SONNINO E IL PARTITO LIBERALE DI MASSA
"Conservare per meglio riformare, e riformare per meglio conservare”
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Salvatore Sechi
Purtroppo i neo-liberali nel loro insieme non conoscono bene i loro antenati, cioè la storia dei liberali italiani ai quali si deve il compimento del processo di unificazione nazionale,la restituzione alla chiesa dell'autorità morale e del prestigio attraverso la fine del potere temporale, un ampio processo riformatore per fare insieme all'Italia gli italiani, il decollo industriale. Il liberalismo della Destra storica non fu un fenomeno da provincia subalpina,ma ebbe un cultura ed un afflato cosmopolita,di misura europea.Per questa ragione non si capisce l'atteggiamento di vera e propria inferiorità, se non di sudditanza, che in questi ultimi 15 anni il centro-destra ha spesso manifestato nei confronti della cultura di sinistra che, a cominciare da Gramsci, ha ridotto la tradizione liberale italiana a misura di sé stessa, cioè a espressione di parzialità sociale e politica. Il liberalismo italiano ha perseguito l'interesse generale, si è fatto carico di creare lo stato, di tenerlo autonomo dalla società civile, salvaguardare e am pliare i diritti dei cittadini,di combinare il profitto d'impresa con quello del la democrazia, tenere insieme il Nord e il Sud . Ha spesso saputo disgiun-gere gli interessi di classe propri (per lo più aristocratici e alto-borghesi) da quelli del'intera popolazione. Spetta, dunque, a Forza Italia riannodarsi a questo grande passato. Il fa-scismo lo travolse con un furia devastatrice alla quale seppe saldarsi quella comunista, sorretta dalla solida spalla, da oca giuliva, offerta dalla sinistra democristiana. Non disponiamo ancora di biografie di uomini come Silvio Spaventa, Sidney Sonnino, Luigi Albertini (eppure Il Corriere della Sera dispone di una Fondazione e di risorse non inadeguate a questa opera),Giustino Fortunato, Leopoldo Franchetti, Stefano Jacini ecc. Come dire che sul liberalismo italiano viviamo dei luoghi comuni e delle recriminazioni astiose tramandate-ci dalla macchina propagandistica e dalla cultura prima del fascismo e suc cessivamente, in maniera più copiosa, del Pci. I liberali italiani non meritano la condanna all'oblio e la vera e propria damnatio di cui li ha fatto oggetto dal secondo dopoguerra in avanti la cultura marxista-leninista. Declinata negli stampi gramsciani e in generale dell'italo-marxismo (un'eccezione è stato il saggio di Massimo L. Salvadori, in cui questo giovane intellettuale comunista, formatosi al magistero di Franco Venturi e Walter Maturi, riconosceva i meriti di leaders liberali come Sonnino, Fortunato, Villari ecc.), essa si è incarnata in un pensiero politico e in una prassi tanto anti-liberale nella polemica politica quanto illiberale nelle proposte. Ad un esponente (poco ortodosso) della Destra toscana come Sonnino, soprattutto noto per la politica finanziaria e per la politica estera, si deve una riflessione di alto livello sulla crisi del parlamentarismo, sulle riforme istituzio-nali e sulla stessa formazione di un partito liberale di massa.Tra esse stabilì un nesso inscindibile.Non poteva essere liquidato, come fece sul set timanale comunista Il Contemporaneo, uno storico peraltro autorevole, G. Carocci, descrivendolo a mò di un impasto di imperialista e riformista. Non sarebbe male, pertanto, che chi ha il compito, per la seconda volta nella storia del nostro paese dopo il 1871, di dare vita a questa grande operazione, come quella sollecitata da Silvio Berlusconi, riflettesse, nel corso di appositi seminari autunnali e invernali, su questo uomo di stato. Sonnino, figlio di una madre inglese e di un banchiere, fu un grande imprenditore agricolo.Diplomatico a Madrid, Vienna,Berlino e Parigi ,dove, nel maggio 1871,restò colpito dall'accanimento con cui il “partito dell'ordine” in Francia sacrificava il bisogno di libertà espresso dai rivoltosi, avviando una dura critica nei confronti della borghesia moderata. Si formò all'università di Pisa con Pasquale Villari e si misurò con la più raffinata cultura politica del liberalismo e del radicalismo europei. Parla va l'inglese meglio dell'italiano, insieme ai suoi colleghi toscani (a cominciare dal fondatore della Banca toscana, il barone Peruzzi, F. Guicciardini, L.Franchetti ecc.) che si riunivano, a leggere la stampa anglo- sassone, nel Gabinetto Viesseux a Firenze. Entro la fine del XIX secolo riuscì a fare del la Toscana il fortilizio del suo gruppo, egemonizzando i vecchi moderati, i seguaci di Crispi e Di Rudinì e i liberali di sinistra. Sonnino fu un intellettuale politico scomodo, mai supino, alieno dalla piaggeria e dalla compiacenza, incarnò bene l'ideale