Gorbaciov ■ A vent'anni dalla fine dell'Impero sovietico l'ex leader è stimato in Occidente, ma duramente criticato in Russia
Data: 2009-09-15
di VictorSebestyen, Critica Sociale n.7/2009,
A vent'anni dal crollo del Muro, Mikhail Gorbachev viene sommessamente celebrato in Occidente, ma criticato in Russia. Ovunque la sua fama rimane legata al fallito tentativo di riformare il sistema morente in cui realmente credeva. Un articolo della rivista Prospect apre il dibattito sul ventesimo anniversario della caduta del Muro di Berlino.
In una recente intervista, Mikhail Gorbachev ha ricordato gli anni trascorsi alla guida dell'Unione Sovietica. Solitamente, una volta che il vecchio leader inizia a raccontare, risulta piuttosto complicato interromperlo. Ma in questa occasione ha esitato, è rimasto a lungo in silenzio e poi ha lasciato di stucco il suo interlocutore, osservandolo con i suoi occhi penetranti: “Lo sai, in questo momento potrei essere ancora là, al Cremlino. Se fossi stato motivato solo da ambizione personale, da volontà di potere avrei potuto lasciare tutto al suo posto o cambiare ben poco (anche se in realtà ben poco è cambiato). L'Unione Sovietica forse esisterebbe ancora e sarei io a guidarla…”. Poi ha riso. Difficile dire se Gorbachev stesse provando amarezza, ma in quel caso l'avrebbe mascherata bene. In parte, egli ha il classico atteggiamento deluso del leader ritirato, sconfitto od estromesso. Ma Gorbachev ha qualcosa in più da dire, specialmente in corrispondenza del ventesimo anniversario del 1989, l'inizio della fine del suo regno. Anche con il senno di poi, è difficile immaginare che in quei giorni qualcuno potesse credere al crollo improvviso dell'Impero sovietico – il grosso monolite che ha inquietato per due generazioni l'Occidente intero. La gran parte degli analisti pensava che l'Urss potesse sopravvivere decenni, tra tentativi di riforma e fallimenti: un Alto Volta (ora Burkina Faso, ndt) dotato di armi nucleari, pur sempre una potenza ragguardevole. Gorbachev ha “solo” settantotto anni, un'età alla quale molti dei suoi predecessori venivano considerati quasi dei novizi. Negli anni ottanta il segretario del Partito comunista sovietico contava su poteri virtualmente dittatoriali, se solo avesse voluto utilizzarli. Gorbachev avrebbe potuto introdurre riforme marginali ed evitare scossoni ad un sistema che non era cambiato granché dai tempi di Stalin. Invece, egli intendeva salvare il “vero” Comunismo, l'ideologia nobile e pura della Rivoluzione d'Ottobre che considerava alla stregua di una Fede. Con eguale passione credeva nel suo Paese – non la Russia, ma l'Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche. Così, paradossalmente, fu Gorbachev a fare più di chiunque altro per uccidere il Comunismo. Invece di governare al Cremlino, come forse avrebbe potuto fare sino ai giorni nostri, Gorbachev oggi gira il mondo senza sosta, sicuramente armato di un bagaglio firmato Louis Vuitton, di cui è testimonial. Ha fatto fortuna sfruttando a pieno il ricco circuito della conferenze internazionali, essendo tra gli ospiti più ricercati e pagati. Le sue risorse medianiche sembrano infinite – lo scorso giugno è uscito un album dove interpreta le sue canzoni preferite per finalità benefiche. Tecnicamente, vive a Mosca, ma trascorre poco tempo in Russia. Tra i suoi migliori amici figurano oligarchi milionari che sostengono le sue due fondazioni; una dedicata alla conservazione dei suoi documenti d'archivio, l'altra (intitolata alla memoria della moglie Raissa) votata alla lotta alle sindromi cancerogene infantili. Di lui tutto si può dire tranne che venga ignorato in Russia, dove possiede una quota di un giornale moscovita insieme ad uno dei suoi più ricchi sostenitori, l'ex ufficiale del Kgb, Alexandr Lebedev, che ha recentemente acquistato il quotidiano londinese Evening Standard. Tuttavia, quando viene menzionato in patria, Gorbachev