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INDIVIDUO, CITTADINO E POTERE NELL’ISLAM MEDITERRANEO

Soltanto le riforme e lo sviluppo del capitale umano garantiranno il rafforzamento della società civile dei Paesi arabi e la possibilità di costruire prospettive di maggiore libertà, benessere e sicurezza per tutto il Mediterraneo

Data: 2009-02-14

Fabio Lucchini

Un aspetto che spesso si ignora nel dibattito intorno all'Islam mediterraneo è la differente concezione dell'esistenza umana che separa i musulmani della sponda sud dagli europei della sponda nord. Mentre i primi tendono ancora naturalmente a considerare la vita terrena come un passaggio ed a riservare ai precetti religiosi un ruolo centrale nell'orientare il proprio comportamento, i secondi, per quanto il Cristianesimo sia alla base della civiltà europea, vivono immersi in una realtà completamente secolarizzata. Una premessa banale forse, ma utile a spiegare per quale motivo gli individui musulmani che scelgono di attraversare il mare e di vivere in Europa si trovino talvolta a disagio quando vengono chiamati a confrontarsi con categorie quali laicità, democrazia e tolleranza, che sono il portato della modernità occidentale. Non indugia in giri di parole Yadh Ben Achour, Docente di Diritto alla Facoltà di Giurisprudenza dell'Università di Tunisi e già  membro del Consiglio costituzionale tunisino, al momento di aprire il suo intervento alla conferenza “Individuo, cittadino e potere nell'Islam mediterraneo”, organizzata del Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente (Cipmo) lo scorso 27 gennaio a Milano.

Un immigrato proveniente dalla sponda sud del Mediterraneo, prosegue Ben Achour, si trova dunque a confrontarsi con un sistema valoriale diverso. Le difficoltà di adattamento al nuovo ambiente culturale possono, ed hanno, generato sentimenti di rifiuto da parte delle società d'approdo, xenofobie e conflitti. Un processo destinato ad esasperarsi con l'ineluttabile incremento demografico islamico nei Paesi europei. Nei prossimi anni è anche presumibile che gli immigrati diventino una forza elettorale con la quale fare i conti, una fascia sociale la cui voce dovrà essere ascoltata. La conflittualità non è l'unico esito possibile. La maggioranza dei migranti musulmani ha mostrato la volontà di integrarsi e di rispettare le norme e le leggi che regolano le nostre società. E' interessante notare come in questo ampio gruppo formalmente integrato vi siano delle sfumature tra coloro che accettano ed interiorizzano alcuni aspetti della cultura occidentale e coloro che rimangono aderenti in tutto e per tutto alla propria identità religiosa e culturale. Quale la reazione degli europei? Si oscilla tra un'apertura multiculturalista nei confronti dei diversi sistemi di valore (apertura spesso condizionata alla reciprocità) e un rifiuto spesso irrazionale del diverso, sostenuto dall'argomentazione che per sua natura l'Islam non possa essere in alcun modo integrato o convivere con altre culture e religioni (paura dell'islamizzazione dell'Occidente, timore per il progressivo costituirsi dell'Eurabia, psicosi securitarie, ecc.).

Peraltro, lo studioso tunisino preferisce soffermarsi sulle dinamiche che caratterizzano il rapporto tra la società civile e lo Stato nei Paesi arabi del Mediterraneo meridionale, una realtà poco conosciuta, a torto ignorata dall'opinione pubblica europea e descritta come autoritaria ed arretrata. Il mondo arabo non è solo dittatura e autocrazia, ma anche modernizzazione e sviluppo. Nel corso del XX secolo non sono mancati significativi episodi di laicizzazione e una serie di progetti politici (ad esempio il nasserismo in Egitto) che hanno cercato di prescindere dall'islamismo. Sebbene l'ondata laica e nazionalista, che ha avuto il suo acme negli anni sessanta, sia stata ridimensionata dal revival islamista dei decenni successivi, quella stagione ha inciso profondamente sui costumi sociali e sulle credenze collettive. Il quadro politico si sta lentamente muovendo, anche se è evidente che l'instaurazione di sistemi di governo realmente democratici nell'area appaia una prospettiva piuttosto lontana.

Stati polizieschi, ideologici e carismatici dominano la scena in tutto il mondo arabo che guarda l'Europa meridionale. Ma i governi dimostrano di non essere insensibili alla sfida democratica, o quantomeno di non essere più nelle condizioni di ignorala. Da Rabat al Cairo, i leader politici sentono sempre più spesso l'esigenza di appellarsi alla retorica democratica per legittimare il proprio potere e giustificare il proprio operato. Una esigenza formale quanto si vuole ma avvertita, che denota un ammorbidimento di autocrazie sino a pochi decenni fa chiuse ad ogni forma di discorso che facesse riferimento a concetti quali rappresentanza, società civile ed elezioni. E' peraltro evidente lo scarto tra un processo elettorale sostanziale e la pseudo-consultazione che nel settembre 2005 ha portato alla rielezione alla presidenza egiziana di Hosni Mubarak con quasi il novanta per cento dei voti.

Oltre al gradualismo dei governanti un altro fattore minaccia l'evoluzione democratica e partecipativa delle società arabe. L'esodo: lo spostamento interno delle masse verso le città causa un sovraffollamento micidiale che non crea cittadinanza, ma provoca disagio, miseria, frustrazione, soprattutto nelle giovani generazioni. E' questo il terreno di coltura privilegiato dell'integralismo. Nelle bidonvilles di Casablanca così come nei quartieri poveri del Cairo, i giovani avvertono alla stregua di una crudele beffa la promessa di progresso e prosperità al centro della retorica dei loro governanti. Di fronte all'immobilismo e alla precarietà della propria condizione quotidiana alcuni piombano in una deriva esistenziale che li rende più vulnerabili alla disperazione e alla manipolazione ideologica, che possono condurre a scelte estreme e irrevocabili. Ragion per cui, conclude Ben Achour, la “tematica sicurezza” rimane al centro delle preoccupazioni degli europei quando si tratta di fronteggiare il fenomeno migratorio promanante dal Mediterraneo meridionale.

D'altro canto, se si vuole imbastire un genuino dialogo euro-mediterraneo, come le prese di posizione ufficiali dei leader europei lascerebbero presagire, i contenuti del dibattito dovranno essere necessariamente ampliati. Non è sufficiente insistere con i governi arabi affinché stringano le maglie dei controlli per evitare che un flusso sempre maggiore di disperati si accalchi alle porte dell'Unione europea. Impegnata a ottenere impegni formali (e spesso disattesi) sul contrasto agli espatri clandestini dalle coste arabe, l'Europa ha sinora evitato accuratamente di affrontare di petto la questione centrale. E' tempo di premere sulle “leadership amiche” del Cairo, Tripoli, Tunisi, Algeri e Rabat perché rafforzino il loro impegno sul terreno dei diritti, della partecipazione democratica e dello sviluppo economico e sociale dei cittadini. Soltanto lo sviluppo del capitale umano garantirà il rafforzamento della società civile e la possibilità di costruire prospettive di maggiore libertà, benessere e sicurezza nella sponda sud del Mediterraneo. I governi della Ue hanno l'interesse e il dovere ad impegnarsi economicamente e diplomaticamente per mettere in moto e sostenere un simile processo virtuoso.






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