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DOSSIER RUSSIA 5/ RUSSIA-EUROPA, INTERESSI IN COMUNE, VALORI FORSE

Russi ed europei hanno un Dna compatibile. E tuttavia quel patrimonio genetico ha già portato Russia ed Europa in passato a scegliere sentieri alternativi

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Simona Bonfante

“Per l'Europa e la Russia, il peggio sarebbe che l'una cercasse di dominare l'altra. Ma un approccio strettamente pragmatico sarebbe anch'esso improduttivo. Vivere sullo stesso continente, approfondire l'interdipendenza senza condividere gli stessi valori è impossibile. C'è una sola soluzione realistica, l'integrazione delle rispettive élites, nell'osservanza delle regole fissate nelle costituzioni nazionali e negli accordi europei.”

Mikhaïl Khodorkovski - cui si devono le considerazioni testé esposte – sa bene che le regole di Mosca non sono quelle del mondo occidentale e sa che, in fatto di principi, quello che per l'Occidente è un valore innegoziabile – il rispetto dei Diritti Umani – in Russia vale non più di un'opinione. Tuttavia, l'ex magnate della Iukos, che da sei anni sconta in Siberia la non osservanza delle convenzioni nell'autocrazia moscovita, è convinto che la Russia “non abbia l'autoritarismo nel suo codice genetico”  e che, pur nella tensione tra “pulsioni centrifughe” e “centralizzazione eccessiva”, il paese sia “essenzialmente europeo, per spirito e per tradizione, con una popolazione istruita, capace di assorbire le nuove esperienze.”
Un paese, dunque, destinato a riconnettersi con la sua identità profonda, ovvero a maturare l'idea che la sola forma politico-istituzionale possibile, sia lo Stato costituzionale democratico, liberale, in una parola: occidentale.

La Russia – osserva Khodorkovski – sta attraversando una fase di consolidamento dello Stato-nazione, o meglio di metabolizzazione della fine dell'Impero e di costruzione della dimensione statuale. Un processo, questo, che l'Europa ha anch'essa conosciuto e risolto con la fine della Prima Guerra Mondiale. Ora, se nell'Europa di un secolo fa il disgregamento degli Imperi portò ad un relativamente veloce e stabilizzante processo di nation-building, nella Russia di oggi possono leggersi i segnali di un analogo processo di trasformazione verso la stabilizzazione dello Stato-Nazione. Quando quel giorno arriverà, profetizza Khodorkovski, Europa e Russia non si troveranno insieme “a causa del gas”, ma di quei “valori comuni” che avranno permesso di fondare insieme un nuovo “sistema di sicurezza comune”.

La dottrina Khodorkovski è certo suggestiva. Come negare, infatti, che l'universo culturale russo – con la sua tradizione artistica, la sua letteratura, il suo cinema e persino parte del suo pensiero politico - occupi da sempre uno spazio niente affatto trascurabile del patrimonio occidentale, e che su tale affinità di sentire possa – se non addirittura debba – costruirsi un futuro di cooperazione, tra Ovest ed Est europeo, fondato sul rispetto di valori condivisi ed il perseguimento di interessi nazionali convergenti?

Russi ed europei hanno un Dna compatibile, se non perfettamente identico. E tuttavia quel patrimonio genetico, pur così compatibile, ha già portato Russia ed Europa in passato a scegliere sentieri alternativi. È possibile escludere che questa separazione di destini non si verifichi di nuovo? Che la Russia, avviata da Vladimir Putin sul viale dello sciovinismo imperiale, non finisca con il ripercorrere la strada della contrapposizione a quella, certo ben più auspicabile, della comune integrazione?

Dobbiamo pensare che la Russia della quale parliamo è quella che, in poche ore, l'8 agosto, con l'occupazione militare della Georgia, è riuscita a sconvolgere la stabilità del pianeta, e ad aprire scenari di crisi – dal Medio Oriente all'America latina - di cui è difficile prevedere la potenziale distruttività.
Questa instabilità non fa affatto gli interessi di Mosca. Anzi. La crisi finanziaria seguita alla guerra in Georgia, che neppure le autorità russe hanno il potere di gestire, non può certo annoverarsi tra i successi della campagna caucasica. Anzi, non si fa più mistero nei corridoi del potere moscovita, quale disappunto abbia creato nell'establishment economico nazionale l'imprudenza con cui Primo Ministro e Presidente hanno deciso di sfidare il “sistema occidentale”, come dei cow-boys nel selvaggio west, sottostimando le conseguenze del sistema liberale internazionale, ovvero la punizione dei mercati.

