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"LA TERZA ONDATA". CONQUISTA E DIFESA DELLA DEMOCRAZIA

A pochi mesi della sua scomparsa, una rilettura degli studi di Samuel Huntington sulla diffusione ed il consolidamento della Democrazia nel mondo

Data: 2009-07-03

Fabio Lucchini

Samuel P. Huntington, politologo statunitense recentemente scomparso, deve la sua fama imperitura alla pubblicazione sulla rivista Foreign Affairs, anno 1993, del celebre articolo “The Clash of Civilizations?” (Lo scontro di civiltà?).  Da quell'analisi, come noto, nacque un corposo volume (Lo scontro delle civiltà e la nuova costruzione dell'ordine mondiale), che occupò il centro del dibattito tra i teorici delle relazioni internazionali, sollevando aspre critiche e determinando radicali divisioni tra gli studiosi. L'opera ebbe un grande successo anche fra i non addetti i lavori e, dopo gli eventi dell'11 settembre 2001, sembrò a molti la fedele fotografia del fallimento dell'ordine unipolare e pacifico che sembrava aver caratterizzato gli anni novanta del ventesimo secolo. Secondo Huntington le speranze di quanti ritenevano finita la Storia col crollo dell'Unione Sovietica erano prive di fondamento, come dimostrato dai conflitti scatenatisi al termine della Guerra Fredda. Anzi, l'enfasi sul crollo delle grandi narrazioni ideologiche e sul presunto trionfo del liberalismo occidentale avrebbe fatto perdere di vista a molti analisti i fattori all'origine dei sanguinosi conflitti scoppiati nell'ultima decade del novecento. Tali conflitti tenderebbero a verificarsi con maggiore frequenza e violenza lungo le linee di divisione culturali tra i popoli. Huntington infatti credeva che la divisione del mondo in civiltà fosse preferibile alla suddivisione classica in Stati sovrani. Supponeva che fossero da comprendere innanzitutto le divergenze culturali e che la cultura dovesse essere accettata come luogo di scontro. Per questo motivo egli sottolineava come il mondo occidentale rischiasse di perdere la propria egemonia mondiale se non avesse saputo adattarsi alla realtà complessa e frammentata delle relazioni internazionali in un sistema non unipolare, ma tendenzialmente multipolare.

L'accademico di Harvard ha lasciato quindi un messaggio duro e realista, scevro dall'ottimismo fiducioso di quanti, dopo il 1989, immaginavano ingenuamente un sistema globale dove avrebbero regnato l'armonia, la concordia e soprattutto il binomio libertà/democrazia. Non è andata così, non sta andando così. La crisi iraniana di queste settimane rappresenta un monito eloquente. Tralasciando i rischi e le minacce che la conflittualità internazionale pone alla stabilità globale, proprio gli avvenimenti post-elettorali a Teheran riportano in auge un altro aspetto della lunga e corposa attività di ricerca di Huntington: l'affermazione e il consolidamento dei sistemi democratici. Un argomento al quale lo studioso ha dedicato diverse pubblicazioni, trattandolo con particolare sistematicità in “La terza ondata. I processi di democratizzazione alla fine del XX secolo”, un volume del 1998 che, senza avere la visibilità planetaria dello “Scontro delle civiltà”, offre interessanti spunti per comprendere le condizioni che hanno sovente permesso alla Democrazia di imporsi sull'Autoritarismo. Un risultato straordinario, di portata globale, che spesso viene ormai considerato definitivamente acquisito. Un grosso errore, se si considera che tuttora nel mondo esistono regimi ferocemente repressivi e che molte fragili democrazie rimangono esposte ad un'involuzione liberticida.