einaudiano del conoscere per deliberare. Fondatore e direttore de La Rassegna settimanale,distillò in questa rivista (purtroppo poco conosciuta anche dagli studiosi) una immagine moderna ed europea del liberalismo italiano. Il suo prestigio all'estero (soprattutto in Inghilterra) fu elevatissimo. Estraneo ai luoghi comuni e alle semplificazioni tra conservatori e progressisti, grazie alle inchieste del 1876 sulle condizioni dei contadini in Sicilia, sulla mezzadria in Toscana (animate, entrambe,da un liberismo agrario popola-re), all'innovativo saggio (pubblicato nel 1872 con un confronto ravvicinato delle analisi di Stuart Mill, Tocque ville e O'Hare ) sulla necessità del “suffragio universale eguale e diretto”, “senza la limitazione del saper leggere e scrivere” e con “l'abbassamento dell'età tanto per l'elettorato che per l'eliggibilità politica”,come scrisse B. Croce “contribuì a fare smettere alle classi colte italiane quell'istintivo movimento di chiudere gli oc-chi… e a introdurre la pacata discussione sul socialismo e sui doveri della borghesia verso contadini e operai”. Difese il principio del “decentramento dei vari servizi pubblici” (dalle pagine della Democrazia in America di Tocqueville e dall'esperienza della Comune parigina derivò l'idea che il potere andasse “sbriciolato” perché potesse coinvolgere, cioè addestrare alla partecipazione politica, il maggior numero possibile di cittadini) e “la guarentigia della proporzionalità della rappresentanza” come strumenti di forme di autogoverno, di stabilità del governo della maggioranza e di difesa delle minoranze. Non mancò di levarsi a sostegno del suo ceto,quelle che chiamava “le classi conservatrici e capitalistiche” dall'at tacco dei socialisti, ma si fece alfi-ere della più avanzata legislazione sociale e della questione meridionale. Nel 1901 al direttore del quotidiano da lui fondato, Il Giornale d'Italia, chi ese di esercitare “sempre una forte pressione anche su di esse perché non. ... confidino soltanto nella violenza e nella prepotenza, e perché facciano una parte equa anche alle classi lavoratrici”. L'odore sembra quello del paternalismo di un aristocratico, fautore di uno Stato forte anche se rispettoso dei diritti di libertà di tutti, a cominciare dai più diseredati. Era, invece, profondo riformismo sociale , manifestazione di un “socialismo di stato” che affidava la soluzione della questione sociale non al partito socialista (di cui restò sempre un avversario), ma al partito liberale e alla borghesia. Come oggi Berlusconi,all'inizio del 1900 Sonnino, nel ruolo di capo della opposizione costituzionale a Giolitti, fu in prima fila in un'operazione di riforma istituzionale che puntava a superare il bipartitismo e a costruire un raggruppamento unitario delle forze liberali, conservatori e progressisti (e anche radicali, a partire dal 1903), tenendo ben ferma la barra (e le distanze) da un altro liberale, il piemontese Giovanni Giolitti. Egli non credette alla “teoria dell'altalena tra i partiti”, cioè rifuggì dal bi-partitismo inglese. Nel 1880 per mostra re fisicamente la sua condanna del l'alternanza tra destra e sinistra, andò a occupare lo scranno al centro del l'aula della Camera dei deputati.E Centro si chiamerà il suo “partito” Questa linea di condotta è per la verità una costante negli scritti e nei disc orsi parlamentari del deputato di San Casciano.La si ritrova pari pari in un articolo,Il parlamentarismo e la monarchia del gennaio 1880 ospitato proprio dalla Rassegna. E' il caso di aggiungere come le sue analisi coincidano con le prese di posizione del Corriere della Sera. Alla fine dell'Ottocento e nei primi anni del Novecento, il direttore Luigi Albertini, alieno-da buon liberale- dal cerchiobot- tismo del suo erede in carica, Paolo Mieli, sostenne l'analisi sonniniana sui mali del parlamentarismo e sulla mancanza di un partito liberale di massa,condividendo la comune avversione a Giolitti. Ai berluscones non dispiacerà rilevare come la causa del parlamentarismo per Sonnino risiedeva nell“'ente governo in generale”, cioè nella debolezza del potere esecutivo. Andando più in profondità osserverà come avesse radice nel ruolo del deputato e in generale nella stessa rappresentanza elettorale come nello stesso periodo documentava Gaetano Mosca. Dal momento che, diceva Sonnino, il parlamentare non era il rappresentante dell'intera nazione, non curava l'interesse generale (“tutti gl'interessi e le forze esistenti nella società, senza distinzione veruna di classi”), ma si li mitava ad essere il portavoce di interessi parziali. Poiché in Italia vigeva il suffragio ristretto e non quello universale (subirà un allargamento in questa direzione nelle elezioni del 1913 e del 1919 e soprattutto in quelle