di Andrea Riscassi, Critica Sociale, 11/2009,
«Il 7 settembre 1978 lo scrittore Georgij Markov, un rifugiato bulgaro che lavorava per la BBC a Londra, aspettava l'autobus non lontano dagli uffici della radio, sul ponte di Waterloo. Un passante lo sfiorò con un ombrello, si scusò cortesemente in buon inglese, appena velato da un accento straniero, e si allontanò tra la folla. Qualcuno lo vide salire su un taxi. Alla sera Markov si sentì male, e scoprì di avere una minuscola puntura con una goccia di sangue coagulato nella parte alta dell'anca destra. Il giorno dopo, nello stesso punto, apparve una macchia giallastra di un centimetro di diametro. Gli salì la febbre e, ben presto, non fu più in grado di parlare.
Venne trasportato all'ospedale Saint-James, dove il suo stato si aggravò di ora in ora. Gli si gonfiò il viso e poi tutta la testa. Morì l'11 settembre fra atroci sofferenze. I reportage di Markov erano di elevato livello professionale. Fu in grado di svelare le menzogne, l'ipocrisia, la crudeltà e la corruzione delle autorità bulgare, il loro modo di vivere, i loro usi e i loro comportamenti, che conosceva nel dettaglio per averli constatati personalmente e non per sentito dire. Per il padrone della Bulgaria, quelle rivelazioni che lo riguardavano direttamente, erano un affronto imperdonabile.
Una volta scattata l'operazione, gli agenti incaricati si impegnarono al meglio, decidendo di trasformarla in un regalo speciale per il loro sovrano. Avevano, infatti, da scegliere tra due date: il 7 settembre giorno del compleanno di Todor Živkov e il 9 settembre, la festa nazionale che celebrava la cosiddetta “rivoluzione popolare socialista” bulgara. Da bravi lacchè sognavano di offrire a Živkov non il solito mazzo di fiori, ma la testa del suo peggior nemico. Si decisero per il 7 settembre e tutto si svolse secondo i piani. Quel giorno Živkov ebbe più di un motivo per brindare. Per portare a termine la missione, dovettero escogitare il metodo appropriato. Živkov aveva scartato l'idea di un volgare omicidio (con un arma da fuoco o un coltello o simili), perché teneva alla propria reputazione a livello internazionale e voleva evitare scandali nocivi».
Così Arkadi Vakberg(1) descrive l'omicidio sovietico di un dissidente bulgaro. Scena che, tolto l'ombrello e Londra, lasciato il Kgb e il compleanno di un leader (ora evidentemente i killer sono meno preoccupati di un tempo di risultare volgari e usano armi sofisticate – come il Polonio – solo per uccidere nei bar londinesi) mi hanno ricordato da vicino la vicenda di Anna Politkovskaja, coraggiosa giornalista russa assassinata il 7 ottobre 2006, giorno del compleanno del presidente Vladimir Putin. Anna (cui il comune di Milano ha recentemente dedicato un albero nel Giardino dei Giusti) temeva più di ogni altra cosa una deriva neosovietica della Russia; una strada che il paese a soli due lustri dalla fine del precedente regime, ha intrapreso anche senza muro, anche senza soviet. Scriveva la Politkovskaja a proposito del mestiere che aveva scelto: «Niente potrà togliermi il senso di colpa che ho nei confronti di coloro che hanno sacrificato la vita per il mio lavoro, per la mia resistenza al tipo di giornalismo che si sta instaurando in Russia grazie alla guerra “alla Putin”. Parlo di un