Un ricordo del giornalista del Corriere della Sera ucciso dai brigatisti nel 1980
Ugo Finetti, "Storia di Craxi", Boroli Editore, 2009 Milano,
Un aspetto che caratterizzò la presidenza Craxi fu rappresentato dalle ripetute tensioni con i magistrati: non tanto per il tentativo poi fallito di mettere in piedi contro di lui un processo per traffico di armi, quanto soprattutto per la polemica che ebbe con la procura di Milano sul caso Tobagi. Si trattò di una contrapposizione anche istituzionale senza precedenti che vide coinvolti non solo i socialisti: l'esposizione andò dal ministro degli Interni Scalfaro al presidente della Repubblica Cossiga. Oggi questa vicenda è ricordata alla luce di Tangentopoli come la prova di un atteggiamento pregiudizialmente ostile alla Procura di Milano da parte di un mondo corrotto e in generale la questione dell'esistenza di “mandanti” nel delitto Tobagi (o comunque di corresponsabilità al di là dei giovani incriminati) è sprezzantemente liquidata come il sordido tentativo dei craxiani di sostenere per fini strumentali che a Milano tra i giornalisti di sinistra vi fossero fiancheggiatori brigatisti. In realtà si trattò di altro e la vicenda va sia pur sommariamente ricordata per come si è svolta.
Già prima delle elezioni in occasione dell'inizio del processo, nel maggio 1983, Craxi aveva contestato la versione data dagli assassini, e fatta propria dall'accusa, secondo cui il delitto era maturato senza il minimo coinvolgimento al di fuori del gruppo di giovani aspiranti brigatisti che avevano ucciso il giornalista il 28 maggio 1980. Il punto di maggior contrasto era rappresentato dal fatto che Craxi insisteva sulla tesi che il testo del volantino non era stato redatto dagli accusati.
Quando nel novembre 1983 vi fu la sentenza che condannava la tesi sui “mandanti” e consentiva l'immediata scarcerazione dell'assassino in quanto “pentito”, la polemica assunse rilievo istituzionale. Lo stesso Scalfaro, ministro dell'Interno, fece proprie alcune delle contestazioni espresse dall'“Avanti!”: “Che persone che hanno commesso delitti” dichiarò il 29 novembre “possano aiutare lo stato, questo è già affermato nel codice attuale, ma a un certo momento, tra una legge e una sentenza si possa considerare un delitto come mai commesso, questo spero, come cittadino, come magistrato, come ministro di non provocarlo mai”.
Nei giorni successivi Martelli, insieme a Formica, Andò e Spini, con un'interrogazione a Scalfaro riprese la questione sollevata in maggio da Craxi circa l'esistenza di un infiltrato, Rocco Ricciardi, che aveva segnalato già nel 1979 che il gruppo denominato Formazioni Combattenti Comuniste aveva “in programma un attentato o il rapimento di Walter Tobagi”. Il 16 dicembre Craxi riceve Scalfaro a Palazzo Chigi per discutere la fondatezza della notizia e il 17 la Procura di Milano prende posizione con un lungo comunicato in cui in particolare dichiara “con assoluta fermezza” che “nessuna notizia in merito a progetti o ipotesi di attentato contro Walter Tobagi è pervenuta alla Procura della Repubblica di Milano nel dicembre 1979 o successivamente”. Ma soprattutto la Procura s'impunta nel sostenere l'assoluta spontaneità della confessione resa dagli assassini contro cui al momento dell'arresto esistevano, ribadisce, solo sospetti e nessuna prova.
Le confessioni erano talmente genuine e inattese che secondo i magistrati milanesi furono fatte “sollevando la sorpresa dello stesso generale” e cioè il defunto Dalla Chiesa. Mettere in dubbio “la non spontaneità delle confessioni” significherebbe attribuire agli inquirenti “un intento doloso che nella fattispecie non potrebbe che costituire reato”. Il 19 dicembre Scalfaro comunicò che la segnalazione di Ricciardi era arrivata al reparto operativo dell'Arma dei carabinieri di Milano.
L'affaire non si chiuse, ma la vicenda continuò ancora negli anni successivi. La tesi socialista era quella di una confessione venuta dagli assassini dopo essersi resi conto di essere stati scoperti e finalizzata a circoscrivere le responsabilità in cambio di una collaborazione sul filone dell'area dell'Autonomia coinvolta nel terrorismo. I magistrati milanesi reagirono con querele e ottennero processi e condanne contro giornalisti ed esponenti del Psi. Il punto di massima tensione istituzionale fu raggiunto nel dicembre 1985 quando tutti i 20 membri togati del Consiglio superiore della magistratura si dimisero in blocco per protesta dopo che il Capo dello stato, Francesco Cossiga, in quanto presidente del Csm aveva rifiutato di portare al voto, giudicandola inammissibile, una mozione di attacco al presidente del Consiglio socialista.