Perché Huntington parla di “Terza ondata”? L'autore si sofferma sulla progressiva diffusione del metodo democratico nel mondo, a partire dalla rivoluzione dei garofani in Portogallo nel 1974 per arrivare al crollo del socialismo reale in Europa dell'est alla fine del decennio successivo. Le precedenti “ondate” si riferiscono alla generalizzata liberalizzazione dei regimi politici avvenuta a cavallo del diciannovesimo e del ventesimo secolo e dopo la seconda guerra mondiale. Da notare che queste due fasi di democratizzazione sono state seguite da altrettanti periodi di riflusso autoritario, coincidenti nel primo caso con l'età dei fascismi in Europa e nel secondo caso con l'instaurazione di dittature in America Latina, Asia, Africa ed Europa orientale tra gli anni cinquanta e settanta del ventesimo secolo. Tutto ciò per ammonire chiunque nutrisse velleità di ottimistico determinismo storico: la democrazia non è l'approdo inevitabile, poiché essa può essere minacciata e rovesciata. E' una conquista da difendere. Spesso la prima esperienza democratica di un Paese si è risolta in un fallimento o in una sconfitta. La Repubblica di Weimar, la Spagna pre-franchista e il Cile di Allende sono soltanto alcuni degli esempi proponibili. Esperienze negative che si sono trasformate in utile bagaglio di conoscenze per consolidare il successivo esperimento democratico, regolarmente rivelatosi soddisfacente e duraturo. Ciò considerato, l'attenta e minuziosa analisi di Huntington sulle condizioni che hanno permesso la liberalizzazione politica dell'ultimo scorcio del novecento rappresenta uno strumento sofisticato per comprendere sia rischi che gravano sulle più fragili tra le democrazie contemporanee sia le opportunità che si aprono per favorire l'apertura democratica delle società ancora sottoposte al giogo dittatoriale.

Huntington propone una trattazione sistematica della materia, alla ricerca delle regolarità, ma anche delle peculiarità, che hanno caratterizzato la transizione democratica di molti Paesi nelle più disparate aree geografiche e culturali del globo. Innanzitutto, a determinare il crollo di molti regimi autoritari è stato il calo della loro legittimità politico-ideologica davanti alla popolazione, sempre più attratta dal modello alternativo liberale e democratico dell'Occidente, un modello che proponeva inoltre uno stile di vita agiato e seducente che finiva per far breccia, in un mondo via via più globalizzato ed interconesso, nell'immaginario delle fasce giovani e dinamiche costrette a vivere in sistemi illiberali. Non sorprende che oggi i Paesi dell'Europa orientale siano tra gli alleati più fedeli degli Stati Uniti d'America, rispecchiando anche il sentimento filo-occidentale di un'opinione pubblica che, cresciuta nelle ristrettezze degli ultimi anni del blocco sovietico, ha coltivato e coltiva tuttora i miti legati al sogno americano.

Contestualmente, al fattore economico viene assegnato un peso rilevante, sebbene non decisivo, nel processo di democratizzazione. L'influenza delle condizioni materiali sulla tenuta dei regimi autoritari è ambivalente, precisa Huntington. Se è vero che una crisi economica può indebolire un governo autoritario (ma questo è vero anche per un governo democratico), è altrettanto evidente che una crescita del benessere della popolazione possa proporre minacce esistenziali alla dittatura e all'oscurantismo. Infatti, il benessere favorisce la fiducia interpersonale, aumenta il livello di istruzione, facilita la distribuzione di risorse tra i gruppi, intensifica le aperture verso l'esterno, consente la formazione di una classe media e quindi di una opinione pubblica consapevole, in grado di muovere critiche al potere e di impegnarsi concretamente per il cambiamento. E' quanto è avvenuto in passato e che molti auspicano possa ancora avvenire in Iran, dove gli ayatollah hanno scoperto, o forse riscoperto, di avere di fronte una vasta opposizione costituita principalmente da giovani istruiti, desiderosi di liberarsi dalla cappa autoritaria e castrante nella quale loro e i loro genitori sono costretti a vivere da trent'anni a questa parte.

