Il premier britannico affronta la crisi finanziaria con determinazione, indicando alla politica la strada da seguire per gestire le complessità e i rischi della finanza internazionale. L’Europa si allinea, gli Stati Uniti questa volta si accodano. Il ministro italiano si muove in sintonia con Londra e propone un nuovo trattato per il governo della finanza mondiale. E’ il rilancio dell’economia sociale di mercato ispirata ai principi del social-liberalismo
Fabio Lucchini
La bufera non è assolutamente passata. L'altalena dei mercati ne è una prova tangibile. Nondimeno, finalmente la politica si è mossa, e lo ha fatto ai suoi massimi livelli, cimentandosi nell'impresa di governare quei processi economici transnazionali fino a ieri ritenuti impenetrabili ed incontrollabili. Il protagonista assoluto di quella che si configura come una vera e propria riscossa della politica è il personaggio forse più inatteso. Dopo un anno abbondante di governo segnato dall'impopolarità e dal pesante paragone con l'eredità di Tony Blair, Gordon Brown ha saputo cogliere l'inattesa chance offertagli dallo spaesamento globale davanti alla crisi finanziaria per mostrare al mondo le sue qualità di leader e la validità/modernità della dottrina sociale, politica ed economica del New Labour.
Significato osservare come nel pomeriggio di quello stesso 8 ottobre, subito dopo la notizia della fine del vertice al Tesoro con la Banca d'Italia, l'ABI e Confindustria, un comunicato di via XX Settembre avesse espresso apprezzamento per le recenti decisioni del governo inglese di entrare, di fatto, nel capitale delle principali banche del Paese. Si leggeva nella nota: “Il ministro dell'Economia e delle Finanze italiano condivide le misure preannunciate dal governo inglese per assicurare la stabilità delle istituzioni finanziarie. Queste misure sono in linea con quanto stabilito dai capi di Stato e di Governo dell'Unione Europea nella riunione del 6 ottobre e con quanto successivamente precisato dai ministri economici e finanziari nel consiglio Ecofin del 7 ottobre. Per suo conto il governo italiano si impegna ad adottare tutte le misure necessarie per stabilizzare il sistema finanziario e per tutelare il risparmio”.
L'approccio browniano alla crisi ha fatto proseliti nel Vecchio Continente, ma non solo. Fatto rarissimo, e forse sintomatico di un prossimo riassestamento nei rapporti di potere tra le due sponde dell'Atlantico, persino l'America ha dovuto prendere atto della sorprendete efficacia della risposta europea. Ed adeguarsi. Per una volta gli Stati Uniti hanno seguito l'Europa, come riconosce Mark Landler dalle colonne dell'International Herald Tribune del 15 ottobre. Il presidente George W. Bush ha infatti annunciato lo stanziamento di 250 miliardi di dollari per aiutare il sistema bancario americano, cambiando rotta rispetto alla proposta originaria del ministro del Tesoro Henry Paulson, che proponeva di acquisire i cosiddetti titoli tossici. Il governo Usa acquisterà quote azionarie nelle principali istituzioni finanziarie del Paese e assicurerà la maggior parte dei nuovi debiti emessi dalle banche. Il presidente Usa ha inoltre espresso apprezzamento e condivisione per le azione della Ue, adeguandosi di fatto alla linea dettata dai partner europei.Il neo-Premio Nobel per l'economia, Paul Krugman (New York Times, 12 ottobre), arriva a domandarsi se la prontezza del premier britannico possa aver salvato (per ora, ndr) il sistema finanziario globale. “D'accordo”, argomenta Krugman, “la questione è prematura, anche perché non possiamo ancora valutare gli effetti degli interventi di salvataggio posti in essere in Europa e negli Stati Uniti. Ma una cosa è certa: Brown e il suo cancelliere dello Scacchiere (il ministro del Tesoro), Alistair Darling, hanno ispirato il tenore della reazione alla crisi mondiale e gli altri governi stanno seguendo il loro esempio…L'esplosione della bolla immobiliare ha causato gravi perdite a tutti coloro che avevano acquistato asset legati al pagamento dei muti; le suddette perdite hanno lasciato molti istituti finanziari con troppi debiti e pochi capitali per fornire al sistema economico il credito che esso necessitava per funzionare; inguaiati, gli istituti di credito hanno tentato di ripianare i propri debiti ed accrescere i propri capitali vendendo gli asset, con il risultato di deprimere i prezzi e di ridurre ulteriormente i capitali a disposizione.”