successive alla caduta del fascismo, cioè del 18 aprile 1948), il parlamento italiano si era trasformato in “una parziale riunione di interessi singoli che di tutto lo Stato cercano di disporre a proprio profitto”. I rappresentanti mettevano bocca e mani in ogni atto governativo per favorire la propria clientela o i propri interessi, come mostrò Marco Minghetti in un saggio diventato un classico dell'implacabile denuncia dei liberali contro l'intreccio tra politica e amministrazione, politica ed affari, politica e corruzione. Dunque, Sonnino non aspettò i socialisti né i comunisti per muovere allo Stato post-unitario l'accusa spietata e tenace di poggiare “nell'insieme dei suoi ordinamenti…sopra una minoranza della nazione, e questa sola mino- ranza tutela e difende”. In altri termini, il male risiedeva nella rappresentanza elettiva e nello spostamento del baricentro istituzionale a favore degli organi elettivi. A lui si deve l'elogio del governo come solo un grande liberale poteva farlo. Nella sua concezione il potere esecutivo, non era la ghigliottina per chi aveva perso le elezioni e per le minoranze,come fecero i prefetti e i ministri dell'Interno giolittiani, manovrando anche la magistratura, nei confronti di socialisti, radicali e repubblicani. Al pari della Corona, ai suoi occhi l'Esecutivo “rappresenta l'azione positiva del governo e dello Stato, perso nifica la nazione intera, all'infuori di ogni maggioranza e di ogni minoranza”. Pertanto, il governo doveva sentirsi “in dovere, di determinare sempre la sua condotta volta per volta secondo gli interessi generali di tutta la nazione, e non di un partito, o di un collegio”. Non si capisce questo atteggiamento che contrappone l'interesse generale agli interessi particolari se non ci si rende conto che per il deputato di San Casciano la nazione, la società, e quindi lo Stato (i termini sono usati in ma niera interscambiabile dalla Destra come dalla Sinistra post-unitaria), non sono pensati come sommatoria dei vari corpi divisi, frammentati sulla ba-se dell'esistenza di classi e ceti in un insuperabile antagonismo reciproco, come pensava la sinistra social-comunista. Proprio questa faziosità, questa “partigianeria” , di cui si erano fatti veicoli presso le “classi inferiori” il sentimento religioso e quello politico demo-cratico, costituivano per Sonnino una minaccia non solo per la forma di governo ma per la stessa capacità di tenuta dello Sato italiano. Di qui nasce la giustificazione storica e razionale del bisogno del popolo di identificarsi in una suprema magistratura dello Stato, cioè in “un istituto che rappresenti costantemente e senza interruzioni l'interesse generale della collettività della nazione, nello spazio come nel tempo,…”. La “personificazione” nel Re in quanto garante e tutore della giustizia (ma anche interprete e somministratore di essa) era concepita come “con-cetto sintetico dell'interesse pubblico e dello Stato come un complesso e non come riunione di interessi particolari” . Esso poteva porre fine al parlamentarismo e alzare un argine alla “violenza della rivoluzione”, alimentando la stabilità degli ordinamenti e avvezzando la popolazione al rispetto della legge e dell'autorità . Sonnino lo ravvisa in “quel potere dello Stato che si personifica nel monarca o nel presidente della Repubblica”. Ma al pari di Tocqueville, non reputa il presidenzialismo degli Stati Uniti in grado di imporsi alla “partigianeri a”, per la brevità del mandato, il potere del partito (e i conseguenti obblighi verso di esso) che lo aveva eletto ecc. In Europa e in Italia soprattutto questa “periodica elezione del capo del potere esecutivo dello Stato” poteva aprire la strada al cesarismo. Siffatta immagine popolare del Re per realizzarsi aveva bisogno, per cessare di essere la solita formula rettorica del linguaggio politico liberale e di-venire realtà, di potere contare sull'autonomia del potere esecutivo dalla Camera. In altre parole, come chiarirà il 1 gennaio 1897, cioè 17 anni do po, nell'articolo Torniamo allo Statuto, ospitato da La Nuova Antologia, il potere esecutivo, essendo depositario dell'interesse generale (rispetto al-le Camera che restava il luogo degli interessi particolari, cioè dei partiti, e quindi non poteva essere espressione dell'interesse nazionale), doveva es-sere di competenza del Re. Pertanto, egli avrebbe dovuto avere il potere di nominare, e revocare, i ministri. Con l'introduzione del suffragio universale, Sonnino si oppose allo scruti nio di lista in quanto comitati elettorali e politicians avrebbero impedito la piena responsabilizzazione degli elettori creando una barriera con gli e-letti e lo stesso ordinamento istituzionale. Il suo favore andò, invece,al col legio uninominale proprio per