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“ATLANTIDE” E' L’UNICA OPZIONE PER L’OCCIDENTE

La costituzione di un blocco economico Euro-atlantico, liberalizzato al suo interno e pronto al dialogo con le altre realtà regionali, appare la soluzione più efficace per traghettare il mondo fuori dalla crisi globale e per tutelare gli interessi occidentali

Data: 2009-04-02

Fabio Lucchini

La riunione del G20 e la visita europea di Barack Obama giungono in una fase cruciale per il futuro dei rapporti transatlantici. Per sessant'anni gli Stati Uniti hanno giocato un ruolo predominante nel sistema finanziario internazionale, guidato l'Occidente e costituito un punto di riferimento imprescindibile per tutte le principali economie di mercato. Le attuali difficoltà dell'America sembrerebbero confermare le previsioni di quanti da tempo vaticinano l'affermazione della Cina come prima potenza mondiale e lo spostamento del baricentro degli affari globali ad Oriente. Ma non si tratta di un esito inevitabile. In realtà, a prescindere dai risultati concreti del G20 londinese e degli altri appuntamenti europei del presidente Usa, proprio a partire dalla ricerca di una soluzione condivisa alla crisi globale potrebbe riaffermarsi la preminenza politica ed economica del mondo occidentale. Dopo tutto, l'Unione Europea e l'America rappresentano ancora più della metà del Pil mondiale. Molto dipenderà da come europei ed americani affronteranno le questioni cruciali che nei prossimi mesi metteranno alla prova la loro volontà di ricostituire l'unità d'intenti indebolita durante gli anni dell'amministrazione Bush. Questi gli interrogativi a cui Europa e Stati Uniti dovranno rispondere congiuntamente: Come risollevarsi rapidamente dalla recessione? Come rilanciare la crescita e garantire la stabilità del sistema economico? Quale sarà il rapporto di forze in Eurasia e quindi a livello globale nel mondo multipolare?
Un fatto è certo. La qualità della riorganizzazione economica dell'Occidente avrà un ruolo centrale nel ridisegnare gli equilibri e le dinamiche globali.

In un'acuta analisi di George Friedman (Stratfor.com) viene messa in risalto la centralità del rapporto tra Stati Uniti e Germania nell'ambito della comunità transatlantica. Non solo perché Berlino rimane la locomotiva economica dell'Europa continentale, ma soprattutto perché le sue priorità appaiono diverse da quelle statunitensi. Obama e i leader europei sono senz'altro sinceri quando sostengono di voler ricucire gli strappi del passato ed intensificare la consultazione e il dialogo, ma non è detto che le grandi aspettative reciproche vengano confermate dalla realtà. Infatti, se gli europei partono dal presupposto che l'America obamiana, a differenza di quella di Bush, tenga in grande considerazione la loro opinione, Washington appare determinata a chiedere agli alleati di assumersi maggiori responsabilità rispetto al passato.

La gestione della crisi economica in atto sta fungendo da cartina di tornasole nell'evidenziare le contraddizioni tra gli alleati. Stati Uniti e Regno Unito hanno fatto ricorso a robusti pacchetti di stimolo per rivitalizzare il sistema e sollecitano i Paesi guida dell'Europa continentale perché adottino misure similari. Il sospetto è che la Germania, la cui economia è fortemente trainata dall'export, intenda sfruttare la crescente domanda creata dagli interventi statali americani e britannici per rilanciare le proprie esportazioni verso il mondo anglo-sassone. Cioè, Germania, e Francia, finirebbero col beneficiare del debito interno di Washington e Londra per uscire dalla crisi senza pagare alcun prezzo. Il cancelliere Angela Merkel sostiene che la Germania non sarebbe in grado di varare e sostenere un piano di stimolo economico all'economia paragonabile a quello messo in campo dagli alleati. Simile la posizione dell'Eliseo. Le incongruenze non si limitano a questo aspetto, ma si estendono alle modalità di gestione del dissesto finanziario dell'Europa orientale. Washington considera la questione di pertinenza Ue e sollecita un'azione coordinata dalla Banca centrale europea (Bce) e degli istituti di credito dell'Europa occidentale, mentre Berlino, dopo aver bloccato un piano di salvataggio continentale, sostiene che non sia compito dell'Ue ma del Fondo monetario internazionale (Fmi), e dunque anche degli Usa, risollevare le sorti economiche dell'Est.

