PRESIDENZIALI USA. LA CORSA AL CENTRO
Obama tra idealismo e pragmatismo. McCain alla ricerca di maggiore visibilità
Fabio Lucchini
Tra le doti principali di un buon leader nazionale gli americani annoverano il patriottismo. E allora quale occasione migliore della ricorrenza del 4 luglio per riaffermare le proprie credenziali in materia? Non casualmente, Obama ha affrontato la questione ad Independence, in Missouri, allo scopo di dimostrare, ad una zona tendenzialmente Repubblicana del Paese, di possedere le credenziali da vero americano che i rivali lo accusano implicitamente di non avere. L'argomento è delicato ed il Grand Old Party ne ha fatto un punto centrale degli attacchi al senatore dell'Illinois, che accuserebbe un deficit di patriottismo soprattutto se paragonato all'eroe nazionale John McCain. “Brandire il patriottismo come una spada, o come uno scudo, è una tattica vecchia come la Storia della nostra Repubblica”, ha glissato Obama. Difficile contraddirlo, se è vero che agli albori della storia americana Thomas Jefferson e John Adams dovettero subire attacchi della stessa natura. Ad un buon americano non serve esibire simboli, bandiere e spille a stelle e strisce per dimostrare il proprio attaccamento al Paese. Questa la sintesi del pensiero di Obama, che, d'altro canto, non essendo un ingenuo, nella sua prima apparizione televisiva da candidato alla Casa Bianca ha parlato di “profonda ed incrollabile fede nel Paese che amo”. Dietro le spalle una ben visibile bandiera statunitense. Egli sa che i Repubblicani rivendicano la rappresentanza dello spirito nazionale e ritengono di non dover dimostrare alcunché in proposito. Diversamente, i Democrats hanno spesso pagato la percezione diffusa di una loro minor identificazione con l'interesse nazionale. Qualcuno direbbe il loro minor nazionalismo.
Il settimanale Time ha dedicato un approfondimento all'evoluzione del concetto di patriottismo nell'eredità culturale degli Stati Uniti. Tutti gli americani si ritengono grandi patrioti e vivono l'orgoglio della loro “eccezionalità.” Tuttavia, non tutti gli americani condividono la stessa idea di cosa sia il patriottismo, scrive Richard Stengel. Convivono infatti due definizioni dell'American exceptionalism: vi è una corrente di pensiero che guarda al passato, rintracciando la grandezza della Nazione nella sua eroica genesi e negli stupefacenti risultati ottenuti; vi è poi chi proietta nel futuro lo spirito, i valori e gli ideali che hanno forgiato l'America e si augura che essi servano a nuove grandi conquiste. In entrambe le tesi ritroviamo il carattere americano cui si richiamano quanti fanno appello al patriottismo, genuinamente o per propaganda politica. Le traiettorie umane e professionali che hanno condotto Obama e McCain a sfidarsi per la Casa Bianca sembrano cogliere diversi elementi che concorrono a definire ed a specificare la nozione di American Dream. L'afro-americano, figlio di una madre single e vissuto all'estero prima di tornare in patria. L'eroe di guerra, profondamente legato ai valori fondativi della Nazione, che ha speso una vita al servizio del suo Paese. Entrambe sono storie americane. Perché voler stabilire delle gerarchie? E' tempo di conciliare le due versioni dell'American exceptionalism, e guardare ad una terza via al patriottismo. Consapevole della grandezza unica del Paese e di quello che è riuscito ad ottenere, ma ineluttabilmente orientata al futuro ed a quanto di grande vi è ancora da realizzare.
Se il popolare settimanale sostiene lo sforzo operato da Obama per vincere le resistenze di ampi settori dell'elettorato americano rispetto alle sue credenziali di leader nazionale, la stampa conservatrice si impegna a smascherare la virata strategica in senso moderato del junior senator e l'inconsistenza delle sue proposte politiche. Particolarmente attivi il Weekly Standard ed il Wall Street Journal.