il rapporto personale e diretto che, con qu esto sistema si creava tra la nazione e la sua rappresentanza elettiva, consentendo una scelta “naturale” dei candidati. Infatti essi sarebbero sta ti imposti non dai partiti (con i loro particolarismi assai dannosi per l'ar-monia della società e dello stato), ma dall'influenza sociale di cui godeva no facendo così in modo che la reciproca simpatia esistente tra di loro po tesse proseguire una volta che fossero stati eletti in parlamento. La coscienza che le cose stavano diversamente, cioè che la Camera avreb be continuato a rappresentare la materializzazione degli interessi particola- ri, rendendo impossibile un governo forte,indurrà Sonnino a cercare di combinare quanto fino ad allora, nel dibattito politico ed accademico, ave- va marciato disgiunto o solo parallelamente:cioè a concepire una politica di riforme dei rami alti dello stato insieme alla formazione di un partito liberale di massa fortemente organizzato della società civile. In questo mo do veniva stemperato il peso assorbente dello Stato su questultima che Vit- torio Emanuele Orlando e i suoi allievi di diritto pubblico (Cammeo, Ran nelletti ecc.) avevano contribuito ad alimentare con grave danno per il libe ralismo divenuto sempre più statolatrico. Nel 1887 con l'introduzione della tariffa doganale improntata a spirito pro tezionistico da parte del governo Crispi si ebbe un mutamento sensibile si a nella cultura economica, ma anche politiica (come hanno ben visto Anto nio Cardini e Roberto Vivarelli). Infatti,i sostenitori del libero scambio dal le pagine del Giornale degli Economisti e da quelle de La Riforma sociale di Luigi Einaudi) diedero vita ad un gruppo liberista che in realtà ripensò la natura dello stato e i diritti dei cittadini. Ergendosi contro i privilegi, a cominciare dai monopoli, compresi quelli dello Stato, uomini come De Viti De Marco, G. Fortunato,F. Papafava, V. Pareto ecc. mostrarono come all'interno del liberalismo italiano fosse sorta un'opposizione contro il governo giolittiano. Si trattava di una minoran- za che riprese i principi ispiratori della tradizione liberale per uno Stato popolare e democratico. Si pose, perciò, in rotta di collisione con la teoria dello stato assoluto o monopolistico che, come ha dimostrato impeccabil-mente Giulio Cianferotti, venne introdotto in Italia nel 1885 dalle teorie de l Reichstaat germanico da parte della “scuola giuridica nazionale” forma ta da Vittorio Emanuele Orlando e veicolata in seno alla pubblica ammini strazione e nella stessa cultura politica del tempo.Saranno proprio questi precetti sostanzialmente illiberali della giuspubblicistica di Orlando a la-stricare la strada all'affermarsi della teoria dello stato fascista elaborata da A. Rocco e in generale dai nazionalisti. Non diverso è il problema che si trova a fronteggiare Berlusconi. Sente la responsabilità di dover ritoccare, anche profondamente, l'architettura del lo stato e contemporaneamente di doversi munire, attraverso un partito in sediato nella società civile e “leggero” nell'occupazione degli apparati cre ati dalla partitocrazia, di un consenso che non duri l'espace d'un matin, ci oè sia solo elettorale. Nel forte accento posto da Sonnino sul rapporto diretto tra gli elettori, par-lamentari e Stato, si può cogliere (ed è stato fatto da Banti, E. Minuto, G. Rebuffa, da R. Romanelli ecc.) il rischio di una democrazia plebiscitaria, di elezioni come un rito collettivo vincolante allo Stato ecc. in cui finireb be per essere impigliato anche il discorso sonniniano. Volendosi ancorare al concreto, cioè a quanto il parlamento offriva, così come Berlusconi ha pensato di rivolgersi ad An e alle formazioni minori di centro-destra, Sonnino rigettò la teoria costituzionale del bi-partitismo fa cendo un investimento sull'unità parlamentare dei liberali con l'obiettivo di tradurre in realtà “l'idea essenziale del trasformismo, cioè la costituzio ne di un forte partito di governo”. Prima nel parlamento, ma anche nel pae se. Nel primo caso fallirà, come dimostra la breve durata, dovuta alla mancan za di una maggioranza di sostegno dei ministeri presieduti dal leader tosca no, mentre nel secondo non ci sarà alcun risultato. Una descrizione analitica e compatta ne ha fatto Emanuela Minuto, un'al- lieva pisana di Rolando Nieri (uno dei maggiori studiosi del riformismo i- stituzionale di Sonnino). Nel deputato di San Casciano sembrano giustapporsi due esigenze di parti to. Da una parte, il grande partito del Re, quello che opera a livello statu- ale, cioè mosso esclusivamente dalla preoccupazione di assicurare al gover no una maggioranza sicura nel momento in cui venivano varati provvedi- menti importanti come l'abolizione del corso forzoso, l'imposta