Di quali “valori comuni” parla allora il recluso nelle galere siberiane quando individua il terreno sul quale costruire l'intesa tra Russia ed Occidente europeo? “Si usa dire che la guerra dei cinque giorni nel Caucaso, e il riconoscimento da parte della Russia di Ossezia del Sud e Abkhazia, abbia inferto un duro colpo alle relazioni russo-europee ed alle prospettive della liberalizzazione in Russia. Io non ne sono convinto” – dichiara Khodorkovski a Le Figaro. “Non si può alzare una cortina di ferro tra Occidente e Russia – l'élite russa non ne ha né la voglia né la motivazione ideologica. Questa crisi potrebbe al contrario spingere il Kremlino ad avanzare verso il miglioramento delle relazioni con l'Occidente.”

È evidente, tuttavia, che se Mosca dovesse perseverare nelle sue ambizioni imperialiste, l'Europa non potrebbe tacere, come d'altra parte non ha fatto dopo l'intervento armato in Georgia. Il Presidente francese, Nicolas Sarkozy, si è dimostrato in quell'occasione ben più sensibile di molte altre cancellerie europee nell'avvertire le conseguenze per la sicurezza e la stabilità dell'Europa dell'iniziativa russa. Quel che conta, infatti, non è la non unanimità in Europa rispetto all'atteggiamento da tenere alla volta di Mosca, ma il fatto che, dalla Georgia in poi, per ciascuno dei 27, la Russia sia tornata ad essere un problema.
L'interesse europeo, allora, sta nel fare in modo che si trovi al più presto una soluzione regionale, e che tale soluzione sia duratura: è necessario, cioè, trasformare la Russia da antagonista in player del sistema occidentale, ovvero costruire il tracciato  di un cammino comune.

Il primo passo di questo processo di avvicinamento e integrazione è la formulazione di un nuovo sistema di regole che riconosca l'inadeguatezza del paradigma geopolitico che ha governato la comunità internazionale dal post guerra fredda alla globalizzazione. Questo nuovo frame delle relazioni est-ovest, per il ministro degli Esteri italiano, Franco Frattini, non può che fondarsi sulla “condivisione delle responsabilità”, ovvero sull'alleanza tra “potenze che condividono principi e regole comuni.”

“Come abbiamo visto nel Caucaso – ha osservato a Washington il Capo della diplomazia italiana, ospite della Brookings Institutions – la Russia non è a proprio agio nell'attuale situazione dei suoi vicini europei. L'Unione europea ha giocato un ruolo cruciale per arrivare ad una soluzione diplomatica della crisi. La condanna per la “reazione sproporzionata” della Russia all'iniziale attacco della Georgia in Sud Ossezia, e per il riconoscimento unilaterale di Mosca delle due enclaves secessioniste, è stata unanime.” Essendo la Georgia alle porte dell'Europa, è evidente che l'abusiva occupazione militare qualche eco di allarme, se non scrupolo di coscienza,  lo abbia creato anche nei più amichevoli supporter della causa del Cremlino.

“Si deve capire, però – ha insistito Frattini - che la Russia è anche parte della soluzione. Sarebbe difficile sperare nella pacificazione della regione agendo contro e non con Mosca.” Per non parlare degli altri teatri internazionali di crisi, dall'Iran all'Afghanistan - e, più in generale, in Medio Oriente - nei quali il Kremlino può ancora fare la differenza, tra il rischio proliferazione e l'appeasement. Questo indubbio peso specifico di Mosca sugli interessi europei consiglia di tenere una linea flessibile, o quanto meno duale. “In altre parole – osserva il Ministro – dobbiamo essere fermi sui principi (nessun ritorno alle “sfere d'influenza”, rispetto della sovranità…) e, nello stesso tempo, coinvolgere da vicino la Russia nella ricerca di soluzioni comuni, sia a livello regionale che globale.”In concreto, l'Italia vuole che l'Europa lavori al “graduale e spontaneo ancoraggio” all'Occidente dei paesi dell'ex blocco sovietico, senza tuttavia arrivare a compromettere le sue relazioni con la Russia.