resta indissolubilmente legato al crollo dell'Urss e al tracollo finanziario post 1991. E' “l'uomo che ha lasciato crollare un impero senza lottare”, a cui il nazionalismo di matrice putiniana ha attribuito gravi responsabilità per l'umiliante disastro di vent'anni fa. Un disastro dal quale la Russia si starebbe riprendendo grazie alla nuova leadership dell'ex agente del Kgb. Nei libri scolastici russi Gorbachev è appena menzionato, e di malavoglia, quasi in una nota a piè di pagina, mentre viene esaltata la figura di Stalin, benché “L'uomo di ferro” fosse georgiano di origini. All'estero la storiografia si sta dimostrando più generosa. In futuro, Gorbachev potrebbe essere ricordato come la personalità che ha guidato la liberazione di un terzo dell'Europa dall'occupazione militare e dal totalitarismo, per il suo ruolo nel favorire la conclusione della Guerra Fredda e nel non ostacolare (e forse favorire) i grandi moti democratici del turbolento 1989. Inoltre, è possibile identificare gli ultimi anni del suo regno ed i primi del suo successore, Boris Eltsin, con le uniche parentesi libertarie nella Storia della Russia. Di sicuro Gorbachev non era stato nominato per realizzare tutto ciò. Venne selezionato da un gruppo di diciotto rappresentanti della gerontocrazia comunista per la sua relativa giovinezza, per la sua energia e per il suo innegabile fascino personale. Si erano tenuti tre funerali di leader sovietici in due anni e mezzo prima che Gorbachev venisse scelto il 10 marzo 1985. Leonid Brezhnev era rimasto al potere per quasi vent'anni ed aveva personificato un'era di stagnazione. Negli ultimi tempi, il vecchio leader era così fragile da venir trasportato in ascensore sino al Mausoleo di Lenin in occasione della tradizionale parata sulla Piazza Rossa. Yuri Andropov era già malato terminale quando gli successe e governò per soli tredici mesi da un letto d'ospedale. L'elezione del decrepito Konstantin Chernenko, il cui principale compito di governo era stato quello di accendere le sigarette al suo miglior amico (Brezhnev), simboleggiò lo stato derelitto dell'Urss. I boss del Partito avrebbero voluto eleggere un altro vegliardo alla carica, ma non si trovava un candidato plausibile e si avvertiva con urgenza la necessità di uscire dal torpore che stava soffocando ed immobilizzando il sistema. “Compagni, inizieremo il Congresso come al solito, designando il prossimo segretario generale del Partito.” Il nome di Gorbachev venne deciso da Andrei Gromyko, un falco, il ministro degli Esteri che per quattro decadi era stato indicato come il “Mister Nyet” della diplomazia sovietica. Egli convinse gli altri che il cinquantaquattrenne Gorbachev, il più giovane membro del Politburo, non si differenziasse sostanzialmente da loro, ma avesse in più il vigore necessario per rilanciare l'Unione Sovietica. Non lo scelsero perché qualche mese prima Maragret Thatcher aveva affermato di essere pronta a discutere con lui. Lo scelsero perché pensavano che potesse ravvivare il prestigio dello sclerotizzato monolite moscovita. Gromyko affermava che Gorbachev fosse intenzionato a difendere con le unghie l'impero europeo dei sovietici. Infatti, concluse così il suo intervento di ventiquattro anni fa: “Egli ha un bel sorriso. Ma, compagni, Mikhail Sergeyevich nasconde denti d'acciaio.” La sua nomina portò anche una ventata d'ottimismo a Washington. Jack Matlock, allora alla National Security Agency e principale consigliere del presidente Reagan per l'Urss (e presto nominato ambasciatore a Mosca), esternava sentimenti di entusiasmo: “Sia in patria che all'estero si era stufi di vedere l'Urss deperire sotto la mano incompetente di leader infermi. Gorbachev viaggia, parla, governa…e così facendo ha sconvolto il mondo.” Gorbachev è stato il primo leader sovietico ad essere nato dopo la Rivoluzione bolscevica. La sua è stata la tipica storia di un giovane contadino