Huntington prosegue la sua analisi soffermandosi sulla forte correlazione tra cristianità occidentale (in particolare l'etica protestante) e democrazia, ricordando il contributo della Chiesa cattolica alla battaglia contro l'autoritarismo. Un ruolo complesso e non privo di ombre in realtà: come dimenticare l'ambiguità delle gerarchie ecclesiastiche e di alcune chiese nazionali nei confronti di alcuni regimi dittatoriali europei e sudamericani…Un ruolo che ha avuto peraltro i suoi momenti più alti e positivi nelle aperture moderniste del Concilio Vaticano II e nelle visite pastorali di Giovanni Paolo II nell'est europeo. Se il Cristianesimo rappresenta un sostrato spirituale e culturale fecondo per la diffusione della libertà, non si può dire altrettanto per altre religioni, come dimostra la tormentata (o mancata) affermazione delle istituzioni democratiche nei Paesi buddisti, confuciani e islamici. Nei primi due contesti cultural-religiosi, le difficoltà di impiantare i germogli liberali sono riconducibili alla tradizionale preminenza assoluta della Stato sul cittadino e al ruolo centrale riservato al concetto di armonia e gerarchia nelle società asiatiche. Il conflitto in ogni sua manifestazione viene considerato pericoloso per l'ordine costituito, mentre l'obbligo di riconoscere l'autorità e la gerarchia è assoluto. Non stupisce perciò che in Asia orientale, prima degli anni novanta, solo Giappone e Filippine avessero avuto esperienze democratiche. Nel mondo musulmano la scarsa emancipazione della vita politica dai precetti religiosi  e dalla tradizione ha permesso ai regimi ereditari (Arabia Saudita), islamisti (Iran) o pseudo-nazionalisti  (Egitto) di sopravvivere agevolmente alla terza ondata, al limite concedendo timide liberalizzazioni.

Tra le cause della terza ondata, sicuramente le politiche adottate dagli organismi internazionali e dai principali attori del sistema globale a partire dagli anni settanta del secolo scorso: l'Unione Europea, con la decisione di ribadire il criterio della democraticità per l'accoglimento di nuovi membri; la storica Conferenza di Helsinki, con la conseguente maggiore apertura dell'Urss e dell'Oriente europeo (una prima breccia nel moloch sovietico); gli Stati Uniti di Carter e Regan, con la scelta, talvolta contraddetta dalla pratica (Affare Iran-Contras), di sostenere la difesa dei diritti umani  e la diffusione della democrazia nel mondo con strumenti diplomatici, economici e militari; la stessa Unione Sovietica, con l'ascesa di un leader pronto al cambiamento come Gorbacev.  Senza dimenticare, ancora, il potenziamento dei mezzi di comunicazione che, soprattutto nel fatale 1989, favorirono l'effetto-domino libertario che scardinò i sistemi comunisti ovunque in Europa, dalla Polonia alla Germania Est.

Quali le modalità che hanno permesso tutto ciò e quali le condizioni perché simili processi possano verificarsi altrove e perché le conquiste democratiche vengano mantenute dove già conquistate? La terza ondata di democratizzazione, che ha investito molti regimi monopartitici, militari e alcune dittature personali nell'ultimo trentennio, ha avuto tra i suoi attori principali sia le forze di governo sia quelle di opposizione, che, alternativamente o congiuntamente, hanno diretto il processo di emancipazione politica. Nel dettaglio, Huntington individua tre modalità che nella pratica hanno guidato il passaggio dall'autoritarismo a sistemi più aperti e liberi. Egli parla di “trasformazione” quando le élite al potere (o parte di esse) hanno avviato la transizione alla democrazia, di “sostituzione” quando invece è stata l'opposizione ad assumere un ruolo decisivo nella svolta e infine di “transostituzione” quando il cambiamento si è rivelato frutto di un'azione congiunta di esponenti del vecchio regime e dei loro oppositori, magari ex dissidenti e perseguitati politici.
Dallo studio emergono una serie di regolarità che offrono spunti di riflessione utili anche a comprendere le dinamiche attuali e le prospettive future di emancipazione di quei Paesi ancora soggetti a forme di governo non rappresentative. Innanzitutto, è importante rilevare che la prevalenza di trasformazioni e di transostituzioni ha contribuito al basso livello di violenza che ha accompagnato la diffusione dei sistemi democratici nel mondo. Piuttosto si sono rivelati fondamentali i negoziati, i compromessi, gli accordi. Paradigmatico il caso spagnolo, dove la politica del compromesso ha raggiunto il suo culmine con l'assemblea costituente e patti della Moncloa (1977). Una transizione morbida che potrebbe aver avuto un ruolo nell'ispirare e concretamente influenzare la successiva evoluzione politica in Sudamerica e nell'Est europeo.