Per la più autorevole delle vittime del Kremlino, Mickail Khodorkovski, l'Europa ha la forza per rivendicare un ruolo meno tiepido e strumentale di quello proposto dalla diplomazia italiana. Secondo l'ex petroliere, infatti, “quando la Russia sbaglia, l'Europa deve dirlo, chiaro e forte, senza temere per il suo gas e il suo petrolio”.

Oggettivamente l'Europa è nella condizione di permettersi con Mosca un ruolo negoziale più fermo, perché “la Russia ha interesse ad un mercato stabile tanto quanto l'Europa ne ha per un fornitore affidabile.” Questo, tuttavia, non altera il principio di fondo sul quale convergono falchi e colombe: l'integrazione di Mosca nel sistema di governance globale.Bene allora Sarkozy che, con il suo “realismo umanitario”, ha permesso all'Europa – di ritrovarsi più o meno concorde, in una sintesi strategicamente e teoricamente sensata: con, e non contro Mosca, in nome dei principi e, certo, degli interessi comuni.

No Russia, No Nabucco
Claude Mandil - già direttore dell'International Energy Agency, oggi designato dalla Presidenza francese dell'Unione europea a trattare lo spinoso “dossier Russia” – ha riassunto la filosofia sarkozista nel claim “No Russia, no Nabucco”. “È evidente - osserva Mandil, in un'intervista rilasciata al quotidiano economico russo, Kommersant - che Gazprom agisce per interesse politico, ma non è questo il problema. Il problema è che l'Europa, se vuole essere sicura, non ha che una via, diversificare le fonti.” Ma questa soluzione è ancora di là da venire.  Che si abbia allora consapevolezza che, per quanto fortuna l'Europa possa avere nel suo perseguimento dell'indipendenza energetica, nel medio periodo il peso specifico di Mosca potrà essere ridotto ma non azzerato.

La pipeline Nabucco, che gli Usa sponsorizzano per emancipare l'Europa dal gas russo, è al riguardo, tutt'altro che una panacea. “Credo che Nabucco possa essere realizzato soltanto con la Russia, e non contro di essa. E quello che è successo in Georgia non mi ha fatto cambiare idea, anzi.”L'Europa ha un grande bisogno di energia. Opporsi alla costruzione di una pipeline, solo perché attraversa la Russia invece di un paese geopoliticamente più malleabile, è una strategia sbagliata e per di più controproducente. “All'Europa, continua Mandil, serve Nabucco, ma servono anche Nord Stream e South Stream”, le due pipeline disegnate con accordi bilaterali tra Russia e paesi di transito e destinazione.

“Costruire una pipeline contro qualcuno non sarebbe sicuro. La gran parte del gas naturale che vi circolerebbe sarebbe russo in ogni caso.” Perché – osserva l'autore del piano di collaborazione con la Russia proposto a marzo dalla Presidenza francese della Ue –  se è vero che c'è molto gas da prendere in Asia centrale, è altrettanto vero che quel “tanto” è sempre meno di quello che possono offrire Russia e Iran.Questo spiega gran parte delle difficoltà incontrate sino ad ora dal progetto Nabucco. Per bypassare la Russia, il gas dal Mar Nero dovrebbe raggiungere l'Europa attraverso una serie di paesi, ciascuno dei quali sensibile alle eventuali conseguenze dell'ostilità di Mosca. Tra questi, Georgia e Turchia.