di provincia nell'Urss di Stalin. La sua regione di provenienza, nel nord del Caucaso, soffrì per la terribile carestia degli anni trenta. Lo stesso Gorbachev ricorda spesso di aver visto molti suoi vicini morire letteralmente di fame. Nei primi tempi egli poté godere di una situazione di privilegio, poiché suo nonno materno era a capo di una fattoria collettiva. Tuttavia, dopo la Grande Purga staliniana del 1937 il suo protettore venne arrestato come “contro-rivoluzionario trotzkista di destra” e la famiglia se la passò piuttosto male per quattordici mesi, sino a quando il nonno venne rimesso in libertà. Da quel momento Gorbachev imparò a conformarsi, diventò un uomo del Partito e dal Partito ebbe tutto. Durante la sua ascesa non si discostò dall'ortodossia e si adattò perfettamente ai meccanismi burocratici e ingessati del regime. Come egli stesso avrebbe più tardi ammesso. “Noi, tutti, eravamo i lacché di Brezhnev, tutti.” Fu soltanto con il suo ingresso nel Politburo che Gorbachev mise in evidenza una delle sue caratteristiche peculiari: il senso dell'umorismo. In privato si distingueva come un grande inventore e narratore di storielle e barzellette sul Comunismo. Battute di spirito a parte, Gorbachev impressionò i suoi collaboratori per la sua sincera fede comunista. Il cinismo era penetrato già così a fondo nell'anima del comunismo sovietico al punto da far sì che poche menti pensanti interne al sistema prendessero ancora seriamente l'ideologia. Gorbachev era convinto che Lenin avesse indicato la strada e che fosse necessario raddrizzare la parabola storica dell'Urss dopo gli errori di Stalin. Egli ha spesso definito Lenin un “genio speciale” e si dedicò alla lettura dei suoi scritti anche negli ultimi giorni vissuti al Cremlino. Il diplomatico Sergei Tarasenko, che lavorò gomito a gomito con lui, ricordava che molti membri dell'apparato si rivolgevano agli insegnamenti del grande rivoluzionario: “Era politicamente corretto avere Lenin nella propria libreria, per utilizzare i suoi detti per delle citazioni nei discorsi pubblici.” Ma per Gorbachev era diverso, poiché egli credeva sinceramente che, settant'anni dopo, gli insegnamenti di Lenin fossero concretamente applicabili alla realtà sovietica degli anni ottanta. Fu in un incontro pubblico a Leningrado nel maggio 1985, dopo due mesi dalla sua nomina a segretario del Partito comunista sovietico, che fecero la loro comparsa due termini destinati ad essere per sempre associati all'azione politica di Gorbachev: perestroika e glasnost. Due concetti entrati nel lessico globale, ma che avevano dei precisi significati nel contesto sovietico. Nei primi tempi, perestroika (ristrutturazione) significava un modesto processo di riforme per migliorare l'efficienza produttiva. Gorbachev introdusse una serie di energiche misure per permettere alle imprese una maggiore libertà di iniziativa e apportò alcune modifica nel sistema di distribuzione dei beni. Rimosse dozzine di burocrati brezhneviani, reperti di un'era di stagnazione repressiva. Intraprese i primi passi per democratizzare l'Urss, riorganizzando le liste elettorali ma mantenendo il partito unico. Nulla di tutto ciò appariva comunque rivoluzionario. Egli non aveva intenzione di abbandonare la pianificazione centralizzata, di introdurre l'economia di mercato, di liberalizzare i prezzi e i salari o di abbandonare il monopolio comunista del potere. Dopo quattro anni di governo, prese infine una decisione davvero radicale: indisse una elezione per il Congresso dei Rappresentati del Popolo, teoricamente il più importante corpo legislativo del Paese. Anche se fece in modo di garantire al Partito comunista una maggioranza schiacciante, il segretario generale permise l'elezione di alcune voci critiche, come il fisico dissidente Andrei Sakharov. Gorbachev parlava spesso e volentieri di Democrazia, ma si guardò bene dal mettersi alla prova in un