Proseguendo nel solco della moderazione e del gradualismo, Huntington scredita, dati alla mano, la “sostenibilità democratica” degli eventi rivoluzionari e delle sollevazioni popolari violente. La dinamica rivoluzionaria porta al passaggio da un regime autoritario ad un altro, come dimostrano diversi episodi nell'intero corso del novecento. Invece, la caratteristica qualificante e positiva della terza ondata afferisce alla sua natura prevalentemente incruenta, tale da determinare la nascita di istituzioni rappresentative e stabili poiché frutto di confronto pacifico, mediazione e dibattito tra le varie componenti politiche e culturali del regime che si apriva al pluralismo. In un simile contesto assume un'importanza cruciale il momento elettorale, anche nella sua fase embrionale. Quando un regime apre spazi di rappresentanza (seppur minimi) all'opposizione mediante lo strumento elettorale, il primo passo verso la transizione democratica è compiuto. E' forte la tentazione di negare ogni legittimità a consultazioni promosse da un regime e presumibilmente viziate da limitazioni, brogli ed irregolarità di vario genere. Spesso tuttavia simili passaggi hanno determinato sorprendenti accelerazioni nel processo di emancipazione delle società, soprattutto nell'est europeo. Sconvolgimenti non previsti dalle stesse forze di governo che avevano promosse le consultazioni. In altri contesti, nel mondo arabo ad esempio, lo strumento elettorale è stato sinora gestito abilmente da alcuni governi autoritari (ad esempio l'Egitto di Mubarak), senza che ciò ingenerasse un'inattesa accelerazione democratica. Le urne rimangono comunque un test insidioso per i regimi non democratici, che in genere (è la Storia a dimostrarlo) vi si affidano e ne tengono conto quando sentono venire meno il proprio controllo sulla società.

Atipica si presenta l'attuale situazione iraniana, dove si sta verificando uno scontro tra due concezioni del processo elettorale. L'ala più oltranzista dei mullah che  ritengono che la volontà popolare debba essere una semplice conferma della volontà divina; un ragionamento che giustifica brogli e violenze per avvantaggiare il candidato che godrebbe del presunto sostegno celeste (in questo caso Ahmadinejad stesso). L'ala riformatrice si batte invece perché il momento elettorale acquisti un peso crescente negli equilibri della Repubblica islamica. Nel breve periodo, la prima fazione sembra destinata ad avere la meglio, ma pare evidente come la vivace stagione contestataria che si è messa in moto dopo il 12 giugno sia suscettibile di intensificare il dibattito interno nel Paese. Un fatto di per sé destabilizzante per la teocrazia.

Un ulteriore passo avanti. Quali sono i problemi delle democrazie che subentrano all'autoritarismo? Quali le problematiche legate al loro consolidamento? Una questione fondamentale per la legittimazione del nuovo regime è legata alla sua efficacia per come viene percepita dalla popolazione. Cruciale per la stabilità democratica è il tipo di risposta delle élite ai problemi endemici (socio-economici) che affliggono un determinato Paese. Il rischio è che insorga una sorta di disillusione democratica, accompagnata da una sindrome nostalgica verso il passato. Un sentimento comune ove le precedenti dittature avessero realizzato buone performance nella gestione delle economiche. Ne conseguono rassegnazione, cinismo, disinteresse per la politica, che raffreddano l'entusiasmo per la conquista della libertà e che, in determinate circostanze, aprono la strada alla restaurazione. La democrazia, ribadisce Huntington, non è mai una conquista definitiva ed irreversibile. Un insegnamento che sarà bene ricordare, se è vero che le libertà che l'Occidente ritiene universalmente accettate vengono tuttora minacciate e negate ovunque nel mondo.







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