A trent’anni dalla scomparsa di Pietro Nenni, un ricordo del Presidente dell’Associazione “Amici della Critica Sociale”
di Francesco Colucci, Critica Sociale 11/2009,
“Di una sola prospettiva ho terrore – disse Nenni in un suo intervento alla Camera dei deputati il 18 dicembre 1952 – quella che possa venire il momento in cui un operaio, aprendo il suo giornale al mattino e leggendovi di atti miei, fosse costretto a gettarlo a terra sdegnato dicendo «Anche lui!». (…) perché i lavoratori che hanno fiducia in me non mi accordano il bene prezioso della loro amicizia e della loro stima che nella misura in cui so meritarla”.
A differenza di alcune fra le più eminenti figure storiche del socialismo italiano, Nenni non proveniva da quella borghesia illuminata che vive il proprio impegno civile e politico per la giustizia sociale in primo luogo come un dovere morale nei confronti delle classi meno privilegiate, ma aveva sperimentato in prima persona, fin dall'infanzia, la condizione di povertà e la disuguaglianza sociale, l'assoggettamento forzato all'altrui benevolenza da parte di chi, condizionato dai più elementari bisogni, non ha diritti.
Maturò, in altri termini, fin da giovane una consapevolezza precisa e diretta di quegli “ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del paese”. Per lui, più che per altri, questa formulazione testuale dell'articolo 3 della Costituzione del 1948 ha un significato concreto e rappresenta al tempo stesso l'esito delle battaglie politiche precedenti e la premessa di quelle future; il riconoscimento formale che nell'Italia democratica le riforme delle istituzioni, dell'economia e della società costituiscono uno dei fini precipui dell'azione dei poteri pubblici.
Dopo l'esperienza dell'unità d'azione con i comunisti, sviluppata in funzione antifascista a partire dai primi anni Trenta e proseguita nel secondo dopoguerra, Nenni iniziò a percepire, nel clima politico determinatosi nella prima legislatura della Repubblica con l'avvio del Centrismo, che l'allineamento rispetto ai comunisti, pur motivato dalla tutela degli interessi dei lavoratori, rischiava di compromettere irreversibilmente la tradizione genuinamente democratica ed interclassista del socialismo italiano e la ricchezza del dialogo fra le sue diverse componenti.
Sull'altro fronte tuttavia assiste a quella che considera un'involuzione moderata delle istanze socialdemocratiche, gradualmente stemperate dalle politiche centriste.
Come emerge da rapide annotazioni nei suoi diari, già agli inizi degli anni Cinquanta, nessuna delle due prospettive lo convinceva; i colloqui privati con esponenti socialdemocratici e repubblicani e con interlocutori di settori progressisti della Dc accrescono in lui la consapevolezza dell'esistenza nel Paese di un'area eterogenea di forze laiche e progressiste, caratterizzate da un comune patrimonio di valori da difendere.
Inizia così a sviluppare una riflessione sulla possibilità di individuare anche all'interno della borghesia un nucleo di forze sensibili alle problematiche sociali ed aperte al dialogo sulle riforme. E proprio nello sviluppo di questo dialogo, unitamente all'evoluzione del contesto politico internazionale, individua la possibilità di recupero da parte dei socialisti della possibilità di una autonoma progettualità politica capace di rilanciare il riformismo e contendere alla Dc l'egemonia sul governo del Paese ed al Pci l'egemonia sulle classi lavoratrici.
“Voi che criticate e condannate l'unità d'azione – affermò in Assemblea alla Camera il 18 dicembre 1952, nel corso del dibattito sulla riforma elettorale polemicamente resa nota dall'epiteto di “legge-truffa” – avete mai tentato di creare una situazione politica nuova e diversa, in cui l'unità d'azione potesse risolversi nel solo modo in cui ciò può avvenire, vale a dire col suo superamento?”.
Come precisò nella relazione al successivo XXX Congresso socialista (Milano, 8-11 gennaio 1953), si trattava di superare “una situazione chiusa, ostile e di latente guerra civile, in cui forzatamente i rapporti dei gruppi antagonisti divengono più impegnativi e tutto è ricondotto ad un puro criterio di forza e quanto si patisce di ingiusto è subíto in vista di un domani misterioso e indefinibile che ci vendicherà di ogni torto subíto…”.
Si trattava di “incontrarsi a metà strada”, come scrisse nel luglio successivo sull'Avanti!, su di un programma ed un progetto riformatore di attuazione costituzionale, coerente con quella prospettiva di rinascita democratica che nell'Assemblea costituente aveva rappresentato un punto di convergenza fra culture politiche ed interessi diversi.
Su questi temi, le idee di Nenni erano quelle dei socialisti della sua generazione, che avevano davanti un'Italia socialmente ed economicamente diversa da quella odierna.
