L'INIZIO DELL'ERA OBAMA E LE PROSPETTIVE PER L'EUROPA
Quali mutamenti interverrano nella politica estera americana con la nuova presidenza? Come risponderà l'Europa? Che futuro per i progressisti europei dopo il trionfo dei Democratici Usa? Un convegno organizzato a Londra dalla Fabian Society cerca di rispondere
Data: 2008-11-15
A cura di Fabio Lucchini
La Fabian Society, il più antico think tank britannico, ha organizzato alla Central Hall Westminster di Londra un convegno internazionale per analizzare il risultato della recente, epocale, tornata elettorale americana. La Fabian Society da oltre un secolo gioca un ruolo centrale nello sviluppo delle idee politiche e delle policy progressiste. Pur essendo affiliata al Labour Party è editorialmente ed organizzativamente indipendente. L'evento ha offerto l'opportunità di commentare a caldo le prospettive della rivoluzionaria presidenza Obama sui temi chiave nelle relazioni transatlantiche, del cambiamento climatico, dell'economia e della sicurezza internazionali con leader politici europei, accademici e giornalisti. Ha moderato il dibattito Sunder Katwala, segretario generale della Fabian.
David Lammy, parlamentare laburista e Minister of State for Higher Education and Intellectual Property del governo Brown ha inaugurato la Conference, evidenziando la portata storica dell'elezione di Barack Obama. Un evento di rilevanza tale da caratterizzare la prima decade del ventunesimo secolo, accanto alla tragedia dell'11 settembre e a quanto ne è seguito. Il successo del senatore dell'Illinois, ha proseguito il ministro, potrebbe mettere in moto un processo positivo e virtuoso nella vita internazionale, poiché ovunque nel mondo la sua elezione è stata accolta con entusiasmo. Sembra esservi ovunque la predisposizione d'animo a collaborare con il nuovo corso di Washington: una cambiale in bianco che Obama potrebbe utilizzare per imbastire un dialogo multilaterale su cambiamento climatico, terrorismo e sicurezza internazionale, oltre ovviamente all'incombente crisi economica.
Lammy, amico di Obama (a cui lo unisce una storia umana e politica simile), non ha nascosto la sua soddisfazione al momento di rilevare quanto poco abbia contato l'issue razziale nella scelta degli americani. L'esito del 4 novembre è stato determinato da altri fattori, quali la personalità del candidato, la sua proposto politica, la sua visione di "speranza" e "cambiamento". Obama è stato in grado di costruire una coalizione vasta ed eterogenea, socializzando alla politica coloro che non avevano mai votato prima, giovani od anziani. Il risultato è senza precedenti nella storia Usa: oltre 65 milioni di voti.
Il momento è storico per chiunque creda nelle politiche progressiste, anche su questa sponda dell'Atlantico. Molti sottolineano la straordinaria abilità dello staff di Obama nell'utilizzare gli strumenti tecnologici più avanzati per veicolare il proprio messaggio, ma sarebbe ingeneroso ritenere che la sostanza del discorso obamiano sia subordinato alla indubbia mediaticità del personaggio. Tutto ruota intorno al concetto di "cambiamento".
Sebbene nel Regno Unito sia ora il leader conservatore David Cameron a proporsi come alfiere del cambiamento, è innegabile che le suggestioni ed i programmi del presidente-eletto Usa siano più facilmente riconducibili alle priorità perseguite dal New Labour nella sua esperienza decennale di governo, ha scandito orgogliosamente Lammy. L'idea di servizio pubblico, di governo per la gente e con la gente, connota in senso progressista il discorso di Obama e lo riconduce nell'alveo del New Deal di Franklin Delano Roosevelt, della NewFrontier di John Fitzgerald Kennedy e della Great Society di Lindon Johnson. Una fase storica interrotta dall'onda lunga del reaganismo e del thatcherismo, ma forse pronta oggi a rinascere sotto nuove forme.
I tempi paiono insomma maturi per rinnovare la concezione dei rapporti sociali e delle relazioni tra Stati. L'analisi condivisa da Democratici Usa e Laburisti britannici parte dal presupposto che la deregulation estrema ha fallito, a tutti i livelli. Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti, ma il cupo pessimismo od il panico non aiuteranno ad uscire dal tunnel della crisi. Se Cameron parla di società britannica sfasciata, Obama, pur non nascondendo le difficoltà, crede nella rinascita del suo Paese ed invita all'ottimismo. Proprio in questa predisposizione d'animo Lammy intravede le ragioni del successo di Obama, più rassicurante di un rivale, McCain, che ha speso le ultime settimane di campagna elettorale a mettere in guardia gli americani sulle manie "socialiste e redistributive" del Democratico. Tuttavia, proprio l'accento posto su una questione basilare di giustizia sociale come l'aumento dell'imposizione fiscale alle fasce più ricche della popolazione deve aver convinto molti indecisi della sua genuina volontà riformatrice, così che la retorica anti-fiscale dei conservatori, per solito efficace, questa volta non ha attecchito.
