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PREVENIRE IL NUOVO TERRORISMO. IL CONTRIBUTO DELLA RICERCA

Per far fronte alla minaccia dell’estremismo che minaccia le libertà e gli stili di vita e danneggia ogni prospettiva di convivenza civile, il rafforzamento degli strumenti investigativi e repressivi non è sufficiente. Serve un approccio multidimensionale che tenga conto del contributo della ricerca (storica, sociologica e psicologica) e che aiuti a comprendere a fondo le dinamiche in continua evoluzione del nuovo terrorismo

Data: 2010-02-06

Fabio Lucchini,

Da alcuni decenni gli studiosi di scienze sociali si interrogano sulle motivazioni che spingono un individuo, o un gruppo di individui, a intraprendere una coerente "carriera terroristica" o, più semplicemente, ad abbandonarsi a singoli eclatanti atti di violenza terroristica. Molto si è fatto, ma per ammissione degli stessi addetti ai lavori la materia rimane perlopiù inesplorata e ciò invita a moltiplicare gli sforzi e ad approfondire le ricerche. Questo perché il comprendere le cause, le motivazioni e le determinanti del comportamento terrorista rappresenta un elemento di conoscenza vitale per contrastare e disinnescare una violenza estremista che diventa di giorno in giorno più imprevedibile nelle sue modalità e più sfuggente nelle sue manifestazioni.
Sicuramente, è possibile stabilire alcuni punti fermi che hanno orientato le analisi e gli studi negli ultimi quarant'anni. La decisione di compiere un atto terroristico ha quasi sempre natura strategica e strumentale. Non certo impulsiva. E' spesso legata a, e giustificata da, obbiettivi ideologici, politici e religiosi e coinvolge un gruppo, o comunque una pluralità di attori, nelle varie fasi della pianificazione, organizzazione ed esecuzione.
Tralasciamo per un attimo gli approcci di matrice storiografica e sociologica, per quanto essi siano essenziali per comprendere appieno la genesi e la natura del fenomeno. Pare auspicabile concentrarsi anche sulle determinanti psicologhe alla base della scelta di opporsi all'ordine sociale dato mediante il ricorso alla violenza. Violenza rivolta sia contro le istituzioni (contro il potere costituito), sia contro civili inermi. L'attenzione alla dimensione psicologica del terrorismo è quanto mai apprezzabile se si considera la multidimensionalità assunta dalla minaccia negli ultimi tempi. Gli attacchi a New York e Washington del 2001 e le vicende successive, caratterizzate da una recrudescenza terroristica sul suolo europeo (Madrid e Londra), dalle carneficine consumatesi in Iraq, Afghanistan e Pakistan e dall'allarme provocato dai tentativi di porre in essere attentati altrettanto devastanti (ancora a Londra e più recentemente sul volo Amsterdam-Detroit), hanno avuto conseguenze ben precise.
Innanzitutto, i governi e le intelligence hanno intensificato la lotta alle organizzazioni terroristiche, colpendo duramente a livello militare i loro membri, individuando e rimuovendo le loro basi territoriali e riconoscendo e contrastando il rilevante supporto economico che facoltosi privati e società costituite ad hoc garantivano, e garantiscono, ai sodalizi terroristici. Inoltre, sono stati perfezionati gli strumenti di identificazione dei sospetti e le modalità di controllo dei punti sensibili, in particolare gli aeroporti -il recente dibattito sull'introduzione del body scanner in tutti gli scali europei ne è un esempio. Insomma, gli apparati deputati a garantire la sicurezza e a interdire l'utilizzo della violenza terroristica si sono attrezzati per rendere sempre più complicata l'attività e la sopravvivenza dei gruppi eversivi strutturati.
Questo ha determinato negli anni un mutamento epocale e sostanziale.  Il terrorista contemporaneo si allontana sempre più dal modello del militante consapevole e politicamente preparato, disposto a condurre un'esistenza clandestina a stretto contatto con un gruppo di compagni fortemente motivato e compatto. Molti terroristi sono ormai inseriti in una poco definita "rete", sostenuta da vincoli interpersonali laschi, nella quale spesso i membri di una cellula sovversiva (un pugno di individui) non conoscono quelli di un'altra operante nella stessa città.
La natura liquida e sfuggente del nuovo terrorismo si traduce in una variazione delle modalità organizzative, che pone maggiormente l'accento sul singolo individuo piuttosto che sul gruppo. Motivo per cui assume sempre più rilevanza lo studio della personalità degli individui suscettibili di subire la fascinazione eversiva, affiliandosi a gruppi estremisti o addirittura sperimentando la tentazione del gesto eclatante e isolato.