sul maci nato, il riordino bancario, l'assicurazione contro gli infortuni sul lavoro, il pareggio del bilancio, una legislazione sociale solidaristica ecc. Esso aveva anzitutto il compito di assicurare la sopravvivenza dello stato minacciata dal progressivo rafforzamento dei suoi nemici, cioè i “neri” e i “rossi”. In secondo luogo, Sonnino punta a unificare in un'unica casa tutti i soste- nitori della monarchia e dare alla forma-partito,oltre ad una funzione elet- torale, anche quella di strumento e sede in cui promuovere ed elaborare le riforme e successivamente conservarle. In questa prospettiva lancia l'idea del cd “partito temperato”, che opera nella società, con un modello di orga nizzazione partitica territoriale assai simile a quella dei partiti popolari e so cialisti. Verso questultima, nel primo quindicennio del Novecento ( come ha dimo strato il bel volume curato da Gaetano Quagliariello spingevano l'allarga- mento del suffragio politico e amministrativo, l'elezione dei sindaci rispet to alle quali il governo dello Stato cessava in gran parte di fungere da fatto re di coagulo e di sostegno dei liberali anti-giolittiani. Il 16 settembre 1901, nell'editoriale Questioni urgenti scritto per il suo qu otidiano, Il Giornale d'Italia, Sonnino propone per il partito liberale di massa un'ossatura non dissimile da quella dei partiti socialisti: dare un as-setto federativo o fondare le associazioni locali, i comitati elettorali, di pro muovere conferenze e discussioni sui temi all'odg, predisporre soccorsi di ogni natura per i momenti di calamità naturali, costituire uffici di patronato e di tutela economica per i poveri, creare cooperative di consumo nelle cit tà, consorzi agrari nelle campagne, studiare e proporre soluzioni per le pi ù gravi questioni sociali e amministrative. I più efficaci metodi di organizzazione, difesa e propaganda dovevano es sere discussi in congressi regionali e nazionali, “evitando di dividersi per troppa smania di fissare i minuti particolari di un vasto programma invari- abile e completo che dia fondo all'universo e serva pei secoli come un cre do infallibile ai seguaci del culto”. Dal partito si doveva bandire l'immobilismo e “l'intolleranza di fronte ad opinioni oneste sinceramente professate. Non dobbiamo costituire una chi- esa né una setta,ma un grande partito che abbracci tutta una larghissima tendenza dello spirito pubblico, che riunisca nelle sue file tutti coloro che accettano lealmente le istituzioni sancite dallo Statuto, cominciando dalla monarchia costituzionale dei Savoia, intendono conservare per meglio ri-formare, e riformare per meglio conservare…”. Ad una “vigorosa organizzazione del partito farà seguito “una forte opini- one collettiva”, che avrà la meglio sulle velleità, gli individualismi, le pas-sioni anche dei maggiori dirigenti, in parlamento e fuori..I dissensi e le ani mosità personali “dovranno per forza obbedire alla collettività del partito, seguendone l'impulso generale e la tendenza comune, e cercando di mante nersi ciascuno nel centro della corrente; onde spariranno le meschinerie dei puntigli, dei rancori e delle diffidenze personali, o non riusciranno comun que a paralizzare la vita e l'azione del partito”. Con questi intenti erano nati, e spesso non avevano avuto se non vita gra- ma, i partiti popolari. Nel caso specifico il “grande partito conservatore li-berale” di Sonnino faceva appello ai molti liberali che governavano corpi locali e amministrazioni autonome come per esempio le opere pie,invocan do una sorta di rigenerazione morale. In realtà o strumento primario dell'organizzazione politica per i liberali re steranno le associazioni (agrarie, degli eruditi, l'Accademia dei georgofi- li ecc.), i comitati, i circoli e soprattutto i giornali (locali e nazionali) che furono il surrogato e gli incunaboli dell'organizzazione dei partiti veri e pr opri. Alcune (è il caso della nuova Destra in Lombardia) curano anche il proselitismo, la formazione politica, le scuole per propagandisti, i centri studi ecc. Dunque, i liberali italiani, al pari dei cattolici, non imitarono i socialisti, organizzatisi sul modello della socialdemocrazia tedesca, ma li preveniro no. Ma fino al 1914 restarono come li descrisse Giorgio Arcoleo, in un li bro con questo titolo, edito nel 1908, cioè Alla ricerca di un partito. Nel 1921 quando venne ufficialmente costituito il Partito Liberale Italiano le cose non cambiarono granchè, trattandosi di una struttura effimera. Il cuore del “partito temperato” resta, però, il profilo programmatico, cioè le riforme economiche e sociali. Sonnino è stato un esponente della Destra toscana (frequentò assiduamente il salotto del barone Peruzzi, ricostruito finemente da Paola Carlucci) e un critico