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MCCAIN-OBAMA. LA SFIDA E’ LANCIATA

I due grandi Partiti serrano le fila e le differenze si radicalizzano. Hillary Clinton giura fedeltà al senatore dell’Illinois, il maverick Repubblicano si avvicina alle posizioni dell’amministrazione Bush in tema di sicurezza nazionale, economia ed energia

Data: 2008-06-25

Il destino di Hillary incuriosisce l'editorialista del New York Times Maureen Dowd. “Corrono voci che Barack Obama potrebbe, in caso di vittoria, nominare Hillary Clinton alla Corte Suprema.”, scrive. La necessità di ricollocare l'ex first lady arreca forse un po' di fastidio al senatore dell'Illinois, ma il sollievo di essersene liberato prima della Convention deve essere grande. Tuttavia, il fatto che Hillary sia uscita di scena nasconde dei risvolti negativi per Obama, nota Dowd. “Ora che la donna più odiata dai Repubblicani è fuori causa, essi potranno rivolgere le loro attenzioni alla moglie Michelle, già considerata. da molti conservatori e da qualche clintoniano istigato ad arte da Bill ed Hillary, una donna aggressiva ed anti-patriottica.” Lo stereotipo della femminista arrabbiata insomma. In effetti, la signora Obama sembra aver colto le nuove responsabilità legate al ruolo di “candidata first-lady” e si sta dando un gran daffare per addolcire la sua immagine. In una campagna presidenziale Usa qualsiasi dettaglio va curato.

Obama non si faccia comunque illusioni: la campagna presidenziale non esclude i colpi bassi e i Repubblicani non si tireranno indietro. Il senatore di Chicago ha già dovuto sacrificare uno dei suoi consulenti più esperti e navigati, un uomo che frequenta da almeno tre decadi gli ambienti del potere a Washington e che conosce i meccanismi politico-legali che permettono il funzionamento della macchina politica americana. James A. Johnson, ex manager della Fanny Mae, era un dei suoi collaboratori più apprezzati (dopo esserlo stato di John Kerry nel 2004), impegnato com'era nella selezione del candidato Democratico alla vice-presidenza. Tuttavia, il compromettente episodio della Countrywide aveva scatenato aspre polemiche sul suo conto sia da parte della stampa statunitense, che di John McCain, che dell'intero Partito Repubblicano. Le dimissioni di Johnson sono così apparse necessarie.

Il magazine quindicinale Fortune interpella i due candidati alla Casa Bianca in merito alle loro proposte in materia economica. La chiarezza e la persuasività dei piani economici che Obama e McCain saranno in grado di presentare all'elettorato potrebbero fare la differenza a novembre. Sebbene il rischio recessione paia al momento scongiurato, la crisi determinata dalla gestione spregiudicata dei mutui subprime e la sua pesante ricaduta sul mercato immobiliare hanno ingenerato un diffuso sentimento d'insicurezza nei risparmiatori americani. Le problematica gestione di un'economia indebolita rimane la questione centrale nella mente di molti americani. Le ricette dei due senatori si differenziano lungo le tradizionali linee che separano Democratici e Repubblicani. Maggiore regolamentazione del mercato dei capitali ed aumento del carico fiscale per i più abbienti da un lato (Obama), minor ruolo del governo federale e detassazione permanente dall'altro (McCain). L'attitudine di McCain rispetto al libero mercato si contrappone inoltre alla polemica di Obama nei confronti del trattato commerciale Nafta, concluso dall'amministrazione Clinton con Canada e Messico. Consci che la partita si giocherà al centro, entrambi appaiono peraltro pronti a fare concessioni ed attenti a non farsi condizionare da preconcetti ideologici.

Obama ha qualche problema con il mondo degli affari? A riascoltare i suoi discorsi durante le primarie Democratiche sembrerebbe proprio di sì. Fustigatore dei costumi corrotti del grande capitale americano, che ha accusato di operare al di fuori delle regole e di intascare enormi profitti alle spalle dei lavoratori, populista nel denunciare la perdita di posti di lavoro in America a causa degli accordi di libero commercio, Obama addolcisce tuttavia le sue posizioni. “In America la prosperità si è sempre sviluppata dal basso in alto”, sostiene Obama, ricordando di essere sempre stato a favore dell'economia di mercato e ribadendo di non voler intraprendere alcuna crociata contro l'imprenditoria. Egli considera altresì appropriata l'introduzione di correttivi per riequilibrare il bilancio tra la minoranza più fortunata della popolazione ed il resto del Paese. Aumenti nel salario base, maggiori investimenti federali nello sviluppo umano (sanità e istruzione), maggiori regolamentazioni e controlli nel mercato dei capitali e, appunto, uno spostamento della pressione fiscale dalle fasce deboli alle più ricche della popolazione, eliminando i tagli fiscali decisi da Bush a favore delle famiglie con un reddito annuo superiore ai 250.000 dollari. Obama sa tuttavia quanto sia complicato conquistare la Casa Bianca facendo la guerra alle corporations e, dopo aver virtualmente conseguito la nomination, sta mitigando la sua retorica, come dimostrano i suoi contatti con influenti capitani d'industria come Warren Buffet e Steve Jobs della Apple. Ugualmente preziosa la consulenza dell'ex direttore della Fed, Paul Volcker. Inoltre, mettendo a rischio il suo ottimo rapporto con i sindacati, Obama ha nominato il centrista Jason Furman, visto come il fumo negli occhi dai liberals, a capo del suo staff economico. Infine, sempre nel corso dell'illuminante chiacchierata con Fortune, il senatore dell'Illinois ammette implicitamente di aver calcato la mano sulla questione Nafta, in funzione anti-clintoniana.