A prescindere dall'evoluzione in atto, da almeno quarant'anni la ricerca psicologica viene applicata all'eversione e alla violenza per comprenderne le ragioni profonde e le cause scatenanti. In questo lasso di tempo l'ambizione di tratteggiare un profilo psicologico del terrorista tipo è andata delusa, così come la presunzione di correlare "scientificamente" le più svariate patologie mentali all'appartenenza a organizzazioni terroristiche. Randy Borum, dell'Università della Florida, ha preferito focalizzarsi sul promettente concetto di vulnerabilità[1]. Determinati individui, prostrati e umiliati dalle vicende dell'esistenza e convinti di essere perseguitati dalle ingiustizie, presenterebbero una maggiore predisposizione a cedere a sentimenti di intolleranza e rabbia alla ricerca di un'identità e di un'appartenenza che non trovano. Essi agirebbero perché mossi da un cieco desiderio di rivalsa nei confronti di un corpo sociale e istituzionale percepito come ostile e insensibile.
Gli scienziati sociali sostengono che l'ingiustizia e l'umiliazione percepite siano dei fattori centrali per comprendere l'insorgere della violenza in generale, e del terrorismo nello specifico. La natura assolutista e manichea dell'estremismo risulta talvolta attraente per coloro che faticano a rapportarsi a una realtà complessa e stressante come quella dell'era contemporanea. Può così accadere che un individuo rinunci alla faticosa ricerca di un'identità, di una collocazione, di un ruolo nel contesto sociale di riferimento e finisca per definire la propria ragion d'essere mediante l'appartenenza a un gruppo (magari oltranzista) o l'adesione ad una causa (magari delirante).
Ciò che spinge un individuo a mettere in gioco sé stesso o addirittura a sacrificare, distruggere, la propria vita non può essere ricondotto unicamente all'adesione a un nucleo di principi e precetti o alla necessità identitaria di riaffermare l'appartenenza a un gruppo. Seguendo un presupposto caro alla scienza sociale anglo-sassone, ossia il modello della scelta razionale, appare altrettanto evidente che chiunque abbia lo scopo di reclutare o indottrinare nuovi terroristi debba fare in modo di massimizzare ai loro occhi i benefici di un determinato corso d'azione a discapito dei relativi costi.
Evidenziare gli incentivi e rimuovere i disincentivi, o quanto meno occultarli. La grande sfida dei reclutatori e dei propugnatori della cultura del terrore è vincere l'inibizione psicologia, etica e culturale che rende per solito inconcepibile lo spargimento di sangue innocente. Una barriera che difficilmente gli individui oltrepassano, che è per solito puntellata sia dalle concezioni che strutturano la personalità di ognuno sia dall'influenza esterna esercitata sui singoli dal contesto sociale di riferimento. Quali meccanismi operano per scardinare il sistema di inibizioni, interne ed esterne, che per solito impedisce di prendere in considerazione l'utilizzo indiscriminato e devastante della violenza?
Centrale è la valutazione delle proprie responsabilità e di quelle degli altri. I singoli si sentono in effetti meno responsabili se commettono un misfatto all'interno, o a vantaggio, di un gruppo o di una causa. La cieca obbedienza a precetti ritenuti indiscutibilmente giusti, fa sì che il soggetto agente si liberi da ogni responsabilità personale in quanto mero esecutore di ordini promananti da un'autorità incontestabile. Allo stesso modo, gioca un ruolo rilevante la spersonalizzazione delle vittime; secondo una simile impostazione, le vittime di un attentato, per quanto possano apparire individualmente innocenti agli occhi dei loro stessi carnefici, meriterebbero comunque di essere colpite in quanto parte di una comunità sulla quale ricade un giudizio negativo e irrevocabile.
Perché un individuo si abbandoni a quella forma estrema e definitiva di violenza che è il terrorismo, è necessario che intervenga una profonda alterazione della concezione di sé. Solitamente durante l'età evolutiva si sviluppa la capacità di controllare il proprio comportamento e regolare i propri impulsi. In alte parole, si afferma nelle coscienze un codice etico che guida le scelte comportamentali ed esistenziali di fondo. Ad ogni violazione del codice corrispondono solitamente l'insorgere di sensi di colpa e di atteggiamenti di auto-condanna da parte del soggetto.
