Sessanta anni fa la dichiarazione di indipendenza dello Stato di Israele. Le vittorie del passato, le sfide del futuro
Fabio Lucchini
Il 14 maggio 1948, David Ben Gurion proclamava la nascita dello Stato di Israele. Un parto travagliato, che aveva fatto seguito ad un periodo drammatico per la storia della regione, segnato dai contrasti tra il mondo arabo, i coloni israeliani e le potenze mandatarie. Dopo il rifiuto arabo del Piano di Spartizione Onu del 1947, la cui accettazione avrebbe forse evitato una mezza dozzina di guerre e decenni d'instabilità, e il ritiro delle forze britanniche, si apriva così una fase nuova in Medio Oriente. Il fallito tentativo di “gettare gli ebrei a mare”, esperito dalla Lega Araba durante il conflitto del 1948-49, ebbe come conseguenza l'espansione ed il rafforzamento del giovane Stato ebraico, da allora percepito dal mondo arabo come un'intollerabile eccezione nel Medio Oriente musulmano.
Un Paese, Israele, che sarebbe sopravvissuto a due decenni di guerre combattute direttamente contro l'Egitto, la Siria e la Giordania ed indirettamente contro l'intero mondo arabo, diviso tra il nasserismo ed il tradizionalismo saudita, ma unito nel desiderio di spazzare via lo sgradito vicino. Le grandi speranze laiciste e nazionalistiche arabe sarebbero state spazzate via dalla sconfitta nella Guerra dei Sei Giorni del 1967, il capolavoro tattico-strategico di Israele, un evento epocale e traumatico, che indusse anche i cosiddetti governi moderati filo-occidentali della regione ad abbandonare definitivamente il sogno di distruggere lo Stato ebraico. Di lì a poco sarebbe sorta una nuova minaccia per i regimi autocratici dell'area. Una minaccia più reale e concreta della presenza stessa di Israele, ossia il diffondersi dell'islamismo radicale, sia nella variante sciita, sorta dalle ceneri dell'Impero Persiano e dalla Rivoluzione degli ayatollah iraniani, sia in quella sunnita, legata agli insegnamenti delle scuole wahabite finanziate dall'Arabia Saudita ed alla predicazione dei Fratelli Musulmani egiziani
Le divisioni della Guerra Fredda hanno contribuito a creare diversi miti sul conto di Israele e dei suoi nemici. Lo Stato ebraico, propaggine del colonialismo occidentale sostenuta dagli Stati Uniti, è stato a lungo percepito come una potenza arrogante, dedita alle guerre preventive e colpevole dell'ingiustizia storica ai danni del popolo palestinese. Gli Stati arabi, in particolar modo Egitto e Siria, invece apparivano gli alfieri della suggestiva prospettiva panarabista, nelle vesti di agenti dell'emancipazione araba dall'imperialismo e di difensori (grazie al sostegno sovietico) dell'oppressa comunità palestinese. La realtà, depurata dai fumi di una competizione ideologica trapiantata a forza in Medio Oriente ed ormai definitivamente tramontata, si presenta oggi sotto una luce ben diversa.
Come è possibile infatti sottostimare le responsabilità storiche del mondo arabo e dei suoi governanti? Il loro desiderio di acquisire l'interezza dei territori che l'Onu avrebbe voluto spartire nel '47 tra israeliani e palestinesi scatenò il primo fatale conflitto arabo-israeliano, che, come detto, ebbe l'unica conseguenza di fortificare lo Stato ebraico e di frustrare le speranza dei palestinesi, poi sbrigativamente cacciati dalle loro terre conquistate da Tsahal. E che dire della continua strumentalizzazione della causa palestinese da parte dei governi del Cairo, Damasco, Baghad, Amman e Ryadh (solo per citarne alcuni) nei successivi sessant'anni? Anche qui la Guerra Fredda giocò un suo ruolo. Ogni ipotesi di unità araba per la riconquista della Palestina svanì presto a causa delle divisioni e delle rivalità tra i diversi governi, che ritennero di difendere meglio i propri interessi particolaristici schierandosi su fronti opposti: chi dalla parte di Washington (Arabia Saudita, Giordania, Egitto dal 1973), chi a fianco di Mosca (Egitto sino al 1973, Siria, Iraq).
E dunque, la minaccia esistenziale che accompagna Israele sin dalla sua fondazione ha ancora ragione di esistere? La superiorità militare israeliana e l'atteggiamento moderato di gran parte dei suoi vicini sono garanzie sufficienti per lo sopravvivenza dello Stato ebraico? Sarebbe sbagliato giungere a conclusioni affrettate ed univoche. La rincorsa di Iran e Siria al nucleare inquieta Gerusalemme, così come la crescente influenza di Hezbollah in Libano ed il forte insediamento di Hamas nei Territori palestinesi. D'altro canto, la situazione iraniana viene costantemente monitorata e Teheran è consapevole dei rischi cui andrebbe incontro se le sue azioni travalicassero l'arrogante retorica di Ahmadinejad. La Siria, dal canto suo, pare finalmente pronta ad intrecciare negoziati effettivi con lo Stato ebraico per risolvere il contenzioso sulle Alture del Golan. Infine, il fazionalismo palestinese, se pericoloso per la stabilità dell'area, potrebbe fare il gioco di Israele, pronto ad avvicinarsi sempre più alla postura moderata dell'Anp di Mahmud Abbas. Difficile prevedere perciò gli esiti delle dinamiche in corso.