La politica sociale ed economica dell'alternativa socialista – si legge nella sua relazione al Congresso del 1953 – comportava anzitutto “l'esigenza di liquidare la grossa proprietà terriera e di assoggettare i monopoli industriali all'interesse collettivo nazionalizzandoli”. L'azione riformatrice presupponeva quindi nel suo pensiero ed in quel momento storico dello sviluppo dell'economia e della società italiana, un'espansione dell'intervento pubblico nell'economia attraverso cui guidare il sistema verso gli obiettivi decisi in sede politica.
Ma presupponeva anche la difesa delle istituzioni democratiche e delle libertà civili, politiche ed economiche riconosciute dalla Costituzione stessa a tutti i cittadini, a prescindere dalle divisioni di classe. Su questo punto, Nenni arriva con almeno vent'anni d'anticipo rispetto ai comunisti a concepire la difesa dei principi e dei valori della Costituzione come un dovere comune a tutte le forze politiche democratiche, secondo la visione interclassista più tradizionalmente propria della cultura del riformismo socialista.
L'astensione socialista dal voto di fiducia sul programma del IV governo Fanfani, illustrato alla Camera nella seduta del 2 marzo 1962, avviò il processo di riforme che condusse alla nazionalizzazione dell'energia elettrica, alla realizzazione della scuola media unica ed obbligatoria ed all'introduzione dell'imposta cedolare sui titoli azionari. E con il programma del successivo I governo Moro, nel dicembre 1963, si arriverà a delineare un complesso articolato di riforme a cui era condizionata la diretta assunzione di responsabilità di governo da parte dei socialisti.
I fronti dell'azione di riforma e modernizzazione erano molteplici: l'agricoltura, per avviare il graduale affrancamento del paese dalla dipendenza alimentare verso l'estero; l'urbanistica, per alleggerire i costi delle abitazioni dall'onere della rendita speculativa sui suoli e permettere ai lavoratori di accedere alla proprietà immobiliare; il commercio, per riorganizzare la catena distributiva caratterizzata da un'eccessiva polverizzazione; il fisco, combattere efficacemente l'evasione.
Si trattava, in sintesi, di un programma straordinariamente progressista tendente ad allineare la democrazia italiana agli standard europei conseguiti dai governi laburisti in Inghilterra e nei paesi scandinavi.
La reazione negativa degli ambienti conservatori finì per aggravare, sul versante economico, l'incipiente recessione congiunturale e, sul versante politico, le condizioni di praticabilità delle riforme. Già alle elezioni politiche del 1963 se ne erano manifestati i primi effetti e le attese di più compiuta attuazione della Costituzione attraverso un programma di governo riformista dovettero essere ridimensionate dall'esigenza prioritaria di difendere la Costituzione in occasione della crisi del luglio 1964.
L'importanza prioritaria della libertà e della democrazia assume da allora e per tutti gli anni Settanta un valore centrale per uomini come Nenni che per quella libertà e quella democrazia avevano visto morire Matteotti, che avevano subito essi stessi l'aggressione fascista e che avevano contribuito a ricostruire a partire dall'Assemblea Costituente.
Non a caso Nenni ribadirà con forza queste convinzioni proprio nella stessa Aula di Montecitorio dove aveva acclamato l'approvazione della Costituzione e che il 29 agosto 1968 prendeva atto con sgomento e preoccupazione dell'invasione sovietica della Cecoslovacchia.
Anche in quell'occasione tuttavia la sua tempra di vecchio combattente lo portava a concludere il suo discorso riprendendo le parole del Presidente dell'Assemblea nazionale cecoslovacca nel momento in cui rimetteva piede a Praga, dopo l'arresto ed i quattro giorni delle trattative a Mosca: “Sento proprio che ce la faremo!”.
Con questo stesso spirito, alla fine degli anni Settanta, sarà Craxi ad intuire i tempi nuovi ed a sostenere la necessità di superare l'emergenza e riavviare la modernizzazione economica, sociale ed istituzionale del Paese, traendo vantaggio da una nuova congiuntura economica e da una nuova temperie politica nazionale ed internazionale.
Reinterpretandone in chiave moderna le istanze progressiste e libertarie, Craxi raccoglierà in tal modo l'eredità politica di Nenni, nel segno dell'autonomismo e del riformismo socialista, nella convinzione che le istituzioni democratiche, che la “democrazia governante”, costituisca al tempo stesso la premessa ed il limite al dialogo sulle riforme: la premessa, perché solo attraverso le istituzioni democratiche è possibile la partecipazione effettiva dei cittadini alla definizione delle politiche pubbliche; il limite, perché qualunque riforma può dirsi orientata al bene comune solo se contribuisca a rendere più efficiente l'ordinamento democratico ed a consolidare lo spirito di convivenza civile. s
(Questo articolo è stato scritto per le riviste Critica Sociale e Mondoperaio)