I risultati del voto del 18 febbraio in Pakistan hanno bocciato nettamente la politica del presidente Pervez Musharraf e messo indirettamente in discussione la politica estera di Islamabad. Come evolveranno i rapporti con gli Stati Uniti, anch'essi sconfitti dall'esito delle urne?
Ora tutto il mondo guarda con apprensione agli eventi del Pakistan, unico Stato islamico in possesso dell'arma atomica, fatto che drammatizza ulteriormente la perenne instabilità politica che attanaglia il grande paese asiatico.
Il mensile britannico Prospect rilancia al proposito un'indiscrezione risalente ad un paio di mesi fa ed anticipata dal Guardian: gli Stati Uniti avrebbero un piano per mettere in sicurezza l'arsenale nucleare pakistano qualora il Paese sprofondasse nell'instabilità politica. Lo propone Frederick Kagan, già professore all'accademia di West Point ed autore del rapporto che ha ispirato la fortunata strategia del surge in Iraq. Kagan, insieme a Michael O'Hanlon, analista di politica internazionale vicino ai Democratici, aveva prefigurato la sua proposta in un articolo sul New York Times.
Quando si parla dei rischi connessi alla proliferazione degli armamenti nucleari il pensiero corre istintivamente al dossier iraniano, mentre sino a pochi mesi fa le preoccupazioni della comunità internazionale si rivolgevano alle bizze atomiche di Pyongyang. Al Pakistan, unico Stato islamico che l'atomica l'ha già acquisita da tempo, raramente è stata invece applicata l'etichetta della pericolosità. Eppure Islamabad non ha fatto molto per distogliere l'attenzione dalle sue vicende, avendo duellato vanamente per mezzo secolo con il vicino indiano (con cui ha combattuto ben tre guerre, sfiorandone altre). Inoltre, a pochi osservatori possono sfuggire le connivenze dei servizi segreti pakistani con l'insorgenza del fenomeno taliban negli anni novanta. Una responsabilità, l'affermazione degli studenti coranici in Afghanistan, che l'ISI (il servizio segreto pakistano) condivide con il governo saudita e con segmenti delle amministrazioni Bush padre e Clinton.
Ora, in coincidenza con le elezioni parlamentari rinviate per l'assassinio del leader dell'opposizione pakistana Benazir Bhutto, la comunità internazionale guarda con apprensione al futuro di un Paese lacerato dalle divisioni interne, ma fondamentale per la lotta globale all'estremismo e al fanatismo. Il criticatissimo e discusso presidente Musharraf non può certo vantare un curriculum da fervente democratico ed è da più parti accusato di morbidezza nel lotta ad al-Qaeda, ma insiste nel mantenere il Pakistan agganciato alla sua traballante partnership con gli Stati Uniti e l'Occidente. I suoi difetti sono arcinoti, ma qual è l'alternativa? Quanto è reale il pericolo che il Pakistan, una volta liberato dalla dittatura morbida di Musharraf, non si converta in una piena democrazia ma finisca nelle mani di un governo oscurantista e bellicoso? E soprattutto, si chiede l'esperta di questioni pakistane Ayesha Siddiqa dalle colonne di Prospect, è possibile che l'arsenale nucleare di Islamabad cada un giorno nelle mani dei militanti estremisti? Le conseguenze di una simile eventualità sono facilmente immaginabili e ricadrebbero su i già fragili equilibri geopolitici dell'Asia centro-meridionale.