Tuttavia, come dimostrato dallo psicologo canadese Albert Bandura, questo processo di auto-sanzione può essere talvolta disattivato dall'individuo stesso, che finirà con l'accettare di aver potuto commettere atti di gravità inaudita, atti che in condizioni normali egli stesso non sarebbe riuscito a perdonarsi. Un meccanismo di disimpegno morale che i terroristi interiorizzano per giustificare le efferatezze di cui si sono macchiato o intendono macchiarsi. Le ideologie, più o meno farneticanti, che sostengono lo sforzo militante propongono analisi e considerazioni (riferite a misfatti storici o a perduranti situazioni di ingiustizia ai danni di una comunità oppressa) volte a indurre gli adepti a liberarsi da ogni remora umanitaria nei confronti di coloro che vengono dipinti come nemici[2].
Il disimpegno morale descritto da Bandura riecheggia il contributo dei criminologi Gresham Sykes e David Matza, che hanno descritto con acume la deriva esistenziale e comportamentale che accompagna verso l'assunzione di un'identità deviante. Secondo la loro interpretazione, abbozzata negli anni cinquanta ma tuttora attuale, gli individui diventano liberi di delinquere mediante l'utilizzo di tecniche di neutralizzazione, che permettono ai soggetti a rischio di sospendere, a tempo più o meno indefinito, la propria fedeltà ai valori sociali generalmente condivisi. Un simile atteggiamento auto-indulgente e auto-giustificatorio aprirebbe degli spazi di libertà etica e morale che permetterebbero a determinati soggetti di commettere dei crimini senza alcun rimorso.
Una volta messa in atto la neutralizzazione, l'individuo sperimenta una deriva esistenziale e valoriale e vive una fase di estrema instabilità e vulnerabilità, durante la quale la scelta di commettere dei reati diventa più plausibile. Matza e Sykes elencano nei loro studi le diverse tecniche di neturalizzazione esistenti, rintracciandone una mezza dozzina. Tra di esse la più interessante per i nostri scopi è la negazione e la colpevolizzazione delle vittime. Spesso i terroristi non considerano le proprie vittime come tali e anzi seguono una logica secondo la quale i loro bersagli meriterebbero il castigo a causa delle loro colpe passate, o meglio, delle colpe della loro comunità di appartenenza (che a volte si allarga fino a ricomprendere indiscriminatamente l'intera società) o delle istituzioni che li rappresentano. Il passo che conduce alla de-umanizzazione delle vittime, al mancato riconoscimento della dignità umana e del diritto all'esistenza, è veramente breve[3]. E' in queste circostanze che la violenza terroristica contemporanea fa più paura. Infatti, l'assenza di limiti etici e morali all'azione eversiva prefigura scenari inquietanti e imprevedibili che rischiano di sprofondare le nostre società nell'incubo securitario.
Ecco perché si rende necessario un ulteriore sforzo preventivo, non semplicemente fondato sul rafforzamento degli strumenti investigativi e repressivi, ma che tenga compiutamente conto del contributo della ricerca (storica, sociologica, ma anche, come si è detto, psicologica). Un contributo multidisciplinare e multidimensionale alla comprensione delle dinamiche in continua evoluzione del nuovo terrorismo, che incombe sulle metropoli, minaccia le libertà e gli stili di vita e danneggia ogni prospettiva di convivenza civile, aperta e tollerante verso l'integrazione del diverso. Presupposto fondamentale è l'affinamento degli strumenti di ricerca intorno al fenomeno terrorismo, che, per stessa ammissione degli studiosi più insigni in materia (Horgan, Schmid, Silke), mancano ancora di rigore e precisione[4]. Colpisce soprattutto il fatto che la grande maggioranza degli articoli scientifici citino come fonte primaria i media, invece di basarsi su metodiche indagini sul campo. Un vulnus a cui porre rimedio con urgenza, considerando finalmente la ricerca sul terrorismo e sui fenomeni eversivi per quello che potrebbe essere: un indispensabile complemento all'attività di prevenzione del fenomeno, meritevole per questo di sostegno da parte dello Stato, sia in termini di risorse impiegate che di investimento erogati.

 



[1] R. Borum, Psychology of Terrorism, University of  South Florida, 2004.

[2] A. Bandura, The origins and consequences of moral disengagement: A social learning perspective. In F.M. Moghaddam & A.J. Marsella, American Psychological Association, 2004.

[3] G.M. Sykes e D. Matza, Techniques of neutralization: A theory of delinquency, American Sociological Review, 1957.

[4] J. Horgan, From Profiles to Pathways and Roots to Routes: Perspectives from Psychology on Radicalization into Terrorism, American Association of Political and Social Sciences, 2008.







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