Lungi dall'essere un puro e semplice ritorno allo statalismo, ha concluso Lammy, l'ethos obamiano rimanda all'idea dell'azione collettiva e dell'empowerment. Quando Obama sostiene "questa campagna non riguarda me, riguarda voi", opera una sintesi tra libertà personale e riscoperta del valore della collettività, prendendo atto dei guasti provocati nei decenni scorsi dall'eccessiva enfasi sull'individualismo egoista e la deregolamentazione.
Politica estera americana: cosa cambierà? Un altro dettaglio merita attenzione. A Berlino, durante l'ormai celebre discorso del luglio scorso, Obama non ha mai menzionato le Nazioni Unite, nominando invece spesso la Nato. Evidentemente, ciò è dovuto alla maggiore efficacia di quest'ultima organizzazione nel raggiungere obbiettivi concreti, quali il contenimento dell'Urss prima e l'affrancamento di molti Paesi dell'Europa centro-orientale dal giogo del Cremlino poi. Un riferimento non casuale al quale sia Bruxelles che Mosca farebbero bene a prestare ascolto.
L'Europa risponde Il parlamentare laburista Denis MacShane ha inaugurato la sessione, presieduta da Roger Liddle di Policy Network, entrando subito nel vivo della questione, con un paragone ardito ma efficace: l'Europa non può permettere che la Russia completi il suo disegno di strappare una porzione di territorio alla Georgia, come fecero settanta anni fa i nazisti con la Cecoslovacchia. Non è in questione le responsabilità dello scoppio della guerra russo-georgiana di questa estate, ma la sproporzione della reazione russa alle manovre di Tbilisi ed i vantaggi che il Cremlino vorrebbe indebitamente ricavare dalla situazione di tensione che si è venuta a creare in quel settore dell'ex impero sovietico. Il problema è annoso; c'è da augurarsi che anche grazie alle aperture della nuova amministrazione Obama, Usa ed Europa trovino una comunione di intenti per opporsi a manovre di tal fatta, che evidenziano più d'ogni altra cosa le tentazioni revansciste ancora vitali al Cremlino.
Tuttavia, Rolf Mutzenich, membro del Bundestag, ha tenuto a sgombrare il campo da equivoci, ribadendo come ogni discorso relativo all'ammissione di Ucraina e Georgia nella Nato sia decisamente prematuro. L'analista tedesco ha mostrato una certa comprensione per la “sindrome di accerchiamento” che la Russia sta vivendo in seguito non solo all'allargamento della Nato in Europa orientale, ma anche alla progettata installazione del sistema anti-missilistico Usa nel Centro-Europa. Certo, le paure russe sono esagerate, talvolta paranoiche, dato che lo scudo anti-missile poco potrebbe contro il potente arsenale a disposizione di Mosca. Ciò non di meno, liquidare con un'alzata di spalle le rimostranze del Cremlino sarebbe semplicistico e pericoloso. Così come una risposta incoerente e frammentata da parte dell'Occidente. Europa e Stati Uniti devono invece sviluppare (da quanto tempo lo sosteniamo?) un'azione comune verso la Russia, volta a rassicurare le legittime ansie di Mosca, ma anche a porre limiti stringenti agli eccessi russi.
Al mondo serve un Occidente coeso e in grado di tracciare la rotta su un ampio novero di questioni focali.L'esponente del Green Party, Jean Lambert, non ha dubbi sulle priorità da affrontare: dalla riforma del sistema commerciale (le norme dell'Organizzazione mondiale del commercio -l'Omc- devono essere riformate e rese esecutive) al raggiungimento di un framework condiviso per frenare il riscaldamento climatico globale incipiente. Ma sarebbe sbagliato confidare troppo nelle doti taumaturgiche di Obama. L'Europa deve fare la sua parte. Alle istituzioni Ue si richiede un processo decisionale più agile ed un momento applicativo più risoluto. Alla “nuova America” che pare prefigurarsi dovrà corrispondere una “nuova Europa” più efficiente e responsabile. Ad esempio: se il presidente Obama dovesse chiedere un maggiore impegno militare europeo in Afghanistan quali sarebbero le reazioni da Bruxelles, Parigi e Berlino?
Bill Rammel, parlamentare e Minister of State for the Foreign & Commonwealth Office, sposa questa linea, domandandosi: “L'Europa è pronta per un presidente come Barack Obama?” Egli non è George W. Bush; non è screditato come il suo predecessore ed è presumibile che le sue richieste all'Europa vengano considerate autorevoli e ragionevoli dall'opinione pubblica del Vecchio Continente. All'Ue potrebbe presto toccare l'onere della prova: Sarà in grado di collaborare con un'America propositiva ed aperta al confronto quando l'alibi Bush verrà definitivamente rimosso?
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