giornalismo ideologico senza accesso all'informazione, senza incontri né conversazioni con le fonti, senza verifiche dei fatti. Come ad esempio quello dei miei colleghi che seduti dietro tre barriere di filo spinato nelle basi militari russi, riferiscono a Mosca del “miglioramento quotidiano” dei villaggi ceceni. Quel tipo di lavoro, che io credevo morto insieme al comunismo, da noi è ormai considerato la norma, e inoltre è riconosciuto e lodato dalle autorità. Quanto all'altro tipo di giornalismo, quello che comporta uno sguardo diretto su ciò che succede, non solo viene perseguitato, ma si rischia addirittura la vita. Un salto indietro di dieci anni, dopo la caduta dell'URSS!».(2)
Già, ma è davvero caduta l'Unione delle repubbliche socialiste sovietiche? Il muro che fu abbattuto vent'anni fa, sembra si sia solo spostato, non più tra le due Germanie, ma in una linea immaginaria che taglia in due l'Ucraina e la Moldova. Alcuni paesi europei sono usciti dal giogo russo e hanno scelto l'Occidente (rectius, il modello capitalistico americano). Il russo, un tempo, lingua di studio obbligatoria nei paesi del Patto di Varsavia, ora non viene più né parlato, né accettato in moltissime nazioni dell'est. Soprattutto in quelle che hanno subito invasioni militari russe. C'è un passaggio nel bellissimo romanzo “Il cacciatore di aquiloni”, che racconta meglio di mille saggi, come, per molti popoli, il pericolo imperialista venga da Mosca e non da Washington. Il protagonista del libro porta il padre, malato di cancro, dal dottore. Sono entrambi rifugiati afgani e si trovano di fronte un cittadino americano, ma di origini russe: «Dallo pneumologo andò bene finché Baba non chiese al dottor Schneider quale fosse il suo paese d'origine e saltò fuori che era russo. Allora Baba lo allontanò in malo modo. “Ci scusi”, dissi io. Il dottor Schneider si fece da parte con lo stetoscopio ancora in mano. “Baba, ho letto la biografia del dottor Schneider. È nato nel Michigan. Michigan, è americano, molto più americano di quanto non lo saremo mai noi due.” “Non importa dove è nato. È russo” rispose Baba facendo una smorfia come se avesse pronunciato una parolaccia. “I suoi genitori erano russi e i suoi nonni erano russi. Giuro su tua madre che se cerca di toccarmi gli spezzo il braccio”».(3)
Una vera e propria fobia della quale molti a Occidente non riescono a capire i fondamenti. Così a Bruxelles si guarda con sospetto i nuovi europei tanto spaventati dai russi. Eppure è inevitabile che in molti Paesi (dalla Polonia in giù), quando si muovono i carri armati con la stella rossa (come è accaduto nell'estate del 2008, con l'invasione della Georgia, colpevole solo di aver sparato il primo colpo, su un territorio comunque tecnicamente suo) scatti la paura dell'invasione, il terrore verso una nazione spesso abituata ad essere imperiale. «Temo, è solita dire Elena Bonner (russa e vedova Sakharov), ciò che i russi portano in sé: il loro spirito di espansione e di dominio».
È lo stesso concetto che ispira un altro russo, dissidente putiniano, Boris Nemcov: «La mentalità della nostra gente è che non importa se siamo poveri, l'importante è che ci temano». Recitava una vecchia barzelletta ungherese: «Di quali veicoli si servono i russi per far visita agli amici? Dei carri armati».
