L’aumento globale dell’inflazione è un fenomeno preoccupante e le difficoltà a farvi fronte variano grandemente da paese a paese, rendendo ancor più complessi gli sforzi a contenerla
Andrea Fracasso, nelMerito.comL'aumento globale dell'inflazione è un fenomeno preoccupante e le difficoltà a farvi fronte variano grandemente da paese a paese, rendendo ancor più complessi gli sforzi a contenerla. Giusto un anno fa il mondo è tornato a scoprire la forza delle grandi crisi finanziarie nate nel centro del sistema finanziario internazionale. L'epoca delle riscoperte, tuttavia, non sembra essersi ancora conclusa. In questi ultimi mesi è infatti tornato a galla lo spettro dell'alta inflazione, un fenomeno dato quasi per estinto solo pochi anni fa.
Un fenomeno appartenente al passato, si pensava, legato a banche centrali inclini a soddisfare il fabbisogno finanziario dei governi, ad autorità fiscali incapaci di raccogliere denaro tramite un adeguato sistema di imposizione fiscale, a sistemi produttivi drogati da una sostenuta e continuativa crescita dei prezzi e da ripetute svalutazioni del cambio, a perversi meccanismi di indicizzazione dei salari che (pur con il legittimo obiettivo di sostenere il potere di acquisto dei lavoratori) contribuivano alla creazione di complesse spirali costi-prezzi. Con la risoluzione di questi problemi, tramite l'attribuzione di maggiore indipendenza alle banche centrali, l'adozione di nuove forme di politica monetaria (inflation targeting) e l'attuazione di una certa moderazione salariale, l'alta inflazione era spacciata.
Oggi il mondo sviluppato è tornato a scoprire il fenomeno. Eppure nessuna dei fattori citati in precedenza è tornato a verificarsi. L'alta inflazione dei giorni nostri, infatti, è dovuta essenzialmente alla crescita globale dei prezzi delle materie prime e dei prodotti alimentari. Quest'ultima, a sua volta, dipende dal forte sviluppo delle economie emergenti, dalla presenza di storture che impediscono all'offerta di alcuni beni di crescere al pari della domanda, dalle politiche distorsive messe in atto dai governi in molti settori (si pensi alle agevolazioni sul consumo dei carburanti, ai sussidi alla produzione di biocombustibili, alle politiche agricole protezioniste, alla struttura oligopolistica di molti settori), da una politica monetaria statunitense molto generosa (volta al sostegno delle attività finanziarie e del settore edilizio, ma anche complice di una crescita dei consumi finanziati col debito), dalla politica del cambio di molte economie emergenti e infine da una certa (sebbene imprecisata) dose di speculazione finanziaria. Il risultato di questo insieme di fenomeni è una crescita importante dell'inflazione dei prezzi alla produzione e al consumo, tanto nei paesi avanzati quanto in quelli emergenti.
Alcuni sostengono che l'inflazione da costi che abbiamo osservato finora possa costituire un fenomeno transitorio. Ciò è possibile. Il pericolo è che la perdita del potere di acquisto dei lavoratori e la compressione dei margini di profitto delle imprese possano innescare una serie di aumenti dei prezzi (second round) che spingano progressivamente al rialzo le aspettative di inflazione dei cittadini. Le banche centrali di mezzo mondo si trovano così oggi di fronte alla sfida di soffocare l'inflazione (e le aspettative di inflazione) e, al contempo, di evitare una forte contrazione della crescita.
Sebbene quasi tutti i paesi siano di fronte al problema dell'alta inflazione globale, le sfide e i rischi ad essa legati sono differenziati da paese a paese.
Negli Stati Uniti la banca centrale è di fronte a un dilemma; la necessità di rallentare la crescita dei prezzi si scontra con quella di proteggere l'economia dagli effetti negativi della crisi finanziaria dei subprime, del crollo dei prezzi delle abitazioni e della contrazione della ricchezza netta di molti cittadini e imprese. L'avvicinarsi della stagione elettorale, i rischi di recessione e di grave crisi del sistema bancario, la forte influenza di Wall Street sulla Fed e il difficile avvicendamento all'interno del FOMC della Fed rendono poco probabile un rapido e deciso aumento dei tassi che rimangano, in termini reali, in territorio negativo.
In Europa, le preoccupazioni sono simili, ma complicate dalla grande eterogeneità interna all'area euro in termini di inflazione, di crescita del prodotto interno lordo e di esposizione del settore bancario al rischio. Un tasso di cambio forte per l'euro, utile sia a contenere l'inflazione importata (alla luce del fatto che molte commodities sono ancora scambiate in dollari sui mercati internazionali) sia a ridurre le global imbalances, richiede che i tassi di interesse europei rimangano stabilmente superiori a quelli americani. Ciò penalizza le imprese e le famiglie, in particolare se detentori di debiti a tasso variabile. Alti tassi di interesse e cambio forte penalizzano inoltre gli esportatori europei, e in particolar modo quelli che soffrono maggiormente dell'aumento dei prezzi delle materie prime.
