nel nord-ovest del Pakistan, e gli ambienti estremisti interni, infiltrati persino nell'esercito e nei servizi segreti (l'ISI).
Il primo passaggio delicato riguarda l'atteggiamento delle forze politiche pakistane rispetto alle elezioni parlamentari dell'8 gennaio prossimo. I seguaci della Bhutto vorrebbero cavalcare l'effetto-martirio e spingono perché l'appuntamento non venga rinviato, mentre Sharif intende ritirare il proprio partito dalla competizione. Musharraf dovrà ponderare le sue mosse. L'omicidio della sua più credibile rivale, ma anche della personalità con la quale, sotto l'egida di Stati Uniti e Gran Bretagna, si stava avviando a concludere un accordo per la spartizione del potere, complica la vita al presidente. Musharraf, capo dello Stato, ma non più dell'esercito; Bhutto premier democraticamente legittimato. Questo sarebbe stato lo scenario più gradito ala comunità internazionale. L'unico, forse, in grado di garantire la stabilità del Pakistan.
Per quanto machiavellico e cinico possa essere considerato Musharraf, appare assai improbabile che l'ex generale abbia avuto un ruolo nell'eliminazione della rivale/alleata. Per quanto i contrasti tra i due non siano mancati in passato, l'amministrazione Bush aveva convinto Musharraf a siglare una tregua con la leader del PPP. Il processo è stato brutalmente interrotto, togliendo a Musharraf la possibilità di spartire il suo potere con una personalità amata e popolare e lasciandolo esposto al fuoco incrociato dei fondamentalisti islamici e dell'opposizione politica. Un'opposizione guidata dai successori della Bhutto, avvelenati e sospettosi verso il governo dopo l'accaduto, e da Sharif, poco incline al compromesso e sponsorizzato dall'Arabia Saudita, non certo una garanzia in tema di gestione dell'estremismo religioso. Il presidente dovrà maneggiare con cautela una bomba ad orologeria.
Benazir Bhutto rappresentava la speranza che anche in Pakistan fosse possibile un percorso verso la democrazia ed il liberalismo, era un'amica dell'Occidente, leader del principale partito di impostazione laica del disastrato Paese. Dietro la sua uccisione non è difficile scorgere la mano di chi si è da sempre opposto al processo democratico, desideroso di fare del Pakistan il fulcro di un progetto politico volto ad instaurare una serie di regimi fondamentalisti ed intolleranti nell'area conosciuta come Grande Medio Oriente. Un nuovo blocco di potere anti-occidentale, che si estenderebbe fino a comprendere, tra gli altri, l'Afghanistan re-talibanizzato, l'Iran degli ayatollah, l'Iraq islamizzato e liberato dagli occidentali, la striscia di Gaza in mano ad Hamas, il Libano di Hezbollah. Un progetto delirante, di difficilissima attuazione, quasi certamente destinato al fallimento. Questo non autorizza a sottovalutare la determinazione degli ideatori di una simile strategia, che hanno il lungo periodo come orizzonte temporale di riferimento. Nel frattempo, si accontentano di ottenere successi di natura tattica, che possono tuttavia avere conseguenze devastanti. Colpendo Benazir Bhutto, il fronte fondamentalista internazionale vuole infatti perseguire un obbiettivo più circoscritto rispetto alla creazione di un blocco islamista anti-occidentale, ma proprio per questo di più facile realizzazione: impedire la stabilizzazione strategica dell'Asia Centro-meridionale e l'affermazione della democrazia in quell'area.
