“Se il trattato di Lisbona sarà ratificato dai 27 stati-membri, l'Unione europea si doterà per la prima volta di una presidenza stabile che le permetterà di dare all'Europa (…) un volto familiare.” E chi meglio di Tony Blair – si chiede Thomas Ferenczi su Le Monde del 25 gennaio – potrebbe incarnare il volto della nuova Europa? “Per la sua autorevolezza, il suo dinamismo, la sua notorietà – osserva l'opinionista francese - l'ex primo ministro britannico sembra il più adatto a rappresentare l'Unione del futuro.”
La candidatura di Blair alla Presidenza del Consiglio europeo è nell'aria da tempo.
Tra i primi a promuoverla, Nicoals Sarkozy che, appena eletto, la scorsa primavera, si trovò sul tavolo presidenziale il dossier “Europa” che egli gestì da protagonista, non solo curando la regia dell'accordo sul nuovo trattato che emendava il testo costituzionale bocciato dal referendum, ma mettendo i partner europei di fronte al cambiamento di rotta che il successore di Jacques Chiarc avrebbe fatto assumere alla politica francese.
E il segno più eloquente di quella inversione di marcia fu, appunto, l'iniziativa a sostegno della candidatura di Tony Blair al ruolo di Presidente del Consiglio europeo che, in base al Trattato di Lisbona - attualmente in corso di ratifica nei parlamenti nazionali (salvo l'Irlanda, che ha optato per il referendum) - diverrà operativo dal primo gennaio 2009, al termine cioè dell'ultima presidenza “a rotazione” che la sorte ha voluto affidare proprio alla Francia dell'innovatore Sarkozy.
Il Consiglio europeo, che riunisce i capi di stato e di governo dei paesi membri, è l'organo esecutivo dell'Unione. L'ufficio di Presidenza, sino ad ora ricoperto a rotazione da ciascun paese per sei mesi, con la ratifica del Trattato di Lisbona sottoscritto lo scorso 13 dicembre dai 27 stati membri, dovrebbe assumere – insieme al Presidente della Commissione - il potere di indirizzo politico della Ue. Sarà dunque una figura altamente rappresentativa dell'Europa che verrà, sebbene il peso politico che i 27 intenderanno darvi è ancora tutto da definire.
Potrebbe trattarsi di un “chairman” o di un “leader”, ovvero di un “facilitatore di compromessi” o, al contrario, di un responsabile politico, dotato del potere di indirizzare il corso della politica comune e di decidere di conseguenza.
“L'essenza del Consiglio europeo - osserva il deputato francese, Pierre Lequiller - non è di mediare ma di dare impulso all'Europa.” E ad un Consiglio così non è certo un amministratore discreto che serve. Serve piuttosto una figura dotata di un'autorevolezza politica riconosciuta all'interno ed all'esterno dell'Unione. Una figura che Tony Blair, “il più europeo degli inglesi”, secondo la definizione di Sarkozy, incarna alla perfezione.
Per dirla con Sir Stephen Wall – già ambasciatore britannico all'Unione europea, nonché consigliere speciale dell'allora Premier laburista – Blair “ha senz'altro le caratteristiche giuste. Per le sue doti di negoziatore paziente e di abile ascoltatore.”
Tuttavia, su Blair pendono ancora molte incognite. Innanzitutto, non è certo che la sua candidatura ottenga il supporto necessario. In secondo luogo, non è affatto detto che lo stesso Blair voglia farsene carico.
Il fronte contrario a Blair è variegato, si va dalla Germania di Angela Merkel all'Italia del fu Romano Prodi, passando per una truppa francese trasversale all'arco parlamentare europeo. Blair – sostengono costoro – rappresenta un paese che non aderisce alla zona euro. Ha inoltre sostenuto Bush nella guerra in Iraq cui l'Europa si è in maggioranza opposta. È, infine, l'emblema di una politica liberale invisa da più parti nella vecchia Europa ed è favorevole all'ingresso della Turchia che, invece, per buona parte degli Stati membri rappresenta un tabù.