della sua connaturata “ avarizia borghese di sentimenti di equità”, come ha scritto la Minuto).L'Avanti! (21 giugno 1901) che non lo amava ma lo rispettava,lo ha identifica to in una sorta di Shylok. In realtà fu un impenitente, tenacissimo e coerente libera le riformatore. Il suo coraggio e la sua onestà intellettuale non gli impedirono,quando lo ritenne opportuno,di fare proprie (e a volte di andare oltre) le soluzioni del “programma minimo” dei socialisti. Addirittura li anticipò come nel caso dell'estensione del suffragio alle ple bi. Era un diritto naturale, sostenne, mentre il PSI lo circondò di alcune cla usole discriminatorie, cioè che gli elettori sapessero leggere e scrivere e a-vessero un reddito minimo. Analogamente sul problema del rapporto capi-tale e lavoro, quando propose, nel campo dell'industria manifatturiera e in quello dei trasporti, già nel 1900, di favorire “la graduale e progressiva compartecipazione del lavoro al possesso del capitale e alla direzione del le imprese”. La proposta si fondava tutta sul reinvestimento di quote degli utili spettan ti ai lavoratori in azioni della società in maniera che, grazie alla stabilità dell'azienda privata, fosse possibile “di combinare la partecipazione del lavoro al profitto col principio di cointeressare il lavoro al capitale e alla produzione”. Di fronte alle Camere del lavoro, alle cooperative e alle Leghe di resisten za create e gestite dai “sovversivi”, il suo atteggiamento fu di porsi sul lo ro stesso piano, imitarle e fare loro concorrenza. In lui non ci fu mai riduzione della politica ad amministrazione e a mera compensazione di interessi, come fece Giolitti.Come premier, in due occa sioni ( il tentativo dei cento giorni dell'8 febbraio 1906 e del 18 dicem- bre 1909 ), si identificò nelle grandi opere legislative, nella modernizza- zione e riforma dello Stato.Qui nacque la sua collaborazione con France- sco Crispi, nei cui governi fu a lungo ministro del Tesoro e delle Finanze. Alle riforme, Sonnino non smise mai di attribuire funzioni taumaturgiche, facendo del governo non un'arte (in cui si esaurì il trasformismo), ma una scienza e un'etica. L'importante saggio di Emanuela Minuto sugli anni 1900-1906 è la dimo strazione di come il Centro (come si definì l'ampio raggruppamento di par lamentari coagulatosi intorno a lui) non bastò neanche a creare durevoli co alizioni a supporto dei pochi governi ai quali Sonnino diede vita. La loro sconfitta, ma soprattutto quella del suo tentativo di saldare grandi riforme economiche e sociali all'unificazione dei liberali in un partito unico fu il segno della gravità del male che aveva più esaminato e combattuto:cioè il parlamentarismo con le sue cangianti e raccattate maggioranze parlamenta- ri, un surplus di assemblearismo, l'impossibilità di assicurare un regime di alternanza, la strutturale debolezza del potere esecutivo che, anche grazie all'incertezza della sede del potere (il re? la Camera? le maggioranze insta bili e sempre altamente composite?) costituì l'elemento centrale della sto-ria dell'Italia unita e giunge fino a noi. Elio DAuria nel volume curato da Quagliariello ne ha dato una sintesi efficace. Dopo l'esperienza di Pelloux ,e le repressioni che ne seguirono, il passag gio del sistema politico di tipo parlamentare a quello costituzionale puro (cioè il ritorno al 1848, cioè alle origini dello Statuto), al centro del famoso articolo Torniamo allo Statuto (ospitato dalla Nuova Antologia l'1 gennaio 1997), non risulta possibile, anche per la resistenza di molti liberal-conser vatori. Manuela Minuto imputa il fallimento anche dell'ultimo tentativo sonni niano (nel 1906, quando fu alla mercè dei voti dei socialisti di E.Ferri ) al la sua illusione di “presentare un programma ‘educativo' in grado di plas mare deputati e senatori e, tramite loro, in futuro l'intera società: un'educa zione dotata di un potere potere maieutico capace di gene-rare, in primo luogo, una collaborazione solidale tra i parlamentari per la difesa dell''in-teresse” generale della nazione”. Il “grande partito liberale” di Sonnino si ridusse al ”Centro sonninano”, un raggruppamento parlamentare informale, dotato di un quotidiano di presti gio e a diffusione nazionale, Il Giornale d'Italia, e di una rivista La Rasse gna settimanale. Come partito extra-parlamentare il Centro non esistette.A Roma i suoi me mbri esso si riunivano a Palazzo Sciarra , sede del giornale,ma si limitava no a discutere l'atteggiamento da tenere durante le crisi di governo, il voto di particolari provvedimenti, la discussione delle candidature alla Camera del deputati. Il gruppo fu molto disciplinato e compatto, ma era molto sonniniano nello anti-socialismo e poco nelle riforme da lui propugnate. Sonnino aveva