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LE STRADE DELL’ISLAM

Lo scorso 3 aprile si è tenuta a Milano una conferenza sull’evoluzione politica dell’Islam nel Mediterraneo. Le strade dell'Islam. Tra Erdogan, Ahmadinejad e Bin Laden: questa la denominazione dell’evento, organizzato dal Centro italiano per la Pace in Medio Oriente (Cipmo)

Data: 2008-04-30

E' interessante notare come Stati Uniti, Israele ed Unione Europea abbiano recentemente mutato strategia nei confronti della potenza emergente in Medio Oriente, l'Iran: si è passati dall'aperto confronto al contenimento. E' presumibile che un simile atteggiamento si estenderà gradualmente ad Hamas ed Hezbollah, movimenti controversi e discutibili che hanno pur tuttavia un forte radicamento nelle masse. Il presidente americano Bush sbaglia quando le liquida semplicisticamente come forze estremiste e terroristiche. In futuro, in determinate condizioni, potremmo anche assistere ad una svolta in senso realista di queste formazioni, che prefigurerebbe per loro un destino non dissimile a quello del Partito islamista e moderato di Tayyp Erdogan, al potere in Turchia. A tal proposito, dobbiamo interrogarci sulle conseguenze di un'eventuale sentenza della Corte Suprema turca che mettesse fuori legge il Partito di governo turco.


Parsi

. L'Iran è un Paese non arabo, sciita e teocratico. Tre attributi che rendono Teheran particolarmente indigesta alle ricche monarchie del Golfo, arabe, sunnite e memori del terrore provato ventinove anni fa, quando l'ayatollah Ruollah Khomeini, appena insediatosi al potere, minacciava di esportare la Rivoluzione Iraniana. Attualmente, la situazione appare perciò alquanto confusa. Cinque anni fa cominciava la guerra in Iraq ed è tempo di bilanci. Gli Stati Uniti, che hanno promosso e condotto le operazioni militari, hanno riportato un fallimento. Allo stesso modo, non sono stati fatti significativi passi avanti nella risoluzione del conflitto israelo-palestinese. Se il fallimento Usa è da considerarsi grave, l'assenza europea è se possibile più allarmante. Questo perché l'Europa, considerando la sua prossimità all'area, dovrebbe aver un interesse superiore a quello americano nel promuovere la pacificazione e lo sviluppo della sponda sud del Mediterraneo. Il Medio Oriente ed il Mediterraneo costituiscono il nostro meridione e fanno parte, che ci piaccia o meno, del nostro sistema. Purtroppo, a causa dell'instabilità dell'area, gli europei vi investono poco, non solo a livello economico ma anche di impegno politico. Le amministrazioni Usa, pur commettendo errori in serie, hanno quantomeno tentato di trovare una soluzione alle problematiche regionali, chi mediante gli strumenti della diplomazia (Bill Clinton) e chi con la guerra (George W. Bush).

Entrambi hanno mancato l'obbiettivo, ma gli Usa non sono i soli, poiché è andato a vuoto anche il tentativo qaedista di rimodellare il Medio Oriente in nome di un'ideologia estremista e del tutto antitetica rispetto alle intenzioni e convinzioni occidentali. Tuttavia, il doppio fallimento non deve assumere un carattere consolatorio per l'Occidente: ad avvantaggiarsi della situazione è stato infatti l'Iran. Poche settimane fa il presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad si è recato in visita ufficiale a Baghdad. A livello simbolico, uno schiaffo clamoroso per Washington. Si sta avverando proprio ciò che le varie amministrazioni Usa hanno sempre cercato di scongiurare dal 1979 ad oggi, ossia l'infiltramento di Teheran nelle dinamiche interne irachene. Un esempio. Il popolare e controverso leader sciita, Moqtada al-Sadr, collabora con i servizi segreti iraniani, trova ospitalità a Teheran e da lì crea sovente problemi al governo filo-americano di Nuri al-Maliki.