A ciascuna di queste riserve “politiche” è in realtà assai facile replicare. “Tony Blair ha sempre visto l'interesse nazionale britannico inestricabilmente legato a quello dell'Unione europea – osserva Sir Wall – considerando istintivamente la Ue come il veicolo per conseguire l'interesse nazionale.”
Blair, inoltre, il cui attuale incarico politico è quello di Inviato speciale del “quartetto” Ue, Usa, Russia, Nato per il Medio Oriente, non rappresenta più un interesse nazionale. La sua candidatura - ragiona dunque Ferenczi - dovrà essere valutata rispetto alle caratteristiche personali piuttosto che al paese di provenienza.
Il liberismo blairiano, poi, non è che una valorizzazione del tanto osannato “modello sociale europeo” che Blair non ha infatti mai proposto di abbandonare ma semmai di riformare. Per quanto riguarda l'isolamento in Europa cui l'avrebbe costretto il sostegno alla campagna irachena, ebbene, è opportuno ricordare che l'intervento britannico ebbe il riconoscimento dell'allora Primo ministro portoghese, poi divenuto Presidente della Commissione europea, José Manuel Barroso.
Le ragioni “politiche” addotte da chi si oppone alla sua designazione appaiono dunque non particolarmente fondate. I fattori da cui sembra invece dipendere la decisione in merito alla sua designazione riguardano, da una parte, gli assetti politici che emergeranno con l'entrata in vigore del Trattato di Lisbona e, dall'altra, dall'opportunità, per lo stesso Blair, di assolvere ad un incarico che comporterebbe la rinuncia a tutta una serie di opportunità professionali che, dal suo congedo da Downing Street, gli si sono via via presentate.
Tra queste, l'incarico internazione in Medio Oriente appare quello con le prospettive meno edificanti. Dopo Annapolis e la Conferenza dei Donatori, infatti, all'Inviato speciale non resta che il compito di sovrintendere al rispetto degli impegni finanziari assunti lo scorso dicembre a Parigi per il sostegno allo sviluppo economico dei territori palestinesi. Sulla questione israelo-palestinese, tuttavia, la palla politica non è lui ad averla ma gli Stati Uniti.
Rinunciare a quell'incarico, dunque, non sarebbe poi un sacrificio enorme.
Più allettanti, quanto meno sotto l'aspetto economico, sono invece i contratti stipulati dall'ex Premier per consulenze a società private cui, nel caso di una designazione alla prestigiosa carica europea, Blair sarebbe costretto a rinunciare.
Oltre alla consulenza con la banca d'affari JP Morgan Chase, che gli frutterà 500.000 sterline l'anno, oltre i quasi sei milioni di pounds versatigli come anticipo sul libro di “memorie” che l'ex inquilino di Downing Street si accinge a scrivere, e le 500.000 sterline versate dalla Washington Speakers Bureau Inc. per un tour di conferenze in tutto il mondo, Tony Blair ha in ballo adesso un altro contratto milionario con la compagnia svizzera di assicurazioni Zurich Insurance, alla quale il nostro offrirà la propria consulenza sul tema del cambiamento climatico.
Si comprende allora perché, prima di ufficializzare la candidatura alla Presidenza europea, nell'entourage blairiano si preferisca mantenere una certa cautela. L'interesse di Blair per il posto è infatti funzionale al peso politico che i 27 intenderanno concedere al Presidente. Se avrà il potere di decidere, di dare un impulso politico reale all'Europa, soprattutto rispetto ai dossier cruciali - come la difesa comune, l'immigrazione, il commercio estero - allora potrebbe valere la pena competere. Ma se così non fosse, se allo scatto in avanti l'Europa preferisse la marcia defilata che la confina nelle retrovie dei poteri globali, allora a Blair la Presidenza non potrebbe interessare di meno.
