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SOLZHENITSYN E IL SILENZIO DEL QUIRINALE

La sinistra italiana e le tardive parole di autocritica dopo la morte del grande scrittore e dissidente russo, l"homme du siecle", per R. Aron

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Carlo Ripa di Meana

Quando nella primavera del 1977 scrissi a Solzhenitsyn, che viveva esule appena da qualche anno a Cavendish nel Vermont, in un grande bosco lungo la costa orientale atlantica degli Stati Uniti, per invitarlo alla Biennale del Dissenso, sapevo bene che non sarebbe potuto venire a Venezia, per mille ragioni. Tuttavia, speravo che ci fosse un suo messaggio, un segnale per un'impresa che si annunciava molto difficile e molto contrastata per l'inverno, 15 novembre-15 dicembre 1977. E il segnale arrivò. Me lo portò Andrej Amalrik con queste parole: “L'iniziativa della Biennale è giusta e va sostenuta. Attenzione, però, che una parte del Dissenso perde ancora tempo con l'ipotesi che più comunismo è quello che serve per uscire dalla crisi dell'Unione Sovietica. Vi è anche una corrente che suggerisce una convergenza, una lenta fuoriuscita dall'impianto del sistema comunista, con un avvicinamento a quello capitalista. E se le loro opinioni dovessero prevalere, l'iniziativa di Venezia sarebbe un'occasione perduta”. Così mi riassunse Amalrik.

Solzhenitsyn pensava, per la prima tendenza, al Dissenso di ispirazione comunista-leninista dei fratelli Medvedev, Roy e Žoresh, e per la seconda alla corrente liberale democratica guidata dal fisico Andrej Sacharov.
A Venezia prevalse l'analisi radicale, quella che il filosofo polacco esule in Gran Bretagna Leszek Kolakowski chiuse nella sintesi “Il verme è nel frutto”, risalendo, appunto, oltre Stalin, al leninismo e al marxismo. Venezia fu così la sola, grande, documentatissima denuncia del totalitarismo comunista che ormai da lunghi decenni non solo era al potere nei paesi comunisti di mezza Europa e in altri continenti, ma disponeva in molti paesi europei occidentali, particolarmente in Italia, di una comprensione e spesso di un aperto consenso, frutto della politica del PCI, il più importante partito comunista dell'Europa occidentale, e penetrato poi nella scuola, nelle Università, nell'Editoria, nei giornali, tra gli scrittori, i cineasti, gli scienziati e gli artisti delle arti visive. Il paese, il nostro, in cui per altri dodici anni dopo la Biennale, si cercò in ogni modo di mitigare, ma non di abbandonare, il pregiudizio favorevole in cui indugiava con imbarazzo e una certa pigrizia l'Italia ufficiale.

Questa condizione di reticenza è stata negli ultimissimi anni indagata con il lavoro di nuovi giovani storici, Paolo Sensini, Magda Martini, Cecilia Angelucci, Francesco Caccamo e Marco Clementi. Tuttavia, il libro indispensabile di Cecilia Angelucci, pronto da oltre due anni, dall'estate del 2006,  L'Italia di fronte al Dissenso sovietico. Il “Caso Solženičyn”, non è stato ancora pubblicato dall'editore romano, che pure ne ha la disponibilità.
In morte di Aleksandr Solzhenitsyn, in questi primi giorni vi sono state delle uscite giornalistiche, esaurienti per le informazioni e le riflessioni letterarie e critiche. Tra queste quelle dello slavista Cesare De Michelis, di Massimiliano Di Pasquale, di Giuseppe Ghini. Un commento di Vittorio Strada che celebra lo scrittore e condanna il pensatore. E anche riflessioni politiche che, finalmente abbastanza esplicite, la dicono lunga su questa damnatio memorie, in cui in Italia si è, con calcolo, tenuto l'autore di Arcipelago Gulag, che Raymond Aron giudicò “l'homme du siècle”. Segnalo al lettore in particolare due testi e un silenzio.

Il primo testo è un articolo di Umberto Ranieri pubblicato sul Riformista, il 5 agosto 2008, dal titolo La sinistra non ha capito Solzhenitsyn, intriso, questo testo, da una sofferta autocritica implicita, in cui Ranieri non solo rende l'onore delle armi, ma riconosce la forza di Solzhenitsyn, anche nella fase successiva al rientro in Russia, nel 1994, con la sua critica al consumismo occidentale che nell'era di Yeltsin ha portato la Russia a una condizione di degenerazione spirituale nella selvaggia rincorsa di potere e affarismo. E Umberto Ranieri riconosce che anche “su questo non aveva torto”.

Il secondo testo. Adriano Sofri, il 6 agosto, con un testo particolarmente interessante su Repubblica, La sinistra italiana e il fantasma del Gulag, con un'amplissima ricostruzione documentaria che parte dal Partito Comunista Italiano, e poi sosta a lungo nel territorio della nuova sinistra, che sul Dissenso sovietico ebbe la posizione “non è affar nostro”, e raggiunge, con spirito di verità, il ruolo prezioso che le Associazioni e le riviste cattoliche, Russia Cristiana, Comunione e Liberazione, Jaka book, svolsero con tenacia apostolica in mezzo alla cultura italiana ostile e denigratoria. Da Carlo Cassola fino a Umberto Eco (con l'eccezione di uno scritto tutto a gloria di Solzhenitsyn di Carlo Bo, il più grande critico e saggista italiano e cattolico di quel decennio), che arriva a definire Aleksandr Solzhenitsyn un nipotino del conservatorismo bigotto e repressivo del torvo antenato reazionario Joseph de Maistre, il diplomatico piemontese dell'ottocento, nel tempo della sua missione alla corte zarista di San Pietroburgo, “il grande savoiardo, il padre del pessimismo reazionario cattolico e legittimista”.

