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LA QUESTIONE RAZZIALE ENTRA NELLA CAMPAGNA USA

Mentre divampano le polemiche tra i Democratici, Obama parla a Filadelfia di discriminazione, rabbia e riconciliazione.

Data: 2008-03-15

Fabio Lucchini

Veleno sulla campagna Democratica. Come se non bastasse il caos aritmetico in cui è sprofondato il Partito, gli ultimi giorni di campagna elettorale sono stati ravvivati da improvvide uscite di illustri esponenti degli staff dei due rivali. La consultazione in Pennsylvania è ancora lontana, ma la tensione rimane alta nel Partito, quasi a sbugiardare qualsiasi retorica riconciliatoria  fra i due leader, sbandierata da ultimo, e a quanto pare invano, da Bill Clinton.

A dar fuoco alle polveri della lunghissima vigilia ci ha pensato Samantha Power, docente a Harvard, vincitrice del premio Pulitzer e, soprattutto, consigliere di politica estera di Barack Obama. "Hillary è un mostro, una che non si ferma davanti a niente. Ma questo ovviamente non pubblicatelo", ma qualcuno invece l'ha pubblicato, inducendo la brillantissima consulente a fare pubblica ammenda e ad abbandonare lo staff di Obama dopo oltre un anno di collaborazione. Toni, i suoi, incompatibili con il basso profilo rivendicato dal senatore dell'Illinois di fronte ad una strategia dei Clinton sinora più incline all'attacco personale.

Nemmeno il tempo di metabolizzare il caso Power, che Geraldine Ferraro, candidata alla vice-presidenza Usa nel 1984 e consulente economica della Clinton, ha tenuto a precisare che Obama sarebbe in testa nella corsa Democratica grazie al colore della sua pelle, o meglio, avrebbe il vantaggio di essere il candidato di colore giusto al momento giusto (della storia americana).  Un po' brutale come considerazione. Forse troppo. L'ex first lady si è affrettata a prendere le distanze dalla Ferraro: "Naturalmente, non ha parlato a nome della mia campagna, non ha parlato a nome di alcuna mia posizione e si è dimessa dall'incarico che aveva all'interno della mia commissione economica."

Se gli affaires Power e Ferraro rappresentano già incidenti archiviati della frenetica campagna, Jeremiah A. Wright Jr. alla lunga potrebbe diventare un problema serio per Obama. William Kristol, editor del settimanale Weekly Standard e pundit (letteralmente "sapientone", più propriamente opinion leader) Repubblicano, attacca il padre spirituale di Obama dalle colonne del New York Times. Kristol, figlio di uno dei fondatori del movimento neocon ed ex consulente di Reagan e Bush padre, ricorda alcuni sermoni infuocati di Wright, nel corso dei quali il predicatore si augurava che "Dio maledicesse l'America Bianca…per l'oppressione esercitata nei confronti dei popoli del mondo, in particolare dei neri…dei suoi cittadini neri".

Il senatore dell'Illinois non condivide gli eccessi polemici del suo mentore, ma il legame fra i due uomini rimane forte e potenzialmente compromettente per il primo candidato post-razziale della storia d'America. Come si comporterà l'idealista Obama rispetto alle invettive anti-patriottiche di Wright? Opportunisticamente, come suo solito, asserisce Kristol. "Obama ha ritenuto di usare la Chicago's Trinity United Church of Christ di Wright per crearsi una base di consenso nella sua comunità agli inizi della carriera politica, ed ora presumibilmente prenderà le distanze dalle ingombranti posizioni del suo padre spirituale."

Obama si è dovuto rassegnare ad affrontare la questione, insidiosa e scivolosa, e lo ha fatto alla grande parlando al National Constitution Center di Filadelfia. Con un discorso vibrante, ha trattato coraggiosamente e francamente la questione razziale in una fase molto complicata della campagna. Il sentore dell'Illinois non ha eluso la hot issue della razza, ma l'ha piuttosto affrontata con argomentazioni di vasto respiro, riecheggiando in alcuni passi Abraham Lincoln, John Fitzgerald Kennedy e Lindon Johnson e facendo riferimento ai precetti costituzionali che hanno favorito il perpetuarsi delle disuguaglianze ed alle lotte per i diritti civili. Un discorso patriottico ed intriso di speranza, dove Obama ha rispolverato il meglio del suo repertorio retorico, accomunando le sofferenze delle minoranze discriminate a quelle di ampi settori disagiati della classe operaia  bianca ed invitando il Paese a guardare oltre le divisioni.

Senza dimenticare la tematica della rabbia. Quella rabbia che traspare negli appassionati strali anti-Wasp (White-Anglo-Saxon-Protestant) del reverendo Wright. Obama ha contestato i toni usati da Wright, ma non ha rinnegato l'uomo a cui deve il suo ingresso nella comunità cristiana. Wright, secondo il suo figlio spirituale, sbaglia non tanto nel denunciare le ingiustizie che i neri d'America hanno subito, e subiscono, ma nel non accordare fiducia agli americani del futuro, coloro che saranno capaci di cambiare lo stato delle cose. La rabbia esiste, bisogna comprenderla, ma non bisogna farsi trascinare da essa. "Non possiamo ignorare la questione razziale...se rinunciamo a risolverla e ci ritiriamo nel nostro orticello, non riusciremo, come nazione, a vincere le sfide della sanità universale, dell'educazione e della piena occupazione." Hillary Clinton non ha ascoltato il discorso, ma ha dichiarato di essere felice che Obama l'abbia pronunciato.

Dalla "città dell'amore fraterno", fondata dal quacchero William Penn su principi di libertà e tolleranza e teatro della Dichiarazione d'Indipendenza e della Costituzione degli Stati Uniti, rinasce forse la speranza che la campagna 2008 sfugga alle piccolezze partigiane e rilanci le progettualità ideali e le promesse di rinnovamento che lasciava intravedere nel mese di gennaio.






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