Obama è davvero un politico accorto ed intelligente, che sta tentando di minimizzare il più possibile le sue debolezze, riconosce un editoriale dello Standard. Obama preferisce essere tacciato da McCain come un flip-flopper (una banderuola) piuttosto che come un liberal, terrorizzato che una simile etichetta lo condanni alla sconfitta. Inoltre, il candidato Democratico sta utilizzando una tattica scaltra per adeguare, più o meno genuinamente, le sue posizioni a ciò che pensa la “maggioranza silenziosa.” Illuminante il suo atteggiamento sull'Iraq. Preso atto dei miglioramenti della situazione sul campo, ha dichiarato che si consulterà con i generali prima di ordinare il tanto promesso ritiro delle truppe americane. L'esigenza di mantenere “la stabilità” in Iraq sarà tenuta in considerazione dal presidente Obama. Un'affermazione alquanto vaga, come le ultime uscite “centriste” del senatore dell'Illinois sulle questioni più disparate, quali associazionismo religioso, possesso di armi da fuoco, aborto e via di seguito. Restare sul vago e, al limite, smentire. Continua così la corte di Obama ai settori conservatori della società ed agli Stati di tradizionale fede Repubblicana.
Oltre alle critiche degli avversari politici, al candidato Democratico tocca fronteggiare un'inattesa ribellione da parte di quella stessa“blogosfera” liberal e progressista che gli ha consentito di conquistare la nomination Democratica. Al popolo di internet, riporta Usa Today, non sono piaciute alcune prese di posizione recentemente espresse dal candidato Democratico. Nel dettaglio, Obama ha criticato la decisione della Corte Suprema di escludere la pena di morte per chi si fosse macchiato del reato di stupro nei confronti di minori, mentre non si è opposto alla eliminazione del bando sul possesso delle armi da fuoco. Inoltre, il junior senator ha annunciato un piano per sostenere l'associazionismo religioso attivo nel lavoro sociale ed ha dichiarato di esser pronto a votare una norma che dia l'immunità alle compagnie telefoniche accusate di aver permesso l'intercettazione delle chiamate dei loro clienti. Ben 12.000 utenti di internet hanno protestato sul sito del senatore, capeggiati da uno studente universitario della Virginia che ha plasticamente commentato: “Un candidato che vuole spostarsi al centro non dovrebbe tuttavia allontanarsi da noi.” Arianna Huffington, fondatrice dell'omonimo blog liberale, invita Obama a non seguire la fallimentare deriva centrista di Kerry nel 2004. “Egli deve continuare ad attrarre verso le urne i milioni di americani che non avevano mai votato prima della sua candidatura alle primarie. Deve appellarsi agli 83 milioni di persone che non hanno votato quattro anni fa.”
La comparsa di Obama sembra un punto di rottura rispetto all'inesorabile processo di “secolarizzazione” della politica, la perdita di quella spinta ideale che aveva caratterizzato la stagione d'oro del liberalismo americano negli anni sessanta. Sotto questo profilo, nonostante le contingenze politiche lo costringano a parlare un linguaggio più moderato ed accorto rispetto a qualche mese fa, il candidato Democrat ha compreso l'esigenza di una sorta di ritorno al passato. Innanzi tutto a livello simbolico. Per questo motivo accetterà la nomination Democratica il 28 agosto davanti a 75.000 persone nello stadio di Denver. Il 28 agosto di 45 anni fa, Martin Luther King pronunciava a Washington il suo sermone più famoso (“I have a Dream…”). Inoltre, era dai tempi del conferimento della nomination a John Fitzgerald Kennedy che il discorso d'accettazione del candidato non veniva pronunciato davanti ad una folla tanto vasta.
Obama, insomma, non nasconde la sua rincorsa al mito, ma confrontarsi con un passato tanto idealizzato potrebbe essere veramente rischioso e tramutarsi in un boomerang, ammonisce l'arguto columnist di Newsweek, Jonathan Alterman. Il giovane candidato Democrat, con spirito bipartisan, apprezza anche il paragone con Abraham Lincoln. Ma la sostanza non cambia. Le ombre ed i difetti di tutti questi grandi personaggi si sono persi nelle nebbie della memoria. Nessuno di loro fu perfetto, ma chi lo ricorda? Certo, Obama spera di evocare nei giovani la speranza di rinnovare con la sua elezione un'epopea eroica della politica americana, un periodo che essi non hanno potuto vivere. A patto che egli sia consapevole dell'enormità delle attese che suscita così facendo. Per rimanere all'archeologia politica, al candidato Democrat potrebbe tornare utile ripescare il suggerimento che Eleanor Roosevelt, vedova del presidente del New Deal (a proposito di visioni grandiose!), diede al giovane Jfk nel 1960: “un profilo più basso, un po' più di coraggio.”