E' nei paesi in via di sviluppo (pvs), tuttavia, che l'inflazione rischia di fare danni maggiori. Le ragioni sono essenzialmente tre e variano di importanza nei singoli paesi a seconda della struttura economica e della politica interna di ciascuno. In primo luogo la crescita dei prezzi dei beni agricoli si fa sentire in modo particolarmente forte a causa del peso relativamente grande che questi hanno nel paniere dei beni al consumo; lo stesso accade per i costi dei prodotti energetici che pesano su sistemi produttivi caratterizzati da scarsa efficienza energetica. In secondo luogo, molti pvs cercano di controllare la stabilità dei prezzi attraverso un complesso mix di interventi monetari classici, di incentivi economici (alla produzione, al commercio e al consumo), e di controverse decisioni amministrative (come la definizione per via amministrativa del prezzo del carburante e di alcuni beni alimentari). Questa strategia mista è poco efficace e difficilmente sostenibile date l'ampiezza e la rapidità dell'aumento dei prezzi delle materie prime e dei prodotti alimentari. Ciò è reso evidente dalle proteste sorte in molti paesi sia contro l'aumento del costo della vita sia contro le misure prese dalle autorità per contrastarlo. In terzo luogo, molti pvs non dispongono di istituzioni monetarie solide e indipendenti. Queste possono essere messe in difficoltà sia da (comprensibili) proteste popolari per la perdita di potere di acquisto, sia da comportamenti inflativi intrapresi da parte dei governi locali e regionali.
In Cina, dove l'inflazione è dovuta sia alla crescita dei prezzi internazionali delle commodities sia al travolgente sviluppo interno, il governo ha aumentato i prezzi amministrati di molti beni, mentre la banca centrale ha alzato i tassi di interesse e i coefficienti di riserva obbligatoria (16 volte da gennaio 2007) delle banche commerciali per cercare di contenere l'aumento del credito interno. Ciononostante gli investimenti restano elevati e i tassi reali di interesse molto bassi. Questo mostra i limiti della politica del cambio cinese che genera inflazione, aumenta i costi (scaricati in gran parte sulle banche commerciali) legati alla sterilizzazione delle riserve valutarie (arrivate a 1.800 miliardi di dollari secondo le stime più conservative) e impedisce un efficace controllo dell'evoluzione della massa monetaria e del credito. A questo punto anche le autorità cinesi si trovano di fronte a un dilemma. La rivalutazione nominale del cambio, che sarebbe utile a raffreddare l'economia e permetterebbe di aumentare i tassi di interesse interni, potrebbe sommarsi alla rivalutazione reale dovuta all'inflazione interna. Inoltre, interessi più alti, cambio rivalutato e ulteriori aspettative di rivalutazione porterebbero maggiori flussi di hot money, minori investimenti e esportazioni: ciò ridurrebbe il tasso di crescita cinese ed esporrebbe le banche locali a ulteriori forti tensioni. Una simile eventualità potrebbe causare forti contrasti anche a livello internazionale.
In molti nuovi membri dell'UE, l'alta inflazione, a differenza che in Cina, è accompagnata da ampi disavanzi commerciali con l'estero e da tassi di cambio nominale in crescita. La situazione è aggravata dalla ripresa dei flussi speculativi del carry-trade che interessano Polonia, Ungheria, Romania e i paesi Baltici. Questi fenomeni sono seri e rischiano di allontanare l'eventuale adozione dell'euro da parte di questi paesi, con i conseguenti riflessi economici, politici e sociali che ciò può avere. Vi è la possibilità che i governi di alcuni paesi possano scegliere la via della svalutazione nominale per far fronte a disavanzi correnti, aggravati dalla perdita di competitività legata al rafforzamento di tassi di cambio reali. Questa eventualità, che i mercati sembrano oggi ignorare, potrebbe generare delle crisi valutarie simili a quelle registrate in passato. Se ciò dovesse accadere l'Europa rivivrebbe i momenti bui del 1992 e una spirale inflazione-svalutazione-inflazione potrebbe interessare le economie di questi paesi.
Più in generale, altri rischi gravano sui pvs a elevata inflazione. In primo luogo è possibile che vi sia una recrudescenza della povertà e un ampliamento delle disuguaglianze a causa della natura peculiare del fenomeno inflazionistico dei nostri giorni. Preoccupazione in tal senso è stata espressa dalla FAO, dal WFP e dalla Banca Mondiale. In secondo luogo, è probabile che l'aumento dei tassi di interesse nazionali e internazionali renda più pesante il servizio del debito pubblico, accresciutosi ampliamente in questi ultimi anni caratterizzati da abbondante liquidità internazionale e da spread contenuti.
Tra gli effetti diretti e indiretti della crescita dell'inflazione, infine, rimangono da segnalare l'aumento della volatilità macroeconomica internazionale (foriera di conseguenze negative per la crescita) e l'inasprirsi delle difficoltà a portare a termine gli accordi multilaterali del Doha Round. Sebbene non tutti abbiano a cuore quest'ultima questione, è chiaro che un fallimento delle più avanzate trattative multilaterali oggi in corso potrebbe avere pesanti contraccolpi sul sistema politico internazionale. In un momento in cui l'Europa si arena sul no irlandese e sulle bizze polacche e ceche, gli USA entrano nella delicata fase di transizione che concluderà il problematico ciclo Bush e l'Africa viene fortemente contesa da Europa, Cina, India e Stati Uniti, le conseguenze politiche di un (ulteriore) fallimento del Doha round potrebbero essere non trascurabili.