peraltro la competenza e la capacità intellettuale per tradur- re in un programma le carenze politiche e istituzionali dell'Italia avviata ad un massiccio processo di industrializzazione.Credo sia stato per lui un cruc cio costante rispondere alla domanda che ancora oggi ripropongono Ullri- rich, Vivarelli e Cardini:com'era possibile che lo sviluppo industriale po-tesse avveni re in un paese come il nostro che ebbe una modernizzazione politica incompleta, cioè disgiungendo politica ed economia? L'Italia era, in effetti, qualcosa di simile ad un'anatra zoppa dal momen to che fino al 1914 mancò di un partito liberale moderno (cioè di massa) e si avviò sulla strada della trasformazione industriale della sua arretrata struttura agraria con un sistema di partiti non propriamente moderno. Il suo principale avversario, Giovanni Giolitti ha rilevato che “se egli (Son nino) conosceva i problemi, non ha mai conosciuto in modo sufficiente gli uomini, la cui collaborazione, volontaria o renitente, diretta o indiretta, alla soluzione di questi problemi è indispensabile nei regimi democratici e rap presentatitivi”. In realtà le cose sono più complicate di quanto pensasse, o non volesse am- mettere, l'uomo di Dronero. La formazione di un partito liberale di massa, distinto da un partito conservatore e da partiti di estrema destra e di estre ma sinistra, ebbe come ostacolo insuperabile il duplice pericolo sovversi- vo che a lungo ha cristallizzato i liberali italiani chiudendoli in una sorta di stato d'assedio. In primo luogo l'esistenza dei “neri”,cioè il pericolo clericale costituto dal l'ostilità della chiesa al nuovo stato. Il disgelo del non possumus, cominciò nelle elezioni del 1913, cioè col sostegno dei cattolici alle liste liberali in funzione anti-socialista ( considerato il danno maggiore). Da Luigi Sturzo, organizzando i cattolici nella società civile, pervadendone ogni poro, ven- ne il superamento molecolare della posizione di resistenza della Chiesa al riconoscimento del nuovo Stato. Cominciarono a conquistarlo dall'interno con le banche popolari, le cooperative,i sindacati, le associazioni, la rete minutissima dei rapporti sociali. In secondo luogo, l'esistenza dei “rossi” , cioè i socialisti che non facevano mistero di voler disfare l'unificazione nazionale in nome della priorità de- gli interessi di classe, e a questo disegno di smembramento contribuirono efficacemente. Entrambe queste forze,di destra e di sinistra estreme, molto vigorose in se no alla società civile, furono fattori di ansia e di micidiale paura per i libe rali che videro messa in pericolo la fragile costituzione del nuovo Stato e con essa la stessa possibilità di perseguire l'interesse generale che era in testa ai loro pensieri. Perciò fu comune, direi obbligata, la decisione di non differenziarsi aper tamente, cioè di non trasformare in opzioni politiche organizzate i loro dis sensi interni (penso, per fare l'esempio più emblematico, a quelli tra Son nino e Giolitti). Per questa ragione il liberalismo italiano fu un'eccezione. Rappresentò in Europa, come hanno dimostrato gli studi di Hartmut Ullrich, un luogo o- riginale di coabitazione, in seno alla stessa area di appartenenza, per rifor matori radicali e conservatori. Ma ne derivò anche una psicosi implacabi-le a non dividersi, fare fronte comune, cioè una propensione a volgersi al “centro”, ritrovarsi uniti in uno stesso schieramento anche su posizioni spe sso profondamente diverse.Un corollario di questo atteggiamento fu l'iden tificazione dei liberali con lo stato e sul piano economico non tanto col mercato (come ci si sarebbe aspettati), ma con l'intervento pubblico che si curamente rifletteva sfiducia, se non ostilità, nei confronti dell'autonoma capacità di organizzazione del mondo delle imprese. Dunque,il liberalismo italiano ebbe un limite grave fin dalle origini, cioè fu molto incoerente con i suoi principi ispiratori, fu cioè poco liberale. A uscirne vulnerata, anzi, condannata fu la possibilità del ricambio, della alternanza, mentre da parte dell'opposizione (dai socialisti ai comunisti)si enfatizzò l'alternativa di sistema. Ma fu una necessità, non una cultura, quella di fare una priorità della medi azione e del compromesso.Purtroppo da esso derivarono il trasformismo e il fascismo, ad avviso di Vivarelli. Ma anche una sindrome dell'emergenza che arriva fino ad oggi. Fortunatamente i mutamenti profondi avvenuti con la modernizzazione del secolo XX (fine dell'Italia rurale che era la foresta dell'anti-stato, indu- strializzazione, costruzione dello stato amministrativo contemporaneo)sem bra aver predisposto al bi-polarismo e alla declinazione del “sistema de- mocrazia-mercato composto di elettori-consumatori –contribuenti”( A. Car dini) Il