“A causa dell'instabilità in Georgia – scrive Jeronim Perovic del Centre for Security Studies di Zurigo – gli europei devono chiedersi se ha senso espandere lì la rete di trasporto di gas e petrolio.”Il problema si pone soprattutto per il gas che ha bisogno di sistemi di pipeline per poter esser trasportato dal luogo di estrazione a quello di consegna. Il Turkmenistan e il Kazakhstan, che sono i principali esportatori dell'Asia centrale, d'ora in poi valuteranno con attenzione l'opportunità di far passare il loro gas dalla Georgia con il rischio di creare il disappunto del Kremlino. Piuttosto, osserva l'analista, per questi paesi potrebbe diventare più conveniente continuare a vendere energia a basso prezzo alla Russia e intanto espandere il proprio mercato in Cina.

Inoltre, la quantità di gas che, secondo il progetto attuale, Nabucco dovrebbe riuscire a trasportare sarebbe di gran lunga inferiore al minimo necessario per rendere l'investimento in qualche modo produttivo. “Dal momento che l'Azerbaijan da solo non produce gas a sufficienza per soddisfare la capacità della pipeline europea – ai legge nel rapporto del Centre for Security Studies -  il progetto europeo è già compromesso.” E con esso, “sono compromesse anche le speranze dell'Europa di ridurre la propria dipendenza dalla Russia attraverso un accesso diretto alle risorse energetiche del Caspio."

Certo, è vero che un endemico vizio di “trasparenza” del colosso del gas russo rende impossibile stimare la disponibilità reale dei giacimenti di Gazprom, e che questo renda complesso a policymakers ed investitori occidentali fare un piano ponderato di investimenti. Non solo, proprio la mancanza di trasparenza ha già cominciato ad infastidire i mercati che, piuttosto che affidarsi al caso – o peggio, alla politica aggressiva messa in atto dal Kremlino – hanno cominciato a investire altrove.
Tuttavia, il significato politico che si è inteso dare in Occidente alla realizzazione della pipeline europea rischia di farne smarrire la portata reale. “Se si continua a ripetere che l'obbiettivo di Nabucco è liberare l'Europa dalla dipendenza da Mosca – osserva Mandil - non ci si sorprenda se il Presidente di Gazprom, Alexei Miller, faccia del suo meglio per boicottarne la realizzazione. A tal rispetto – osserva ancora il consulente della Presidenza francese – le pressioni di Washington potrebbero rivelarsi controproducenti.”

La dottrina italiana per la sicurezza europea
Il Ministro degli Esteri, Franco Frattini, ha espresso chiaramente la convinzione che i processi di destabilizzazione in atto, nelle diverse aree del globo, debbano portare la comunità internazionale a segnare un salto in avanti rispetto alle logiche che hanno governato il dopo guerra fredda e l'avvento dell'era del capitalismo globale. Per il responsabile della diplomazia italiana, la soluzione alla governance del nuovo mondo si trova in una formula – “condivisione delle responsabilità” – che ben rappresenta la prospettiva di un paese marginale come l'Italia nel complesso scenario delle nuove relazioni internazionali.

Ma la dottrina Frattini ha un punto debole, quanto meno dalla prospettiva di Washington. Non certo il principio del multilateralismo, al contrario opportunamente invocato, quanto quella “dualità implicita” della politica europea, rivendicata dall'Italia come esempio del nuovo approccio “realista”: fedeltà ai principi transatlantici, ma disponibilità a riconoscere la necessità di definire un set di valori comuni più esteso, meno selettivo e più inclusivo di quello a marca Usa. Un sistema che, alla lunga, possa arrivare a comprendere Mosca.

In fondo - ha osservato Frattini nel suo intervento alla Brookings – “il mondo post guerra fredda si è dimostrato meno amichevole di quanto non ci aspettassimo. Abbiamo pacificato e riunificato l'Europa, messo fine alla guerra nei Balcani, allargato la Nato e la Ue. E tuttavia se ci chiedessimo: “viviamo oggi in un mondo più sicuro di vent'anni fa? ”, ebbene pochi potrebbero rispondere con un “si”.Basti questo, osserva il Capo della Farnesina, per capire che l'Europa ha una cosa precisa da fare : “definire un nuovo paradigma, più ampio. Dobbiamo creare quello che io chiamo una “nuova comunità di potenze responsabili” che metta insieme vecchie e nuove potenze che condividono valori e responsabilità comuni.”