Non so se l'opinione pubblica occidentale tema ancora l'arrivo dei cosacchi a San Pietro. Ciò che è certo è che qui nel primo mondo non ci si indigna più per ciò che accade da quelle parti. Il silenzio sulla Cecenia è lì a inchiodarci alla nostra responsabilità. E' una sorta di zona grigia mondiale che, finita ormai l'esperienza dell'Onu (sostituita da questi G8,G12,G14,G30, sorta di Rotary mondiali dove si entra per cooptazione) rende tutto accettabile. Le tre scimmiette della diplomazia occidentale verso la Mosca si spiegano essenzialmente con la nostra dipendenza energetica dagli idrocarburi, come spiega Leonardo Coen: «“Non accettiamo che qualcuno influenzi la nostra politica dall'esterno”, ripete spesso Putin, il quale se lo può permettere perché largamente appoggiato dall'opinione pubblica russa e perché può maneggiare come una colt la pompa che eroga gas e petrolio, diretti essenzialmente in Occidente».(4)
Dei diritti umani ci occupiamo sempre meno. E comunque molto meno di quando c'era il Muro di Berlino. Un'agghiacciante fortificazione che, ricordiamolo, fu creata per impedire la libera circolazione delle persone (il mestiere ora in larga parte sostituito dalle leggi di Shengen). Eretta negli anni Sessanta, la Cortina di Ferro fu innalzata fondamentalmente contro di noi, come racconta Anna Funder: «Il capo dello Stato decise di costruire una “misura protettiva antifascista”. Mi è sempre piaciuta questa espressione, che ha un che di profilattico, proteggere gli orientali dal contagio occidentale del vacuo materialismo. Obbedisce pienamente alla logica del rinchiudere la gente per bene per tenerla al sicuro dai criminali».(5)
I criminali anti-marxisti e anti-sovietici hanno invece preso il potere in molti di quei paesi conquistati alla democrazia popolare spesso con la violenza. Ma anche col silenzio di tanti. Ad opporsi, nel mondo sovietico un tempo, in quello putiniano oggi, solo pochi coraggiosi. Quei dissidenti di cui la politica italiana si occupava, quando il nostro Paese aveva una politica estera slegata da quella energetica. Una figura quella del dissidente di un regime, spiegata in maniera mirabile da Vaclav Havel: «L'uomo prende coscienza di essere un dissidente quando lo è già da un pezzo. La “dissidenza” non è una professione, è inizialmente e soprattutto una posizione esistenziale. Un uomo non diventa “dissidente” perché un bel giorno decide di intraprendere questa stravagante carriera, ma perché la responsabilità interiore combinata con tutto il complesso delle circostanza esterne finisce per inchiodarlo a questa posizione: viene sbattuto fuori dalle strutture esistenti e messo in opposizione alle stesse».(6)
Il comunismo, a vent'anni dalla caduta del Muro non si è trasformato in anti-comunismo, almeno non dappertutto. Più ci si avvicina a Mosca, meno l'anti-totalitarismo ha infatti preso piede. Con l'eccezione della Georgia e di parte dell'Ucraina, quasi tutti i paesi che, pur diventati indipendenti, confinano con la Federazione russa, si sono trasformati non in democrazie ma in simil-dittature, senza la finzione di essere dittature del proletariato. I servizi segreti o anche i segretari dei locali partiti comunisti hanno preso il potere e non l'hanno più lasciato. In molti di queste nazioni si è votato fondamentalmente una volta, negli anni Novanta. Dopo di che, col controllo dei mass media, con l'arresto o l'uccisione dei dissidenti e col semplice far percepire lo scarrellare dei Kalashnikov, la cosa si è trasformata in una pantomima della democrazia. Come ricordava Leon Aron proprio sulle colonne di Critica sociale «“democrazia sovrana” sta alla “democrazia” come la “sedia elettrica” sta alla “sedia”».(7)
La rinascita del Muro si è fatta infatti anche sull'utilizzo o meglio l'interpretazione delle parole, come racconta una delle nostre migliori giornaliste, Anna Zafesova: «Per un russo medio “democrazia” è l'equivalente di caos, corruzione e povertà, “commerciante” è sinonimo di cialtrone e “sesso” è pari a vizio. In una neolingua orwelliana dove l'abolizione delle elezioni promossa da Putin viene eufemisticamente definita “riforma politica”, la guerra in Cecenia non è mai stata chiamata guerra (“operazione per il ripristino dell'ordine costituzionale” o “normalizzazione”, dipende dai periodi) e per “ordine” si intende una dittatura paternalista, gli equivoci sono infiniti e come ironizza il russologo Peter Lavelle nel suo Lessico politico russo anche padroneggiando perfettamente la lingua uno straniero rischia di fraintendersi con un russo parlando con termini perfettamente identici di concetti diametralmente opposti».(8)
Non basta comunque questa neolingua orwelliana per spiegare come il Muro sia rimasto nelle teste di molti, soprattutto nel paese che ha dato i natali a Tolstoj, quello che la stessa Zafesova definisce «una repubblica nel nome, ma una monarchia di fatto, dove il sorriso o il cipiglio del sovrano decidono la sorte».