In verità la polemica di Craxi non era originata da calcoli strumentali e ostilità innata. Il suo atteggiamento era stato infatti dall'inizio di seria collaborazione con l'autorità inquirente e il dissidio nacque nel momento in cui secondo Craxi fu condotta in modo sbagliato la verifica se il volantino fosse stato davvero redatto dai giovani arrestati.
Di fronte al cadavere di un amico ucciso in quanto, come scritto nel volantino, “uomo di Craxi”, i sentimenti furono quelli di cercare i veri colpevoli e non certo di coinvolgere innocenti e depistare le indagini. L'attenzione si concentrò naturalmente sul volantino di rivendicazione che era l'unico indizio iniziale: un testo molto lungo che sembrava redatto da persone di un certo livello culturale e che vivevano all'interno del mondo giornalistico, soprattutto del suo sindacalismo.
Già ai primi di giugno del 1980 Craxi e la segreteria del Psi milanese s'incontrarono con il generale Dalla Chiesa in via Moscova. La riunione fu molto tecnica e riguardò il grado di conoscenza diretta di vicende non di dominio pubblico e anche una certa professionalità che emergevano dal volantino. Per i socialisti era per esempio significativa la battitura a macchina della versione che era stata inizialmente diffusa dalla Brigata XXVIII marzo. Infatti compare una spaziatura di sei battute al termine di certe frasi che era all'epoca tipica di chi lavorava in una redazione: con essa il giornalista scrivendo a macchina indicava al compositore che doveva andare a capo. Questa caratteristica scompare nella seconda versione: quando cioè il testo viene ricopiato dai giovani terroristi su matrice da ciclostile per una più ampia diffusione.
Più dettagliato fu poi l'esame della punteggiatura. Essa appariva ai socialisti di carattere molto inconsueto e sofisticato soprattutto nel rapporto tra due punti e punto e virgola all'interno della stessa frase. Un tipo di punteggiatura ormai vecchiotto, frutto probabilmente di un vezzo intellettualistico derivato dalla familiarità con autori del marxismo italiano degli anni Cinquanta. Non erano tanti a Milano all'epoca a scrivere in quel modo negli ambienti giornalistici.
Dopo gli arresti, nell'inverno del 1980, ci fu un nuovo colloquio tra i socialisti e Dalla Chiesa che si svolse da Craxi in Piazza Duomo. Dalla Chiesa, che si presentò in abiti civili e senza scorta, nel parlare di mandanti in termini di complicità usò parole molto esplicite e colorite. Il fatto che la responsabilità del delitto andasse al di là dei ragazzi della XXVIII marzo non era quindi una ossessione socialista, ma, all'epoca, era la convinzione del protagonista delle indagini. Il punto di partenza era sempre il testo di rivendicazione che per forma e contenuto non sembrava circoscrivibile a quei giovani.
In seguito a quell'incontro Craxi pensò quindi fosse utile fornire agli inquirenti uno studio sulle fonti in modo da predisporre una serie di domande per verificare se gli imputati ne fossero davvero gli autori. Anche il direttore del Corriere della Sera, Franco Di Bella, mosso dalla stessa intenzione aveva preparato per Dalla Chiesa un breve test da sottoporre ai presunti autori del volantino che era già andato a vuoto. Craxi si impegnò allora direttamente e coinvolse diverse persone. Fu un'opera di ricerca sui vari riferimenti contenuti nel testo e soprattutto delle fonti accessibili per ogni notizia in esso contenuta soprattutto se inesatta. Si trattò di ricostruire un mosaico e ci volle tempo. Alla fine, nell'estate del 1981, il lavoro originò due documenti. Il primo di 33 pagine su due colonne: da un lato il testo brigatista e dall'altro la fonte da cui è tratta l'informazione. Il secondo era una “scaletta” di 16 domande con allegata la risposta. In certi casi si trattava di “domande a trabocchetto” e la risposta evidenziava le ragioni di possibili falle che avrebbero dimostrato che gli imputati non erano i veri autori del volantino.
Quando all'inizio del processo, nel 1983, gli atti delle indagini vengono resi noti, Craxi apprende che copia dell'intero questionario – non solo le domande, ma anche le risposte esatte – era stato consegnato l'8 ottobre del 1981 all'imputato. Dopo avergli lasciato le domande e le risposte sarebbe poi stato sentito in proposito a distanza di quasi un mese. Il 5 novembre si comincia a interrogarlo sul questionario, ma dopo diverse ore si sospende quando si è ancora alle prime 3 delle 16 domande. Si riprende dopo una decina di giorni, il 14 novembre, e infine, dopo una nuova pausa, si conclude il 19 novembre. Craxi pensa che si sia fatto un errore. La tragica scomparsa di Dalla Chiesa aveva poi fatto venir meno quello che era stato il tramite principale con gli inquirenti. Questa fu l'origine della sua reazione polemica.