vero processo democratico. Voleva ristrutturare tutto, ma non toccare le fondamenta. La glasnost (apertura) si rivelò anch'esso un concetto mutevole. Iniziò cautamente ma, come i critici conservatori temevano, una volta che i giornalisti si sentirono incoraggiati a pubblicare notizie sull'incompetenza dei funzionari, sulla triste situazione del sottoproletariato nelle città di provincia, sulla soppressione dei movimenti nazionali e dei dissidenti, l'esperimento finì fuori controllo. Nell'Urss di Gorbachev la stampa non era libera, ma godeva di spazi di espressione mai avuti prima. Il segretario generale credeva ingenuamente che la pubblicazione dei lavori di Solzhenitsyn e Pasternak, così come le rivelazioni degli orrori del passato, avrebbero avuto l'effetto di spingere i cittadini a costruire un'Unione Sovietica migliore. Invece, tutto ciò li spinse ad odiare con maggiore virulenza il Comunismo. Del resto, soltanto un uomo accecato dalla sua Fede come Gorbachev avrebbe potuto immaginare il contrario. La glasnost ebbe conseguenze moto profonde sia all'interno dell'Urss che negli Stati satelliti dell'Europa orientale, effetti più radicali di quanto avesse previsto Gorbachev, che comunque, e questo è un suo grande merito, non fece alcunché per tacitare o reprimere i media. Persino i suoi più grandi ammiratori, persone intelligenti e dedicate che lavorarono senza sosta come suoi collaboratori, finirono per essere talvolta esasperati dai metodi utilizzati dallo statista. Un classico esempio rimanda ai primi mesi al Cremlino, quando decise di lanciarsi in una crociata contro la vodka. Morti premature, criminalità, povertà e famiglie distrutte erano il pegno che la società russa doveva pagare ogni anno all'alcolismo. Nella primavera 1985, Gorbachev dichiarò davanti al Politburo la sua intenzione di triplicare il prezzo delle vodka e di ridurre di tre quarti la produzione di birra e vino. Vladimir Dementsev, il ministro delle Finanze, lo avvertì degli effetti devastanti che una simile misura avrebbe avuto sul budget statale, ma egli lo interruppe: “Niente di nuovo. Sappiamo bene che non ci sono i soldi per la copertura. Ma quale sarebbe la tua proposta? Lasciare che la gente si ubriachi? Vogliamo costruire il Comunismo sulla vodka?”. Nessuno si oppose. Il segretario andò avanti nella sua opera. Verso il disastro. Si crearono gigantesche code fuori dai negozi di liquori, mentre il mercato nero della vodka prosperò in tempo zero. Il preannunciato buco di bilancio si rivelò più profondo del previsto e il tasso di mortalità si impennò, anche a causa del consumo di bevande alcoliche fatte in casa per sostituire quelle colpite dalle misure governative. Dopo tre anni, Gorbachev ammise l'errore e fece marcia in dietro, ma il danno provocato era stato enorme. Quello fu un caso esemplare del suo stile di governo nei sei anni e mezzo passati al Cremlino. Purtuttavia, è innegabile che Gorbachev suscitasse ammirazione grazie alle sue doti intellettuali, alla sua sincerità e alla sua capacità di ispirare la gente. I suoi ragionamenti e le sue sortite istintive erano genuine e oneste, per quanto basate su un'analisi di fondo fallace. Volle normalizzare le relazioni con Europa e Stati Uniti per evitare una guerra tra Oriente ed Occidente, decise di abbattere le spese militari e si impegnò nel risanamento dell'economia sovietica. Cosa importa che egli fosse convinto che tutto ciò servisse a rafforzare (e non ad indebolire come in realtà sarebbe stato, ndt) il Comunismo? Appena preso il potere, Gorbachev e i suoi consiglieri più fidati, tra cui l'apostolo della perestroika Alexandr Yakovlev, giunsero alla conclusione che il Patto di Varsavia fosse ormai un fardello insostenibile. Tuttavia, essi non riuscirono ad elaborare una convincente strategia per liberarsene per tempo. Come mai i sovietici rinunciarono al loro impero così pacificamente? E perché tutto avvenne