McCain si mostra molto più riluttante del rivale quando gli si chiede di parlare di economia. Meno governo federale, meno tasse e nessuna diffidenza di fronte all'apertura commerciale dell'America. “Erigere barriere commerciali è quanto di peggio potremmo fare per il futuro dell'America.” Questa in sintesi la dottrina economica del candidato Repubblicano. Anche McCain, conquistata la nomination e consapevole della necessità di conquistare voti al centro, sta ammorbidendo le sue posizioni. In particolare, rispetto all'ostica tematica dell'apertura commerciale al mondo globalizzato, considerata dal mondo sindacale come la causa della perdita di milioni di posti di lavoro in America, McCain si mostra possibilista. Pur ribadendo la sua anima liberoscambista, egli prevede sussidi e sostegni ai “perdenti” della globalizzazione. Più complessa la questione fiscale. Dopo essersi opposto ai tagli dell'amministrazione Bush, salvo pentirsi proponendosi di renderli permanenti in caso di vittoria, ora precisa di voler procedere ad una contestuale riduzione della spesa pubblica. Distanziandosi in questo modo da Bush, che non si è mai impegnata sul punto. Insomma, come chiarisce il suo principale consulente economico Doug Holtz-Eakin, il senatore dell'Arizona intende continuare a “parlare chiaro”, ma con una maggiore attenzione al mood, all'umore, del Paese. Difendere le sue idee a dispetto degli indici di popolarità gli ha valso la fama di maverick rispettato da alleati ed avversari, ma gli è sicuramente costato politicamente in passato.

Prima dell'affaire Black, lo scontro sulla sicurezza nazionale era peraltro già tornato di stringente attualità. Continua infatti a far discutere negli Stati Uniti la decisione della Corte Suprema nel caso Boumediene vs Bush dello scorso 12 giugno. Il pronunciamento ha concesso ai detenuti di Guantanamo la possibilità di rivolgersi ad un tribunale per verificare i presupposti legali della propria detenzione nell'isola. Da una parte, i commenti positivi degli ambienti liberal, dall'altra le perplessità non solo dell'amministrazione Bush e del candidato Repubblicano alla presidenza John McCain, ma anche del Chief Justice, il presidente della Corte John Roberts, messo in minoranza. Per McCain la decisione Boumediene vs Bush è “una delle peggiori nella Storia del Paese.” Obama difende l'impostazione dei giudici su Guantanamo e ritiene che l'utilizzo del sistema di giustizia criminale sia il modo migliore per contrastare l'estremismo. Da parte loro, McCain ed il Partito del Presidente ritengono i mezzi propriamente militari i più idonei a combattere quella che considerano una vera guerra ed attaccano la “mentalità da 10 settembre” degli avversari politici.

Il senatore dell'Arizona sostiene il presidente e auspica una ripresa delle esplorazioni e delle trivellazioni per fronteggiare il caro petrolio con nuovo greggio americano, Obama e i Democratici del Congresso mantengono ferma la loro opposizione, con il senatore dell'Illinois pronto a fustigare gli speculatori che lucrano sull'aumento dei prezzi dell'oro nero. Entrambi ritengono la loro ricetta come la più idonea a tutelare la sicurezza, l'indipendenza energetica e l'equilibrio ambientale del Paese. L'atteggiamento ondivago di McCain sulla questione lascia perplessità sulla sua strategia complessiva e lo avvicina al tanto criticato approccio energetico dell'amministrazione uscente, che i Democrats sbeffeggiano con lo slogan “drill, drill, drill (scava, trivella)”. L'accusa di Obama agli speculatori si presta a varie interpretazioni e lascia qualche dubbio, in quanto diversi analisti ritengono che l'attività degli scommettitori finanziari non stia poi incidendo troppo sull'esplosione di prezzi dei carburanti.







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