L'irritazione di Craxi poi aumentò di fronte al fatto che l'assassinio di Tobagi finì tra oltre 800 capi di imputazione di un maxi processo con 164 imputati messo in piedi unificando 9 istruttorie separate. “Un'operazione” commentarono all'epoca alcuni degli avvocati “orchestrata in favore dell'assassino di Tobagi per trasformare il processo in una sorta di apoteosi del pentito”.
In seguito alle polemiche, già durante il processo, il capo della Procura di Milano, Mauro Gresti, ebbe un incontro nel suo ufficio con la segreteria del Psi milanese. Da parte socialista si sostenne di non essere mossi da ragioni strumentali (al processo un testimone dell'accusa, Giorgio Bocca, aveva dichiarato che i socialisti polemizzavano perché miravano alla conquista del “Corriere”), ma da questioni di merito. Diverse erano le lacune e le contraddizioni nella ricostruzione fornita dai giovani imputati e le ragioni che portavano a guardare al di là di loro. Lo stesso Di Bella a proposito dell'organizzazione dell'attentato ai furgoni del “Corriere” custoditi in un garage aveva dichiarato nella sua deposizione: “Neppure io sapevo della ubicazione in quel garage dei nostri furgoni”, e aveva aggiunto che “le informazioni non potevano che venire dall'interno del nostro gruppo”.
Sul fatto che il volantino non era stato redatto dagli imputati, fu fatto osservare a Gresti, era stato lo stesso leader della XXVIII marzo a tradirsi durante il processo. Per dimostrare di esserne l'autore egli aveva infatti citato la frase in cui è scritto che Tobagi “preso il volo dal Comitato di redazione ‘Corsera' dal 1974, si è subito posto come dirigente capace, ecc.”. E' un errore, aveva dichiarato l'imputato in aula, in quanto la data esatta non è 1974, ma 1977. Infatti è nel 1977 che Tobagi venne eletto per la prima volta nel Comitato di redazione del Corriere della Sera. Ma proprio così l'assassino, secondo i socialisti, si era tradito: la data del volantino era invece giusta. L'imputato ignorava che nel linguaggio degli “addetti ai lavori” (come si può verificare dalla lettura dei giornali che si occupavano di sindacalismo giornalistico) “Cdr Corsera” non significava Cdr del singolo Corriere della Sera, ma era la sigla sindacale che indicava il comitato di coordinamento sindacale delle varie testate giornalistiche filiate dal Corriere della Sera (Corriere della Sera più Corriere d'informazione, Domenica del Corriere, Amica, ecc.). La frase definita errata dall'imputato era invece esatta perché Walter Tobagi aveva appunto fatto parte del “Cdr Corsera” appunto nel 1974 come rappresentante sindacale del “Corriere d'informazione”. Altro dato significativo in proposito è che si trattò di un periodo limitatissimo – di solo due mesi – e il fatto non era di dominio pubblico, tanto che l'imputato infatti aveva confuso le due cose: credeva a un errore di battitura perché, a differenza del vero autore del volantino, non conosceva il curriculum sindacale di Tobagi.
A vicenda processuale conclusa fu poi un altro autorevole rappresentante dei magistrati, l'ex presidente dell'Associazione nazionale magistrati Beria d'Argentine, a considerare con attenzione le tesi socialiste sul volantino e che promosse un nuovo incontro tra il vertice della Procura e la segreteria del Psi milanese. Beria conosceva Tobagi, lo stimava e gli era legato. Ricordava bene i ceffi che urlavano contro Tobagi al Circolo della stampa di Milano la sera prima dell'assassinio. Soffriva del contrasto tra gli “amici di Alessandrini” e gli “amici di Tobagi”. Questa riunione si svolse presso il Tribunale dei minori, in via Leopardi, di cui all'epoca Beria era presidente. Da parte socialista, tra l'altro, si ricordò che la reazione di Craxi era stata determinata dalla consegna delle risposte all'imputato. Venne replicato che la Procura non aveva alcuna responsabilità di quella iniziativa perché era stata presa dal giudice istruttore.