Un altro giornalista o meglio un grande intellettuale polacco da poco scomparso, Ryszard Kapuscinski, si è più volte interrogato sull'attitudine di certi popoli ad essere sudditi: «Già Mickiewicz si era chiesto a suo tempo i motivi di un fenomeno a prima vista inconcepibile: un funzionario zarista che da solo porta ai lavori forzati un'intera colonna di tuva (tribù siberiana) senza che uno solo di quei disgraziati sudditi si ribelli. Potrebbero farlo fuori senza la minima difficoltà e disperdersi nei boschi. E invece avanzano docilmente, eseguono buoni buoni i suoi ordini, sopportano in silenzio le sue ingiurie. Agli occhi dei tuva prigionieri quel funzionario e' la personificazione di un grande stato che incute timore, suscita paura, terrore, spavento. Alzare la mano sul funzionario significa alzare la mano sull'Impero, e a questo non ci arriva nessuno».(9) Insomma, «i despoti esistono perché esistono i sudditi», come diceva Nerio Nesi.
Forse così si può spiegare il motivo per cui in Russia abbiamo eletto (per ben due volte nel passato, e credo lo rifaranno allegramente appena se ne riproporrà l'occasione) un personaggio come Vladimir Putin. Una spia del Kgb, che come diceva la sua collaboratrice Ksenja Ponomareva, «non è nemico della libertà di parola: trova semplicemente assurda l'idea che qualcuno abbia il coraggio di criticarlo pubblicamente».
Insomma, un Muro è caduto ma non ha travolto la mentalità totalitaria, l'assenza di dibattito politico. E neanche l'arte di strisciare, che come raccontava una vecchia barzelletta sovietica, permetteva a quei tempi (solo allora?, solo lì?) di far sì che la lumaca potesse essere più veloce del cavallo, animale che non striscia.
Noi, da questa parte del mappamondo, non possiamo più tacere perché come ricordava il Mahatma Gandhi (cui si sono ispirate le rivoluzioni colorate e antitotalitarie in Serbia, Georgia e Ucraina), «dobbiamo essere il cambiamento che vogliamo vedere nel mondo». Come giornalisti, come esponenti della società civile, possiamo continuare a mantenere rapporti con la dissidenza di quei paesi (come dell'Iran e della Cina, ottimi alleati di Putin), per fare una politica estera dal basso. E, qui da noi, dobbiamo continuare a denunciare quel che accade. Valga per tutti noi quanto sosteneva l'intellettuale iraniano Ali Shariati: «se non potete eliminare l'ingiustizia, almeno raccontatela a tutti».
NOTE
1 Arkadi Vaksberg, I veleni del Cremlino, Guerini, Milano, 2007.
2 Anna Politkovskaja, Cecenia, Fandango, Roma, 2003
3 Khaled Hosseini, Il cacciatore di aquiloni, Piemme, Alessandria, 2007.
4 Leonardo Coen, Putingrad, la Mosca di zar Vladimir, Alet, Padova, 2008
5 Anna Funder, C'era una volta la Ddr, Feltrinelli, Milano, 2005.
6 Vaclav Havel, Il potere dei senza poterev, Garzanti, Milano, 1991.
7 Leon Aron, La politica della memoria, Critica sociale. 5-6/2009.
8 Anna Zafesova, E da Mosca è tutto, Utet Libreria, Novara, 2005.
9 Ryszard Kapuscinski, Imperium, Feltrinelli , Milano, 2006.