Come è facile dedurre, la matassa che Obama si trova a maneggiare è particolarmente ingarbugliata. Per ricostituire solidamente la comunità transatlantica il presidente Usa ha bisogno che gli europei concedano qualcosa. Se dopo una settimana ricca di occasioni di confronto (il G20, il vertice Nato, il summit Usa-Ue) egli dovesse concedere fondi americani per l'intervento del Fmi in Europa orientale senza ottenere in cambio un serio impegno europeo le fondamenta della sua politica estera verrebbero inesorabilmente indebolite. Sotto questo profilo, la buona volontà europea si misurerà dalla disponibilità di Berlino e Parigi ad adottare un piano di sostegno all'economia in linea con quanto deciso dai loro partner anglo-sassoni o quantomeno ad assumersi maggiori responsabilità militari sul fronte afgano. Quel che è certo è che un ulteriore indebolimento dell'asse Washington-Bruxelles non conviene né agli europei né agli americani. Impressione rafforzata dalle vicende che nell'estate scorsa hanno portato al collasso del Doha Development Round in seno all'Organizzazione mondiale del commercio (Omc).

Il momentaneo fallimento del processo di Doha, che avrebbe dovuto condurre ad un'apertura multilaterale del commercio internazionale, ha messo in evidenza la scollatura esistente tra Oriente ed Occidente. In un contributo per l'International Herald Tribune, l'ex direttore dell'Economist, Bill Emmott, e l'ex ministro canadese, Roy MacLaren, ammettono che il multilateralismo commerciale sarebbe teoricamente desiderabile, ma concludono che, allo stato dell'arte, il regionalismo possa essere la soluzione sia per rilanciare la crescita economica sia per tutelare gli interessi occidentali. Europa e America stanno perdendo la loro supremazia economica nei confronti di Cina ed India e, non essendo state in grado di trovare un modus vivendi con le nuove effervescenti potenze asiatiche, rischiano di essere tagliate fuori dal sistema commerciale regionale ed extra-regionale che Pechino e New Delhi stanno costruendo in Asia e Africa.

Serve una svolta, che potrebbe concretizzarsi in un mega-regionalismo che preveda un grande accordo commerciale transatlantico, suggeriscono Emmott e MacLaren. Certo, l'orizzonte multilateralista rimane affascinante e non va abbandonato, ma i tempi non sono affatto maturi. Una diversione a favore di un compatto blocco occidentale costringerebbe la Cina, l'India e le altre nazioni emergenti a negoziare seriamente per evitare di rimanete escluse dalla possibilità di accedere ad un grande mercato transatlantico. Un simile accordo darebbe notevole impulso alla ripresa e consentirebbe a Washington e Bruxelles di mantenere il proprio ruolo a dispetto della sindrome da sorpasso da parte di “Cindia”, l'asse Pechino-New Delhi. Ma non solo.

Il rafforzamento e la liberalizzazione del mercato atlantico costituirebbero i primi passi per una maggiore integrazione politico-sociale dell'Occidente e per un ripensamento strutturale del modello economico capitalista. Infatti, la crisi del modello puramente speculativo che ha contraddistinto gli anni del turbo-capitalismo ha portato alla crisi attuale del modello finanziario tout-court. E' necessario ripartire dalla produzione, dall'economia reale, lasciando in secondo piano l'economia virtuale che tanti guasti ha provocato. Occorre rilanciare il ruolo dello Stato, dell'intervento pubblico, delle politiche di welfare, ma non ricalcando il vecchio, ormai sclerotizzato e inefficiente, modello europeo. Un modello che, efficace un tempo, si è recentemente dimostrato insostenibile quanto la deregolamentazione individualistica americana. I concetti ispiratori del nuovo welfarismo dovrebbero rimandare ai principi dell'empowerment e della leale collaborazione tra Stato e cittadino, così come delineati dalle più avanzate posizioni del laburismo britannico e della pubblicistica statunitense (vedi il contributo della Brookings Institution). Un sistema transatlantico rinnovato insomma, che potremmo definire “Atlantide”, caratterizzato dalla completa liberalizzazione del suo blocco economico e rigenerato da una concezione evoluta della democrazia, del capitalismo e del ruolo regolatore dello Stato. Un blocco geo-economico che conterebbe su un mercato interno di 600 milioni di persone, sarebbe pronto a dialogare con autorevolezza con il resto del mondo e a difendere con forza e coerenza i valori fondanti la propria identità politica e culturale: i diritti umani, le libertà e la democrazia.  






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