I richiami all’ecumenismo alla vigilia dei Giochi di Pechino non possono nascondere la tragedia dei diritti violati. La timidezza e la miopia dell’Occidente nei confronti della Cina sono all’origine dell’umiliazione dello spirito olimpico
Fabio Lucchini
Comunque vada, è già un insuccesso. Il viaggio della fiaccola olimpica, che ogni quattro anni riaccende le speranze di quanti credono nel valore ecumenico e conciliatorio dei Giochi Olimpici, prosegue tra contestazioni e scontri di piazza. Il Comitato olimpico internazionale (Cio), quando decise di assegnare l'organizzazione delle Olimpiadi a Pechino nel 2001, agì secondo una logica risarcitoria verso la Cina, beffata da Sidney pochi anni prima. Un'ulteriore sconfitta della Cina si sarebbe probabilmente trasformata in una vertenza diplomatica extra-sportiva. D'altro canto, le conseguenze di quella scelta si riflettono nelle polemiche e nelle tensioni di questi giorni: ora, a quattro mesi esatti dall'avvio dei Giochi, la comunità internazionale si contorce nei ripensamenti e viene divorata dai dubbi.
La sorte maligna ha infatti voluto, Pechino ritiene invece sia stato un disegno orchestrato dal Dalai Lama, che il popolo tibetano scegliesse proprio l'anno olimpico per alzare la voce contro cinquant'anni di oppressione. Il governo cinese non ha saputo fare altro che rispondere con la durezza, quasi ignorando che un simile atteggiamento avrebbe costretto anche la più sonnolenta delle cancellerie a spendere qualche parola di critica. In queste settimane v'è stato chi ha parlato di boicottaggio della cerimonia d'apertura (Sarkozy), chi ha confermato, forse, la propria presenza (Bush), chi si è richiamato al buonsenso cinese (il presidente del Cio Jacques Rogge) e chi, infine, ha fatto ricadere tutto sulla coscienza dei singoli atleti. Molti hanno addirittura invocato il boicottaggio totale.
La torcia olimpica, contestata sin dalla cerimonia d'accensione in Grecia, prosegue intanto la marcia verso Pechino. Un viaggio tormentato. Presto i tedofori lasceranno l'Europa, non prima di essere stati violentemente contestati a Londra e a Parigi, dove per motivi di sicurezza la torcia ha dovuto essere spenta, prima che ci pensasse qualche manifestante, e trasportata in autobus. Un'umiliazione. Facile pronosticare che le contestazioni si diffonderanno come un contagio in tutti i continenti che la fiamma d'Olimpia attraverserà. Basterà l'apparentemente pittoresca scorta delle forze di sicurezza cinesi ad interdire gli attivisti per i diritti umani ed i simpatizzanti della causa tibetana? Anche se presto il mitico cimelio sarà al sicuro in Cina, i quattro mesi che mancano all'inaugurazione rischiano di rivelarsi molto lunghi. Lunghi per Pechino, che spera che la pressione dell'opinione pubblica mondiale non cresca ulteriormente. Lunghi per la stragrande maggioranza dei governi occidentali, che sperano di non essere costretti dal precipitare dagli eventi ad inasprire la propria posizione nei confronti della Cina. L'occasione di una nuova crisi potrebbe presentarsi in tempi rapidi.Infatti, le brutalità a cui si lasciano spesso andare le autorità cinesi non sono riservate soltanto ai tibetani, ma anche ai musulmani della provincia dello Xinjiang, gli uiguri di etnia turcomanna.
La vicenda storica dello Xinjiang è decisamente meno conosciuta rispetto alle peripezie del confinante Tibet. L'esercito cinese occupò quella vasta regione nel 1949 e da allora Pechino è impegnata in una vasta opera di assimilazione degli uiguri, come nel caso tibetano a discapito dell'identità culturale della popolazione locale. Del resto lo Xinjiang è un'area strategicamente importante per il governo centrale, grazie alla ricchezza dei suoi giacimenti petroliferi. Per questo motivo è stata favorita l'immigrazione in loco di centinaia di migliaia di cinesi dell'etnia dominante Han per colonizzare quel territorio ed alterarne la composizione demografica. L'11 settembre 2001 ha fornito inoltre al governo il pretesto per accentuare la repressione nei confronti dei dissidenti uiguri, accusati di minacciare la sicurezza nazionale ed accostati grossolanamente al terrorismo internazionale di matrice islamica. Forse incoraggiati dalla ribalta planetaria conquistata dai contestatari tibetani, anche gli uiguri hanno alzato recentemente la testa e rivendicato l'auto-determinazione. La Cina schiaccerà anche queste rivendicazioni?
In condizioni normali la risposta militare sarebbe stata più che ovvia. Da Occidente si sarebbe levata qualche lamentela di circostanza, ma nulla di fastidioso. Pechino avrebbe cortesemente invitato i partner a farsi gli affari propri ed a non ingerirsi negli affari interni di un Paese sovrano. Nella situazione attuale un'ennesima stretta repressiva potrebbe invece surriscaldare gli animi di un'opinione pubblica internazionale forse stanca della timidezza con cui i governi che la rappresentano di solito contestano le violazioni cinesi. L'Occidente ripete gli errori commessi nel rapportarsi con la Russia putiniana. Mentre il presidente russo esce di scena in un clima progressivamente più disteso, la sfida posta dalla Cina rimane e diventerà sempre più complessa da maneggiare. Una sfida globale appunto, caratterizzata dal mancato rispetto dei diritti umani, dalla concorrenza commerciale sleale, dalla volontà di costruirsi una gigantesca sfera d'influenza in Asia ed Africa. Un progetto ispirato da un approccio valoriale distinto e spesso opposto ai canoni liberal-democratici e portato avanti con mezzi e strumenti discutibili. La scalata cinese alle gerarchie mondiali prosegue, mentre le cancellerie euro-atlantiche balbettano e non reagiscono, temendo, in modo miope, di perdere vantaggi economici e politici parziali. L'esplodere della questione olimpica sta obbligando l'Occidente ad anticipare un confronto dialettico con la Cina che avrebbe voluto, con scarsa lungimiranza, rinviare a data da destinarsi. Un confronto al quale i nostri governi giungono impreparati ed indecisi sul da farsi. Incrociare le dita e sperare che non succeda nulla di grave da qui all'8 di agosto; questa la strategia.
Avallando il modus operandi cinese, inoltre, il cosiddetto mondo libero sembra accettare un modello di crescita impetuoso che prevede giganteschi costi umani, sociali ed ambientali. Eppure, il caso indiano dimostra che il progresso materiale può essere raggiunto nel ventunesimo secolo anche seguendo modalità diverse. Con tutti i suoi guasti, l'India è una grande democrazia che guarda al futuro, crede nel progresso ed investe nelle giovani generazioni. Lì, tra mille contraddizioni, la globalizzazione sembra aver dato i suoi frutti migliori. Negli ultimi sessant'anni di vita indipendente il Subcontinente ha dovuto patire tragedie politiche e sociali immani ma non ha deviato dal suo percorso verso l'avvenire. Una traiettoria in progress, che si scontra con i retaggi culturali del passato e con la miseria di una larga fetta della popolazione, ma che diffonde ottimismo e fiducia. Anche l'India sarà una delle grandi potenze del mondo multipolare e possiede i crismi per diventare un agente di pacificazione e stabilità nell'agitato contesto asiatico. Il modello di sviluppo politico-economico che propone New Delhi non solo è degno di maggiore attenzione, ma merita anche di essere accolto con amicizia e fiducia.