La retorica obamiana rimanda alla capacità della politica, di un politico, di infondere nella società americana un nuovo interesse per il bene della comunità nazionale. Operazione difficile perché dovrebbe scardinare non solo i principi costituzionali stabiliti dai Padri Fondatori, improntati all'individualismo e alla tutela delle libertà individuali, ma anche alcuni fondamenti immutabili della natura umana, votata all'egoismo. Obama si impegna nella titanica impresa abbandonando lo stile degli uomini carismatici del passato e preferendo piuttosto una postura tranquillizzante. Egli punta sull'empatia e non sull'autorità, sui toni concilianti e non sulle uscite roboanti, su un atteggiamento neutro e non sull'assertività testosteronica che molti si aspetterebbero da un leader dotato di grande personalità. Tuttavia, il grande rischio che si cela dietro questa promessa di rigenerazione è la disillusione. Da questo particolare punto di osservazione, il più grosso pericolo che corre Obama non sembrerebbe essere la sconfitta a novembre, ma piuttosto la delusione della gente in caso di vittoria.
Tutto ciò conferma una sensazione, scrive Richard Baher. Per vincere il senatore dell'Arizona deve focalizzare la campagna elettorale sul confronto tra le due personalità, su chi sono i due candidati, su cosa hanno realizzato, e su quale messaggio essi inviano agli americani. Apparentemente è una tattica perdente: Obama è fresco e frizzante, è la novità; McCain deve portare il fardello dell'amministrazione Bush ed è “troppo vecchio.” Ma , a ben guardare, non c'è paragone. Obama non ha esperienza e dei suoi brevi anni in Senato non rimane sostanzialmente traccia. E' ideologizzato. Ciò gli impedisce di valutare il successo del surge in Iraq e di intuire la minaccia estremista in Medio Oriente (come potrà essere il nuovo Comandante in capo?), lo convince ad opporsi a nuove trivellazioni ed al nucleare (come pensa di garantire l'autosufficienza energetica all'America?) e lo induce a promettere più tasse, più redistribuzione e più sanità pubblica (come pensa di sostenere il sistema?). Gli americani non possono essere d'accordo. La proposta di McCain è meno dogmatica. Del resto, egli è un indipendente, più lontano da Bush di quanto Obama lo sia dal radicalismo di sinistra. Le idee del senatore dell'Arizona in tema di politica estera, energia ed economia sono migliori e, se analizzate con raziocinio, garantiscono un futuro più tranquillo al Paese rispetto alle vaghe e mirabolanti suggestioni del “grande comunicatore” di Chicago. Inoltre, continua Baher, è interessante passare in rassegna il capitolo vice-presidente. I migliori nomi del novero Democratico, il senatore della Virginia, Jim Webb, l'ex governatore della Virginia, Mark Warner e l'attuale governatore dell'Ohio, Ted Strickland, si sono già chiamati fuori, mentre McCain ha ancora a disposizione una vasta gamma di scelte che potrebbero valorizzare ulteriormente la sua candidatura.
Il tempo dirà se il team di McCain riuscirà a presentare un'immagine più attraente del candidato Repubblicano, anche se la gran parte dei problemi che incidono sulle chances del Gop di mantenere la Casa Bianca e di reggere alle prossime elezioni congressuali di medio termine hanno poco a che fare con la comunicazione e la telegenicità del veterano del Vietnam. Il Partito soffre da due anni uno scollamento con una parte rilevante della sua base elettorale, quella maggioranza silenziosa che gli ha consentito di assurgere, dal 1968 in poi, al ruolo di Partito Nazionale. L'umore della working class è emblematico al riguardo.