rapidamente, in pochi mesi, proprio alla fine degli anni ottanta? Tre dei più importanti fattori sono tra i meno menzionati in Europa e negli Stati Uniti, forse perché non mettono l'accento sul ruolo giocato da attori occidentali, quali papi, presidenti e primi ministri. Essenzialmente, secondo la ricostruzione di molti, l'Europa orientale si liberò da sola dal giogo sovietico. Ma in questo modo si dimenticano altri importanti fattori esplicativi: in primo luogo, la sconfitta patita dall'Urss in Afghanistan; in secondo luogo, il debito estero strisciante che i paesi del Patto di Varsavia si trovavano ad affrontare; infine, il deciso calo dei prezzi del petrolio. Gorbachev stava reagendo a queste avversità e al contempo avvertiva l'esigenza di concludere accordi geopolitici con gli americani. Primo fattore. Appare oggi chiaro quale sia stato il ragionamento che sconsigliò ai sovietici di intervenire in forze per stroncare le sollevazioni polacche di Varsavia e Gdansk nel 1980-81. Lo evidenziò il più zelante sostenitore dell'imperialismo sovietico al Cremlino, Mikhail Suslov, che durante un dibattito interno alla leadership moscovita ammise: “Non possiamo permetterci di avere un altro Afghanistan per le mani.” L'Urss comprese di aver commesso una azzardo non appena le sue truppe si insediarono in Afghanistan alla fine del 1979. Gorbachev non era stato responsabile di quella mossa, poiché all'epoca non controllava di certo la stanza dei bottoni. Anzi, fu tra i primi a definire quel conflitto “la nostra ferita sanguinante”, paragonandolo alla sfortunata impresa americana in Vietnam. Quando salì al potere oltre diecimila soldati sovietici avevano già perso la vita. Insieme al suo staff, egli intendeva porre termine ad una guerra che non poteva essere vinta ma che avrebbe potuto al massimo condurre ad una stabilizzazione della situazione nel Paese asiatico. Il problema riguardava le modalità del ritiro, che doveva essere concertato in modo da non perdere la faccia. Gorbachev avrebbe potuto porre termine alla guerra, facendo ricadere la responsabilità sui suoi avventati predecessori ed ottenendo il plauso del mondo occidentale. Ma non colse al balzo quella opportunità perché riteneva troppo umiliante riconoscere la realtà di una grave sconfitta, inferta da coloro che egli considerava una banda di terroristi, i mujaheddin afghani. Come egli stesso ammise: “Cari amici…sarebbe preoccupante…tutti penserebbero ad un crollo dell'autorità sovietica.” Così insistette e la sua decisione provocò la morte di altri seimila sovietici e ventimila afghani, restringendo ulteriormente lo spazio di manovra dell'Armata Rossa. Quando infine decise di ritirarsi dall'Afghanistan da sconfitto, dopo quattro anni dall'inizio del suo mandato, i dissidenti dell'Europa dell'Est erano molto meno preoccupati rispetto al passato della possibilità di un intervento armato nell'Urss contro i movimenti democratici che andavano nascendo. Secondo fattore. Il modo in cui Miklos Nemeth, primo ministro ungherese alla fine degli anni ottanta, ha spiegato come il suo Paese aveva utilizzato il prestito da un miliardo di marchi erogato dalla Germania Ovest nel 1987 è emblematico della gravità della situazione economica nell'impero sovietico in Europa poco prima del suo collasso. Quel denaro sarebbe dovuto servire per le riforme economiche, ma venne utilizzato da Budapest per pagare gli interessi su debiti precedenti e per importare beni di consumo in modo da nascondere gli effetti più eclatanti della crisi strutturale allora in corso. Tutto il blocco dei paesi satelliti (tranne la Romania) era ormai de facto dipendente economicamente dall'Occidente: alla fine del 1989 i debiti ammontavano a 150 miliardi di dollari. Essi continuavano a mentire a proposito del reale stato di salute delle loro economie. Mentre la Banca Mondiale considerava la Germania Est come l'undicesima economia più ricca al