prezzo fu che questo liberalismo, in nome della preservazione dello stato dall'offensiva sovvertitrice dei “neri “ e dei “rossi” , non riuscì mai a sepa rare nel proprio seno i liberali dai conservatori (come hanno mostrato gli studi di P.Ballini, Cardini e Gentiloni Silveri), né a far vivere come fisio- logica la necessità dell'alternanza di partiti e schieramenti diversi al gover no del paese. Nel secondo dopoguerra la presenza del comunismo, legato ad una poten za straniera come l'Urss, rimodellò la stessa sindrome della difesa dello Stato dal nuovo e più insidioso pericolo “rosso” in salsa sovietica . In sintesi, gli ostacoli maggiori alla formazione in generale di un moderno sistema dei partiti e in specificamente di uno (o due) partiti liberali di mas sa in grado di guidare o sostenere la modernizzazione e l'industrializzazio ne del paese furono: 1. la persistenza, in seno ai grandi schieramenti parlamentari, di caucus regionali che costituirono il primo architrave di raccolta e di organiz zazione dei parlamentari nel corso del XIX e anche del XX secolo. In Italia i partiti furono deboli perché erano forti gli “interessi loca- li”, rendendo arduo allo stesso governo la cura dell'”interesse gene rale”. Le “delegazioni” regionali amavano riunirsi e accordarsi per una posizione comune riguardante la comune regione di appartenen za, 2. l'indisponibilità di deputati e senatori a sostituire il proprio incontro llato e personalissimo rapporto con gli elettori (e col governo), grazi e al quale si costituivano in una potente oligarchia parlamentare, pri va di vincoli di programma, di principi e di controlli, con un partito- padro-ne che li rendesse schiavi e comunque subordinati-dentro e fu ori delle assemblee elettive- alla logica dell'organizzazione e alla sua burocrazia, 3. il peso del sistema elettorale. Il collegio uninominale (in vigore anco ra nel 1913 quando le elezioni furono a suffragio quasi universale) sembrava tagliato su misura, cioè perfettamente aderente, alla capaci tà dei candidati di convogliare su di sé il maggior numero possibile di voti, dando una risposta (immediata o differita) alle richieste loca li. In niente questa logica poteva essere resa più conveniente dal fat-to che il can didato fosse membro di un partito nazionale. Anzi costi tuiva un pericolo dal momento che la candidatura invece di essere promossa dai pro-pri amici elettori influenti era affidata all'imper- scrutabile giudizio di un organo di partito, 4. la nervatura organizzativa (disciplina rigida, apparati distribuiti su scala nazionale e locale ecc.) del partito di massa,come nel caso del partito socialista, esercitava fascino, ma incuteva grande paura. La principale era quella di vedere limitata l'autonomia dei parlamen-tari, a comincia-re dall'imposizione dall'alto degli interessi da di-fendere fino a quella di delegare a strutture ristrette (la segreteria, la direzione nazionale, il comitato centrale ecc.) le decisioni sul chi e come votare, 5. la tendenza degli eletti, soprattutto quelli liberali, a organizzarsi in gruppi parlamentari (oltre il 50% dei liberali di prima legislatura nel 1913, quando si ebbe la triplicazione del corpo elettorale, si iscrisse ai tre gruppi formatisi). Solo con l'introduzione del sistema elettora- le proporzionale, nel 1919, il regolamento della Camera de deputati rese obbligatoria l'organizzazione dei deputati in gruppi parlamenta ri e diede vita ad un sistema di commissioni permanenti 6. era impossibile una ricomposizione unitaria di parlamentari che era- no divisi da posizioni diverse ed opposte:statalisti alla Sella, libero- scambisti come i toscani, giurisdizionalisti e separatisti in politica ecclesiastica ecc., 7. la formazione di un partito liberale conservatore, come quello auspi cato da Sonnino, avrebbe determinato la creazione di un partito libe- rale per così dire giolittiano (cioè costituito da social-liberali,radicali, socialisti riformisti ecc.),che avrebbe fatto più danni che dato vantag gi alla politica di industrializzazione del paese, 8. la camicia di forza rappresentata dal parlamentarismo italiano. Era “tutto incentrato sulla maggioranza nel so insieme e sull'insieme del-le opposizioni oppure sui binomi governo-deputato/governo-maggio ranza; e questo dato di fondo contribuiva molto a ostacolare la co-struzione di un sistema partitico moderno e nelle strutture e nel funzi onamento” ( H. Ullrich) , 9. la necessità, sentita come un imperativo, da tutti i liberali di antepor-re ad ogni altro bisogno l'interesse generale rappresentato dalla costruzione e difesa del nuovo stato,
Nota bibliografica
Su Sonnino e i temi toccati in questa nota si richiama la bibli ografia essenziale:
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