Il
silenzio. Avevo sommessamente suggerito, qualche mese fa, al Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, che nel 1974, allora responsabile della cultura del PCI, su Rinascita prima e poi su l'Unità, aveva rumorosamente applaudito con un testo unico all'esilio comminato a Solzhenitsyn che, va ricordato, aveva già passato otto anni nel Gulag nell'immediato dopoguerra, che in una prossima occasione, o in forma privata o nel corso di una visita di Stato, chiedesse un incontro a Solzhenitsyn, ormai molto in là con gli anni e malato, per chiudere una pagina nera. Così non è stato. In questi ultimi giorni, mentre in tutto il mondo si sono ascoltate voci di statisti, di rimpianto e di riconoscenza per la grandezza di quest'uomo e della sua vita, da Roma–Quirinale è venuto un silenzio arido, privo di umanità. Fausto Carioti di Libero lo ha giustamente segnalato il 5 agosto sul suo giornale.

Ultima considerazione. Aleksandr Solzhenitsyn è apparso, sin dal suo racconto Una giornata di Ivan Denisovic, diversissimo dagli scrittori estranei al rito sovietico, Boris Pasternak con Il Dottor Živago, Victor Nekrasov con Nella città natale, Vladimir Dudintzev con Non si vive di solo pane, e più tardi Andrej Sinjavskij, Julij Daniel', e poi tutti i nomi riportati dagli annali del dissenso letterario. Tanti autori, anche grandi, che in qualche modo hanno dovuto fare i conti con il regime e le sue espressioni corporative, l'Unione degli scrittori, le Case editrici, il KGB, rimanendo voci alternative. In fondo variazioni critiche su uno spartito inamovibile. Solzhenitsyn è stato qualcosa di diverso. Ha guardato dall'alto e non si è consumato nella contestazione. Ha solo, in nome delle sue idee di base, la grande campagna russa e la millenaria società rurale del suo paese, la tradizione letteraria spirituale, i principi sulla misura delle cose, sulla peculiarità della Russia, guardato con la distanza dei secoli quello che accadeva nel tumulto del secolo breve, con le sue ideologie, con le promesse sociali, e le contrapposizioni delle classi. La sua fronte era segnata da una profonda ferita al cranio, una cicatrice lunga e diagonale, che aveva da quando, capitano di artiglieria nella guerra patriottica, fu centrato da una scheggia di obice della Wermacht all'assalto della sua postazione. Intendo dire che solo Solzhenitsyn riuscì a riportare al suo posto il tempo a termine del comunismo, qualcosa che non poteva essere comparato ai valori e ai significati, per lo scrittore, molto più antichi e ancora del tutto presenti nella vita profonda del suo popolo. Questa superiorità nel tempo e nella instancabile ricerca segna la sua grandezza, la sua presa sugli altri, il suo calco sui lettori.

Ma in Italia i suoi lettori sono stati pochi, la sua complessità è stata subito classificata con il gergo effimero tratto dalla denigrazione politica “antisionista, nazionalista, oscurantista, menscevico, conservatore nostalgico”. E così ancora in questi ultimi giorni è risuonato questo rancore mediocre in molti testi apparsi sulle pubblicazioni, come Il Manifesto, che sono in collegamento diretto con il lungo ostracismo di cui ho appena scritto.

Rimane, a conferma della sua libertà di giudizio e sulla sua instancabile ricognizione nel tempo e nell'anima degli uomini, il discorso ad Harvard negli anni ancora dell'esilio, quando esortò a contrastare la società totalitaria comunista e insieme giudicò con estraneità e allarme la dilagante regola occidentale della società dei consumi e del benessere individuale.
Come in altri momenti della storia, una voce solitaria è riuscita a separare quello che conta e vale nel tempo dall'effimero. In Italia Solzhenitsyn non è stato amato dai più, a differenza della Francia, della Polonia, degli Stati Uniti, di mezzo mondo che sul caso di Solzhenitsyn, del Gulag e delle sue idee hanno visto crollare, per esempio, le presuntuose certezze di Jean-Paul Sartre e di tutto il filosovietismo acritico. È giunta in Italia, finalmente, la resa dei conti, come dice Adriano Sofri. Trovo giusto, a questo punto, segnalare sempre al lettore che la Critica Sociale e la Fondazione Craxi si sono impegnate con grande anticipo sulle tardive parole di autocritica di tanti che fanno capolino da qualche giorno con le loro ricerche e documentazioni, chiare e inedite come quella che questa rivista ha fornito nel numero precedente. A loro il merito di aver aperto la strada applicando il precetto della sua lunga vicenda umana, “uscire dalla menzogna”.                                      






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