E non solo. L'ombra di Ahmadinejad si allunga persino sulle presidenziali americane di novembre. Non è la prima volta. L'ayatollah Khomeini fu tra i più importanti grandi elettori delle elezioni Usa del 1980, allorché l'interminabile vicenda degli ostaggi ebbe una sua influenza nel determinare la netta sconfitta del presidente in carica, Jimmy Carter, a vantaggio dello sfidante, Ronald Reagan. Sicuramente, se il dossier iraniano dovesse tornare d'attualità alla vigilia del voto a trarne vantaggio non sarebbe Al-Qaeda sta mancando i suoi obbiettivi strategici di fondo perché non è stata in grado di mettere radici profonde in nessun Paese del Medio Oriente, a differenza di quanto hanno saputo fare Hezbollah in Libano ed Hamas nei Territori. Il movimento qaedista, che deve la sua sopravvivenza ad internet, attraversa una crisi di leadership. I servizi segreti americani insistono sul fatto che bin Laden sia ancora in vita, ma è lecito dubitarne. Al-Qaeda colleziona fallimenti nel tentativo di mobilitare le masse. Già negli anni novanta l'estremismo islamico aveva sperimentato una lunga serie di insuccessi, allorché si impegnò a propagare il jihad in teatri conflittuali come Algeria, Egitto, Bosnia e Cecenia.

L'onda lunga delle sconfitte degli anni novanta aveva convinto il numero due di bin Laden, Ayman al-Zawahiri, a spostare , già nel 2001, il fuoco dell'azione qaedista “dal nemico vicino (i regimi arabi) al nemico lontano (Usa ed Israele).” La diversione tattica non ha tuttavia funzionato, ma il rincorrersi degli eventi ha concesso un'altra opportunità agli accoliti dei quella che è stata definita “l'internazionale del terrore”. Infatti, l'invasione anglo-americana dell'Iraq poteva costituire per al-Qaeda la tanto agognata chances di atteggiarsi ad avanguardia islamica in opposizione all'esercito “sionista-crociato” intenzionato a soggiogare l'intero mondo musulmano. Ma l'appuntamento con la Storia è stato mancato. Il terrorismo suicida, utilizzato come strumento di lotta anti-occidentale, ha finito per colpire prevalentemente la popolazione civile irachena, mentre l'organizzazione rimaneva ostaggio dei disegni egemonici dei sunniti iracheni, riluttanti a cedere il potere dopo diversi decenni alla maggioranza sciita.
Il turning point è rintracciabile nel febbraio 2006, allorché Abu Mussab al-Zarkawi, il luogotenente di bin Laden in Iraq, fece esplodere la cupola d'ora della mosche sciita di Samara, provocando una durissima reazione anti-sunnita, seguita da una spaccatura tra al-Qaeda ed l'estremismo sunnita iracheno. La controffensiva della maggioranza sciita ha frustrato definitivamente il progetto qaedista di trasformare l'Iraq nelle testa di ponte del jihad globale contro l'Occidente. La sconfitta epocale ha esacerbato il fazionalismo interno all'organizzazione terroristica, tuttora lacerata dalle dispute, che non risparmiano il leader in pectore al-Zawahiri. Se gli Usa non escono certo vincitori dal pantano iracheno, altrettanto può dirsi per al-Qaeda. L'unico beneficiario di cinque anni di guerra appare sempre più chiaramente l'Iran degli ayatollah.

Turchia
La Turchia non può contare sulle ingenti risorse petrolifere di altri Pesi dell'area. Paradossalmente, una fortuna. Le autorità non hanno così avuto la tentazione di tenere a bada la popolazione distribuendo le eccedenze della manna petrolifera, come è invece avvenuto nei Paesi del Golfo, ma la società è stata giocoforza coinvolta nella creazione della ricchezza. In Turchia si è così sviluppato un ceto imprenditoriale, esistono uomini d'affari e professionisti, il lavoro salariato ha una sua dignità. Tutti fattori che hanno sostenuto l'esperimento democratico turco, che può dirsi realizzato. Certo, non bisogna scordare che nel Partito di governo non mancano correnti minoritarie che vorrebbero intraprendere un processo di re-islamizzazione della società. Posizioni regolarmente, e duramente, stigmatizzate dai guardiani della laicità dello Stato, esercito e magistratura. Un conflitto sempre latente, spesso in procinto di esplodere. Il pericolo da molti avvertito è che un redde rationem tra governo da una parte e il binomia magistrati-esercito dall'altra finisca col riportare indietro di anni il processo di graduale emancipazione democratica vissuto dalla Turchia nel secondo dopoguerra. Emancipazione democratica che, è bene ripeterlo, moltissimi turchi identificano in questa fase con l'azione di governo di Tayyp Erdogan.






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