All'epoca dei primi passi del programma nucleare pakistano negli anni settanta, all'indomani dell'ennesima sconfitta militare patita dall'India, l'opinione pubblica nazionale era stata convinta dalle autorità del valore intrinseco della "bomba islamica". Essa, si diceva, avrebbe garantito la sicurezza del Paese dalle minacce esterne. Da allora, la continua instabilità politica del Pakistan ha indotto molti osservatori internazionali a considerare continuamente il rischio che gli armamenti non convenzionali di Islamabad possano finire nelle mani sbagliate. Recentemente, sono stati svelati i piani elaborati dagli USA per neutralizzare la capacità atomica pakistana qualora essa entrasse nella disponibilità delle fazioni estremiste. Frederick Kagan è già stato professore di Storia Militare all'accademia di West Point ed è l'autore del rapporto Choosing Victory: A Plan for Success in Iraq, che ha ispirato la strategia del surge (l'incremento delle truppe USA in Iraq) di George W. Bush. Strategia che ha dato indubbiamente buoni risultati nel contenimento della violenza in Iraq. Kagan ha proposto alla fine dell'anno scorso un piano di dispiegamento delle truppe americane in Pakistan al fine di prendere il controllo dell'arsenale nucleare atomico di Islamabad e di metterlo in sicurezza nel caso il Paese sprofondasse nel caos. Le autorità del Pakistan reagiscono ad ipotesi del genere con sdegno ed irritazione.
Ad ogni modo, la contiguità di alcuni settori dei servizi segreti pakistani con la galassia che ruota attorno al famigerato movimento taliban e la mai stabilizzata disputa con l'India sul Kashmir inquietano non poco gli alleati di Islamabad, Stati Uniti in testa. Il rischio che gruppi integralisti possano entrare in possesso di materiale atomico e degli armamenti necessari per impiegarlo non viene escluso a priori nemmeno all'interno del Paese, dove molti commentatori ammettono candidamente di non poter giurare sulla lealtà dell'ISI al governo Musharraf. Quali sono dunque le implicazione dei legami ambigui tra i servizi d'intelligence militari e l'estremismo islamico per la sicurezza dell'arsenale nucleare del Pakistan? Siddiqa prefigura due scenari inquietanti: i militanti islamici potrebbero entrare direttamente in possesso delle armi nucleari o acquisire la capacità di arricchire l'uranio per produrle; i militanti islamici potrebbero esercitare una crescente influenza su quanti, negli apparati militari pakistani, sono preposti alla gestione di testate e materiale fissile.
L'esperto di Prospect considera particolarmente remoto l'avverarsi del primo scenario. I sistemi di sicurezza che proteggono le 40-80 testate nucleari nazionali rendono pressoché impossibile il compito di chiunque volesse entrare in possesso di armamenti non convenzionali. Similmente, risulterebbe alquanto difficili per i gruppi terroristi e criminali dell'area procurarsi missili, vettori ed aerei da combattimento idonei per rendere operativi i micidiali sistemi d'arma eventualmente caduti in loro possesso.
Siddiqa si mostra più preoccupata rispetto alla possibilità che il fondamentalismo di matrice qaedista si infiltri nei ranghi dell'esercito al fine di acquisire un controllo indiretto sugli armamenti. Si teme che le gerarchie militari possano avere crescenti difficoltà ad imporre la loro autorevolezza ai settori dell'esercito più sensibili al discorso religioso e quindi potenzialmente cooptabili dai qaedisti. Tuttavia, le recenti purghe nei ranghi militari pakistani sembrano riconfermare la fedeltà al governo dell'istituzione cardine per la stabilità del disastrato Paese. I vertici dello Stato Maggiore sono consci dell'importanza degli aiuti internazionali (vedi occidentali) per il mantenimento di una struttura militare vagamente efficiente e degli svantaggi strategici per il proprio Paese in caso di proliferazione nucleare nell'area.
Nel caso si avverassero i più oscuri presagi sarebbe pensabile un intervento americano volto a distruggere il potenziale nucleare pakistano prima che se ne impossessassero correnti islamiste e filo-taliban? I rischi di una simile operazione sarebbero altissimi. Meglio lavorare sul versante della prevenzione, invitando il governo di Islamabad alla trasparenza verso gli alleati ed alla vigilanza nei confronti dei suoi nemici interni.