La nuova “comunità delle potenze responsabili” avrebbe dunque l'onere di trovare un nuovo equilibrio, che preservi la stabilità senza ridurre l'interdipendenza dell'attuale sistema globale. Non è un caso, allora, che l'Italia, insieme alla Germania ed al Belgio, sia dei paesi europei tra i più favorevoli alla proposta avanzata dalla Russia per la ri-definizione del Trattato sulla sicurezza europea, in modo che siano i singoli paesi europei e non la Ue in blocco, ad avere diritto di voto.La sicurezza comune di Europa e Russia è attualmente affidata alle anacronistiche cure formulate negli accordi di Helsinki del 1975, che dividevano il Continente in due blocchi ancorati, rispettivamente, alla Nato ed al Patto di Varsavia.

L'idea che il Ministro degli Esteri russo, Sergei Lavrov, ha rilanciato a settembre a New York, in occasione dell'ultima Assemblea Generale delle Nazioni Unite, in realtà era già stata formulata per la prima volta lo scorso giugno, dal Presidente Dmitri Medvedev, che aveva parlato della necessità di strutturare un sistema basato sugli “interessi nazionali e non sull'ideologia”.Certo, nessuno tra i paesi che, nella Ue come nell'OSCE, hanno espresso interesse per la proposta russa si sognerebbe mai di rinunciare alla protezione della Nato. A prevalere, piuttosto, è la linea del “sia…sia”. Almeno finché, conciliare due alterità, si dimostrerà possibile.

E tuttavia, la linea possibilista sembra fare proseliti. A quanto pare, infatti, persino l'Ukraina, vista sfumarsi la possibilità di un'integrazione a breve nell'Unione europea, e quasi sparire quella di un suo ingresso nell'Alleanza Atlantica, sarebbe pronta a rinnovare di dieci anni il  “Trattato di amicizia, Cooperazione e Partnership” che già la lega alla Russia.

Alla vigilia dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite, Mosca ha opportunamente fatto sapere all'ex stato-satellite che il disappunto per l'ostilità mostrata dalle autorità di Kiev non avrebbe potuto attenuato gli sforzi della Russia per rinnovare l'antica amicizia tra i due paesi.Il Kommersant, cui si deve la rivelazione della notizia, è pronto a giurare che l'Ukraina firmerà l'accordo. E se lo fa l'Ukraina, di seguire con Mosca la politica del doppio binario, a maggior ragione – si teorizza nelle cancellerie occidentali - può farlo l'Europa. La questione da porsi allora non è tanto se la linea che a Bruxelles – e a quanto pare anche a Kiev - si ritiene ormai di dover seguire - il modus vivendi regionale che, senza confliggere con gli interessi transatlantici, stabilisca una relazione cooperativa e mutuamente conveniente con la Russia – sia realistica o no. Ma fino a che punto gli Usa lasceranno i propri alleati liberi giocare la carta dell'equi-vicinanza.Si veda al riguardo, il caso paradigmatico della Turchia.

Russia e Turchia, dopo la crisi georgiana
Il 60% dei rifornimenti di gas alla Turchia viene fornito dalla Russia, lungo le linee Thrace e Bluestream, che attraversano il Mar Nero. Il resto arriva dall'Azerbajan, attraverso due pipeline – la Baku-Tbilisi-Ceyhan e la Baku-Tbilisi-Erzurum – che attraversano entrambe il territorio georgiano. La Turchia è anche il più stretto alleato di Washington nella regione, è una democrazia accorta, a suo modo liberale, e con una grande potenziale diplomatico in gran parte investito nel peace-building mediorientale. Basti questo a capire perché, nella crisi georgiana la Turchia gioca un ruolo cruciale.