”La cosa più naturale da fare in questi casi è sostenere con capitali statali gli istituti in difficoltà, in cambio di un ingresso dello Stato nella proprietà degli istituti stessi. Una parziale e temporanea nazionalizzazione era da tempo indicata da molti economisti di fama come la soluzione adeguata per contrastare la crisi in atto…il governo britannico è stato in grado di andare con rapidità al cuore del problema, annunciando l'intenzione di procedere alla ri-capitalizzazione delle banche, spendendosi affinché non si inceppasse il fondamentale meccanismo del prestito interbancario e impegnandosi concretamente a garantire fondi a sostegno degli istituti. Al summit europeo del 12 ottobre i governi hanno seguito il modello inglese, sostenendo di essere pronti a sovvenzionare con centinaia di miliardi di euro le banche nazionali, garantendo inoltre i loro debiti. Ed ora persino il restio Paulson sembra essersi convinto ad abbandonare i titoli tossici ed a seguire un corso d'azione più simile a quello europeo… Perché questo indirizzo perentorio è arrivato da Londra e non da Washington? Non è possibile ignorare il fatto che le mosse iniziali di Paulson siano state dettate dall'ideologia e dal fatto di appartenere ad un governo la cui filosofia può essere riassunta facilmente nel motto “privato è bene, pubblico è male”. Piuttosto, la crisi in atto ha il merito di evidenziare come la collaborazione, su un piano di parità, tra pubblico e privato sia l'antidoto più efficace per evitare, o quantomeno contenere, i ciclici scompensi che sempre più spesso mettono a repentaglio la sostenibilità di un sistema globale complesso ed ormai ineluttabilmente interdipendente.
E' difficile valutare ora la gravità della crisi che stiamo vivendo ed è prematuro parlare di recessione mondiale. Come ricorda Carlo Bastasin (
Il Sole24ore, 14 ottobre), i problemi della finanza globale sono ancora tutti sul tavolo. Ci saranno quindi ancora scossoni e molti costi da sopportare, ma il vuoto di fiducia che terrorizzava investitori ed istituti è stato colmato. L'esito dell'iniziativa europea probabilmente trasformerà il rapporto tra
politica e mercati. I poteri pubblici coordinati possono finalmente ambire ad approcciarsi senza timidezze
alle dinamiche dell'economia globale. La lezione della crisi è dunque che i poteri pubblici, se lo vogliono, sono in grado di governare i fenomeni globali, ma solo trasformando se stessi, creando ambiti di decisione sovranazionale e sfruttando il funzionamento ordinato dei mercati con un comportamento trasparente di fronte ai cittadini. Non più sudditanza verso i grandi centri finanziari, quella stessa sudditanza che ha impedito a lungo all'amministrazione Usa di regolamentare
Wall Street, non più cieca fiducia nella capacità miracolosa dei mercati di auto-governarsi. Ma nemmeno tentazioni neo-stataliste, decisamente anacronistiche. Sotto questo profilo, l'auspicio è che il ritorno all'economia sociale di mercato, promossa da Londra ed adottata da Bruxelles, non costituisca semplicemente un palliativo per lenire gli effetti della crisi ed in quanto tale accantonato in tempi brevi. La speranza è che i principi socialisti e liberali che orientano questa visione progressista e responsabile dei rapporti tra politica e mercati
influenzino virtuosamente gli sviluppi dell'economia mondiale anche dopo la fine dell'incubo recessione.