mondo, il governo di Pankow si trovava a dover impegnare il 70% del Pil per pagare gli interessi sui prestiti che aveva dovuto contrarre. Leader dell'Est europeo come Eric Honecker e Janos Kadar erano ormai convinti che l'unica via di salvezza per i loro regimi fossero le banche occidentali, che a loro volta consideravono i governi del Patto di Varsavia una scommessa sicura, coperta dalla garanzia di Mosca. Gorbachev, tuttavia, non voleva o non poteva fornire garanzie economiche o politiche ai satelliti. Come Nemeth confessò ad un banchiere: “L'agonia del Comunismo cominciò quando le banche occidentali cominciarono a prestare denaro a paesi come l'Ungheria. Ci avevano ormai preso all'amo.” Terzo fattore. Il crollo dei prezzi del petrolio nel 1985-86 accelerò la fine del Comunismo sovietico. L'export dell'Urss crollò, suscitando dubbi sulla tenuta del sistema economico dell'Impero all'interno della stessa leadership moscovita. Valeva ancora la pena garantire ai paesi del Patto di Varsavia petrolio e gas a prezzi stracciati in cambi di beni di consumo di pessima qualità? Economisti e think tank vicini al Cremlino rimisero in discussione il rapporto tra l'Unione Sovietica e i paesi soggetti al suo controllo. Poi, uno scandalo minore determinò una svolta. Si scoprì che la Bulgaria soleva rivendere in Occidente a prezzo maggiorato il petrolio ricevuto da Mosca, in modo da intascarsi la differenza in valuta pregiata. Gorbachev si infuriò con Todor Zhivkov, il dittatore al potere a Sofia per tre decadi e decise di cambiare il suo atteggiamento nei confronti dell'Europa dell'Est. Il Cremlino fece sapere ai suoi alleati minori che era tempo che si arrangiassero da soli e che, se non fossero stati in grado di sostenersi con le proprie forze, l'Unione Sovietica non sarebbe più intervenuta al loro fianco contro la popolazione civile. Vecchi dittatori come Honecker non presero sul serio Gorbachev, credendo che per i sovietici l'Europa orientale rimanesse troppo importante per essere abbandonata in quel modo. Ma il leader sovietico sembrava ormai interessato soprattutto al mondo occidentale, non solo per questioni geopolitiche ma anche per una sorta di crescente attrazione personale. Si dimostrava molto più a suo agio durante le visite a Londra, Parigi o Roma, piuttosto che nelle rituali uscite pubbliche in Polonia o Cecoslovacchia. E del resto, volete forse paragonare una noiosa riunione con i burocrati praghesi ad una trionfale parata sulla Quinta Strada, piena di americani sventolanti la bandiera sovietica ed inneggianti al leader sovietico quale uomo di pace? Gorbachev non aveva un piano preciso. Né per il ritiro dall'Europa centrale, né per il mantenimento del potere sovietico in quell'area. Egli auspicava l'avvento di tanti “mini-Gorbachev” in grado di rimpiazzare gli inefficienti e superati leader che avevano sino allora rovinato l'immagine del Comunismo in Europa. Riteneva, ancora dopo il crollo del Muro di Berlino, che le popolazioni orientali avrebbero optato per rimanere comunque nell'orbita sovietica: un grossolano errore di calcolo! In ogni caso, egli aveva deciso da tempo che non avrebbe utilizzato la forza per costringerli a fare ciò. Non molti al suo posto si sarebbero comportati allo stesso modo. Così, nonostante le sue buone intenzioni e le sue grandi idee riformatrici, Gorbachev alla fine ha fallito. Egli credeva di poter redimere e salvare il Comunismo. E' stato un patriota di un Paese che è collassato proprio mentre era lui a guidarlo. Sia come uomo che come figura storica, egli assomma numerose contraddizioni, la più clamorosa delle quali è che in futuro verrà ricordato come un grande proprio a causa del suo fallimento.
Traduzione a cura di Fabio Lucchini - Prospect, Agosto 2009, Victor Sebestyen è autore di “Revolution of 1989: the Fall of the Soviet Empire (Weidenfeld & Nicolson)
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