Al riguardo, tuttavia, molto dipenderà dal modo in cui Sarkozy gestirà il semestre francese. A lui, cui spetterà il compito di preparare il terreno al primo Presidente incaricato di guidare l'Unione per due anni e mezzo, si offrirà l'occasione di realizzare il disegno di modernizzazione e responsabilizzazione politica della Ue, un disegno che si aggancia all'agenda di rinnovamento auspicata, ma non compiuta, dalla Presidenza britannica inaugurata nel 2006 da Tony Blair con un discorso così pregno di passione e visione europeista da esser destinato a passare alla storia, non fosse altro perché in esso era già ben delineato un progetto di rilancio delle ambizioni europee che nel linguaggio politico europeo si chiama ormai "rupture".
Per Sarko, dunque, Blair rappresenta l'opportunità di rompere con il dogmatismo e la retorica che ha portato la Ue alla irrilevanza che le si contesta oggi. Il Presidente della Repubblica francese è, infatti, consapevole che su temi “scottanti” come l'immigrazione - a lui particolarmente caro - gli sforzi di un singolo paese rischiano di essere clamorosamente vanificati dalla incoerenza delle politiche condotte dagli altri stati membri. In questa materia - ma il ragionamento vale anche per le politiche ambientali, la sicurezza, le politiche energetiche, la competitività, l'occupazione - non sarebbe affatto saggio per l'Europa continuare a trincerarsi dietro il suo pachiermico apparato buro-tecnocratico per giustificare la propria incapacità ad assumere una posizione politica chiara, dalla quale, in ultima analisi, derivano la sua credibilità di fronte agli interlocutori internazionali, e la stessa efficacia delle sue politiche.
Sarkozy, come Blair, ha in fondo l'ambizione di costruire un'Europa che dimostri di avere senso della storia. Che riconosca l'urgenza di uscire dalla paralisi decisionale e sappia assumersi la responsabilità di tradurre il suo enorme potenziale politico in politiche economiche, politiche per la sicurezza e la difesa comune, e in una politica estera che le dia capacità di contare sullo scenario globale.
Ammesso allora che le prerogative che assumerà il nuovo istituto presidenziale soddisfino le ambizioni di Tony Blair, perché sia proprio l'ex leader laburista il primo Presidente della nuova Europa sarà comunque necessario trovare un accordo politico sull'organigramma istituzionale. Oltre alla Presidenza del Consiglio, infatti, la partita del nuovo potere europeo si gioca sulla presidenza della Commissione e sull'Alta Rappresentanza per la politica estera.
Mentre per il Ministro degli esteri europeo valgono le considerazioni di cui sopra, in merito alle responsabilità ed ai poteri di cui tale istituto godrà al momento della ratifica del Trattato di Lisbona, il Presidente uscente della Commissione europea, Jose Manuel Barroso, pare abbia tutta l'intenzione di candidarsi ad un secondo mandato. Come Blair, tuttavia, anche Barroso ha la colpa di essere un liberale, di provenire da un paese della “vecchia” Europa, e di aver l'ambizione di impegnare l'Unione in un progetto di futuro che imporrebbe agli stati membri una responsabilità politica che da più parti si preferisce invece respingere. La Germania o l'Italia, ad esempio, vedono con maggiore favore una presidenza meno carismatica mentre, sebbene per ragioni diverse, anche alcuni paesi dell'Est si oppongono al ticket Barroso-Blair che, dal punto di vista simbolico, significherebbe negare ai nuovi stati-membri una pari dignità legittimamente rivendicata.
Ecco allora che, tra chi si oppone a Blair, si avanza il consenso per due figure come l'ex premier austriaco Wolfgang Schüssel – sostenuto dalla Germania - ed il primo ministro lussemburghese, Jean-Claude Juncker, che ottiene invece il consenso “internazionale” dei socialdemocratici.
“Alla fine è difficile prevedere come andranno le cose” – conclude saggiamente Sir Wall. Se si pensa alla Presidenza della Convenzione, per la quale la designazione dell'allora Primo ministro olandese, Wim Kok, sembrava cosa fatta, salvo poi risolversi nell'elezione di Valerie Giscard d'Estaing, il sospetto che a prevalere sia, ancora una volta, un compromesso al ribasso, e che dunque a Blair si preferisca chiunque purché conti poco, si fa sempre più consistente.