Bulent Aliriza, del Center for Strategic and International Studies' Turkey Project ha ricostruito le mosse del governo di Ankara all'indomani dell'invasione russa e il bilancio che ne ha ricavato è di un sostanziale quanto repentino ri-bilanciamento della politica estera della Turchia, sin qui fedelmente ancorata agli Usa.Veniamo al dettaglio.L'8 agosto, con l'ingresso dei primi carri-armati russi in Georgia, il Primo Ministro turco, Recep Tayyip Erdogan, chiama il Presidente georgiano Saakashvili per esprimere la propria solidarietà con lo stato aggredito. Tre giorni dopo, lo stesso Erdogan propone, come soluzione alla crisi, la creazione di un “Patto di Cooperazione e Stabilità nel Caucaso”, un'iniziativa volta a conseguire l'ambizioso obbiettivo di riunire sotto uno stesso ombrello Russia e Georgia, insieme a Turchia, Azerbaijan e Armenia.Il 13 agosto, Erdogan ottiene udienza a Mosca da Medvedev e Putin che tributano al piano di cooperazione nel Caucaso accoglienza più che entusiasta. Più fredda, invece, la reazione di Tbilisi dove il capo del governo turco fa tappa subito dopo aver incassato l'ok del Kremlino. A Saakasvjili, come è comprensibile, l'idea di stipulare un patto di collaborazione con il proprio aggressore reca un incontenibile imbarazzo. La proposta turca, oltretutto, risulta sostanzialmente impraticabile dal momento che, oltre a Russia e Georgia il Patto punterebbe ad associare una altra coppa di belliggeranti,  Azerbaijan e Armenia, che si disputano da anni la regione del Nagorno Karabakh.La mossa di Ankara, insomma, più che “diplomazia creativa” appare da subito come un segnale di allontanamento da Washington.

Il campanello d'allarme, tuttavia, scatta quando si tratta di concordare il transito nei porti turchi delle navi militari Usa destinate al trasporto degli aiuti per la Georgia. Inizialmente, il Comando militare Usa predispone alla partenza due vascelli – il Comfort e il Mercy - i quali tuttavia, eccedono i limiti definiti dalla Convenzione di Montreux che, dal 1936, governa il transito negli stretti. Ora, la Turchia avrebbe potuto chiudere un occhio. E invece che fa? Insiste perché la Convenzione venga rispettata alla lettera.Gli Usa tagliano corto e ri-predispongono la spedizione con mezzi navali di dimensioni conformi. Ma neanche questo basta a soddisfare la foga legalitaria dei turchi. Poco dopo la partenza del convoglio americano, il Ministro degli Esteri, Ali Babacan, ribadisce infatti che la Turchia insisterà per il rispetto del trattato – ovvero la permanenza massima di 21 giorni - ed ammonirà, in caso di trasgressione, il corpo diplomatico del paese interessato.

Il 19 agosto – nota ancora Aliriza - la Turchia si unisce ai partner della Nato per concordare, su richiesta degli Usa, una reazione comune all'iniziativa russa in Georgia. Due settimane dopo, il Primo Ministro Erdogan spiega invece in un intervento pubblicato sulla rivista Milliyet, che “non sarebbe giusto che, dopo la crisi georgiana, la Turchia venisse costretta in un angolo, dagli Usa o dalla Russia. Da un lato c'è il nostro alleato più vicino, gli Usa. Dall'altro, c'è la Russia con cui abbiamo un importante volume commerciale. Agiremo in linea con quanto richiede l'interesse nazionale della Turchia.”

Il primo settembre il comandante della marina turca ospita a bordo di una propria fregata di stanza nel Mar Nero il collega pari-grado russo.Il 2 settembre, mentre il Vice-Presidente Usa, Dick Cheney, si reca in Georgia, Azerbaijan ed Ukraina, per confermare il supporto dell'Amminisrazione Bush alle democrazie dell'ex impero sovietico, il Ministro degli Esteri russo, Sergei Lavrov, vola a Istanbul per testimoniare l'apprezzamento di Mosca per gli “sforzi compiuti dalla Turchia nel Caucaso”.

Prima dell'8 agosto 2008, data dell'invasione russa in Georgia, il Vice-Presidente americano non sarebbe mai andato nel Caucaso senza passare da Ankara a salutare il miglior alleato degli Usa nella regione. Evidentemente, le conseguenze geopolitiche della guerra di agosto sono più ampie e profonde di quanto non si sia ancora in grado valutare.

Capitoli precedenti:

Dossier 1

Dossier 2

Dossier 3

Dossier 4
 
    






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