Beria voleva mettere la parola fine a un clima di conflittualità, ma non sulla questione del volantino. Infatti nemmeno lui escludeva che fosse stato scritto da altri. E così quando venne nominato procuratore generale nel 1989 tornò a occuparsene di persona e in veste istituzionale. Riprese tutta la documentazione fornita da Craxi archiviata come “L'analisi Psi”, la esaminò e la sviluppò andando molto più avanti. Realizzò così uno studio molto dettagliato. Il volantino era stato diviso da Beria in 14 parti e ognuna era messa a confronto con: a) “L'analisi Psi” e (quando c'erano); b) la versione data dall'imputato dopo l'arresto ai carabinieri; c) la versione data al pm; d) la versione data al giudice istruttore; e) la versione data in dibattimento.
Beria svolse uno scrupoloso riesame dell'intera vicenda e alla fine disse che intendeva fare anche un atto formale e cioè trasmettere una relazione al ministro della Giustizia. Da questa verifica aveva tratto la netta convinzione, senza ombra di dubbio, che il volantino era opera dei giovani soltanto per quanto riguardava la parte finale della rivendicazione specifica dell'assassinio del “terrorista di stato Walter Tobagi”, ma per tutto il resto era stato scritto da altri. E questo convincimento tenne anche a esprimerlo poi pubblicamente. “E' mancata” dichiarò “una sufficiente analisi degli scritti di rivendicazione dei delitti Tobagi e di diversi magistrati” e in particolare a proposito del volantino – il 6 aprile sul Corriere della Sera – precisò che il testo per la quasi totalità era un vero e proprio “documento preconfezionato di contro-informazione sui problemi dell'editoria e della stampa”.
Dopo queste affermazioni la Federazione nazionale della stampa e l'Associazione lombarda dei giornalisti chiesero al ministro della Giustizia di riaprire il caso. Dagli inquirenti milanesi venne una durissima replica polemica: non solo il caso era definitivamente chiuso, ma più in generale si affermava in modo categorico che “il terrorismo di sinistra è stato proprio e solo ciò che appariva, senza regìe esterne o eterodirezioni di qualsiasi genere”. Sul terrorismo di sinistra quindi il dissenso fu radicale e la polemica di Craxi sulla mancata identificazione dell'autore del volantino non fu strumentale.
Il delitto Tobagi fu infatti coronato da pieno successo per quanto riguarda i fiancheggiatori del terrorismo nel mondo giornalistico. Va riletto in proposito quanto disse Dalla Chiesa alla Commissione Moro. In quel momento aveva già stabilito il legame “rosso”-FCC-XXVIII marzo e il giovane autore del delitto era ormai individuato e al centro delle sue indagini. Dalla Chiesa sottolinea la natura quasi “mafiosa” del delitto. Così riassume l'effetto intimidatorio: “Garantire all'eversione la soggezione di un'intera classe qual'è quella dell'informazione”. Infatti nei primi mesi del 1980 i giornalisti fiancheggiatori “i pochi che erano riusciti fino ad allora a rimanere mimetizzati nella massa, hanno corso il rischio di restare in evidenza”. Descrive quindi la situazione tra i giornalisti con Tobagi ancora vivo: “Mi spiego meglio. Se gli organi di informazione, attraverso i loro inviati speciali, attraverso i loro corrispondenti sulle varie piazze, sostengono una determinata tesi, e cioè che finalmente lo stato non dico che sia vincente, ma che si avvia a essere vincente, che le forze dell'ordine registrano dei successi, che questi miti cominciano a crollare, che i famosi samurai (come vennero chiamati dal povero Tobagi, e ha pagato irridendo) ecc., tutti si erano allineati su questo piano, perché così andava la ruota; a un certo momento i pochi che non la pensavano come loro, ma che dovevano adattarsi, che dovevano allinearsi e non lo potevano, sarebbero divenuti quei pochi che tutti conoscevano e che tutti indicavano”. La sua conclusione è che uccidendo Tobagi i terroristi fossero riusciti a riportare al coperto i propri amici tra i giornalisti: “Il fatto del Tobagi ha riportato tutti a un livello inferiore, mimetizzando anche quei pochi che temevano di rimanere in vista”.
Craxi tentò ripetutamente di alzare il velo sul magma delle convivenze negli ambienti di sinistra con il brigatismo, ma si scontrò con reazioni molto violente a livello politico e istituzionale. Il “mondo comunista” si è sempre chiuso a riccio in proposito. Anche dopo la scomparsa del Pci, la relazione del Gruppo democratici di sinistra-L'Ulivo della Commissione stragi redatta nel 2000 ripercorrendo la criminalità politica a partire dal dopoguerra “dimentica”, come ha osservato lo storico Francesco Perfetti, “il capitolo del terrorismo rosso, i legami di questo con il terrorismo internazionale” sulla base della tesi che la “violenza politica” è “funzionale alla stabilizzazione autoritaria” e che “non possano sussistere violenza politica e stragismo di sinistra”.