Il Pakistan è un paese dotato dell'arma atomica, così come la confinante India. I due paesi hanno combattuto tre guerre nel Novecento e si sono trovati in anni recenti sulla soglia del confronto nucleare. Il ritorno al potere a New Delhi del moderato Partito del Congresso, guidato da Sonia Gandhi, ha per ora scongiurato quella nefasta eventualità. L'incontro tra le due grandi famiglie politiche che hanno fatto la storia dei due paesi, reso plausibile dal ritorno della Bhutto al potere, sembrava aprire scenari nuovi di pacifica convivenza tra Pakistan ed India. Anzi, la prospettiva di una stretta collaborazione tra le anime laiche e democratiche dei due paesi, rappresentate dalle dinastie Gandhi e Bhutto, lasciava intravedere una proficua contaminazione politico-culturale che avrebbe forse indotto Islamabad a seguire la lunga strada percorsa sin qui dall'India verso un sistema democratico sempre più compiuto e verso la modernizzazione.
L'omicidio di Benazir Bhutto rischia di spazzare via tutto questo e lascia intravedere scenari inquietanti. Se l'attentato di Rawalpindi fosse seguito da un periodo di violenza che precipitasse il Paese nel caos, l'esercito tornerebbe ad essere l'arbitro supremo dei destini del Pakistan. Gli esiti di un simile scenario sono imprevedibili. A tutto detrimento dei rapporti con il vicino indiano. Un Pakistan instabile, sottoposto ad una dittatura militare o, peggio ancora, governato da un regime fondamentalista, apparirebbe nuovamente come una minaccia agli occhi di New Delhi. A quel punto, come gli analisti di strategia militare teorizzano dai tempi della Guerra Fredda, l'eventualità di un incidente nucleare nell'area aumenterebbero pericolosamente…
In queste ore le istituzioni pakistane rischiano di collassare, aprendo la strada ad un periodo di disordine che potrebbe rivelarsi fatale non solo per il futuro del Paese ma anche per la sicurezza regionale ed internazionale. In Pakistan ha avuto origine il movimento taliban, nelle sue scuole religiose (madraseh) si sono formati centinaia di terroristi pronti a sacrificare se stessi e migliaia di innocenti per una causa delirante. Negli ultimi anni, il Pakistan è diventato un fronte avanzato della lotta all'estremismo ed all'oscurantismo, per quanto il presidente Musharraf non abbia mai convinto a pieno la comunità internazionale rispetto alla determinazione mostrata nella lotta al terrore. Benazir Bhutto possedeva credenziali più solide su questo punto ed i governi occidentali guardavano con favore ad un suo ritorno al potere.
I recenti tragici eventi non devono demoralizzare coloro i quali sostengono l'evoluzione democratica in atto ad Islamabad, a prescindere dalle pause e dai ripensamenti di Musharraf. Il processo deve andare avanti. Una sua interruzione rappresenterebbe il trionfo dell'estremismo taliban e qaedista e convincerebbe la coalizione fondamentalista internazionale della fattibilità dei suoi inquietanti progetti egemonici sul mondo islamico. Progetti che per essere realizzati presuppongono una preliminare divisione del campo antagonista, il mondo occidentale.
Benazir Bhutto è stata eliminata perché considerata portavoce dell'Occidente e dei suoi valori liberali, incompatibili con la retriva visione del mondo coltivata nelle scuole religiose pakistane e da lì diffusa in tutto il mondo islamico. Il successo riscosso dalla leader del PPP dimostra quanto i valori libertari e democratici si stiano diffondendo in un paese dalle forti tradizioni islamiche come il Pakistan. Forse esiste una Terza Via tra il fondamentalismo delle madraseh e la dittatura di Musharraf. Stati Uniti ed Unione Europea hanno il dovere di esplorarla. Se Washington e Bruxelles riusciranno ad accompagnare il Pakistan lungo la strada percorsa con successo negli ultimi sessant'anni dall'India, non solo spegneranno sul nascere un pericolosissimo focolaio di tensione internazionale, ma frustreranno anche le velleità espansioniste del jihadismo internazionale. In caso contrario, qualora tra americani ed europei dovessero nuovamente sorgere mille distinguo su quali modalità d'azione intraprendere, lo spettro di un nuovo, e più minaccioso, Iran potrebbe presto profilarsi all'orizzonte.