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TRAME, AFFARI E STRATEGIE DIETRO LE SANZIONI ALL'IRAN

Intorno al nucleare iraniano si sta giocando una partita geopolitica tra Washington, Pechino e Mosca che nasconde interessi energetici, militari e contropartite strategiche

Data: 2010-02-18

Francesca Morandi, 17 febbraio 2010,

Sulle sanzioni all'Iran si gioca una partita geopolitica tra Stati Uniti, Cina e Russia, che nasconde interessi energetici, militari e contropartite strategiche. Con Israele in bilico tra pressioni diplomatiche e un attacco militare. E l'Italia che si schiera con il fronte occidentale, rinunciando a interessi commerciali costruiti con Teheran negli ultimi 50 anni.
Il dialogo tra la comunità internazionale e il regime degli ayatollah pare ormai arrivato al capolinea dopo gli episodi delle ultime settimane, dall'avvio unilaterale del programma atomico iraniano agli assalti alle ambasciate europee a Teheran fino alle violenze contro i dissidenti nel corso delle manifestazioni di piazza per il trentunesimo anniversario della rivoluzione islamica. Ora le opzioni all'orizzonte restano due: dure sanzioni o un intervento militare.
Incassato l'appoggio di alleati occidentali come Italia, Francia e Germania, lo scorso 8 febbraio,  gli Stati Uniti hanno lanciato un ultimatum forte e chiaro: sanzioni contro Teheran entro poche settimane. Un periodo di tempo che forse si rivelerà maturo per nuovi provvedimenti contro i piani nucleari iraniani, alla luce dei recenti accadimenti e considerando che la presidenza di turno al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite è in procinto di passare dalla Cina alla Francia, favorevole a posizioni più rigide nei confronti di Teheran. Pechino resta, tuttavia, il principale oppositore a una nuova risoluzione e minaccia di esercitare il suo diritto di veto in seno al Consiglio Onu. Le consultazioni sulla questione iraniana sono dunque frenetiche e si disputano su duri confronti diplomatici, forniture di armamenti e dispiegamenti militari.
Da settimane è in corso un braccio di ferro tra Cina e Stati Uniti, iniziato con un duro scambio di accuse sulla questione degli attacchi informatici cinesi contro la rete di Google e finito con la minaccia del veto cinese sulle sanzioni all'Iran, dopo l'annuncio della vendita di equipaggiamento militare americano a Taiwan. Prendendo le difese della compagnia di Mountain View, gli Usa hanno esortato la Cina a cessare le violazioni delle e-mail dei dissidenti cinesi e la sua azione censoria ai danni di siti web con contenuti politici di critica alla dirigenza comunista.
«Chi lancia cyber-attacchi ne subirà le conseguenze», ha affermato il 21 gennaio scorso il segretario di Stato americano Hillary Clinton, parlando al «Newseum» di Washington, il Museo dedicato alla libertà di stampa. Secca la risposta del governo cinese che ha accusato gli Stati Uniti di politicizzare la questione di Google e di voler imporre una "egemonia dell'informazione". Inoltre Pechino ha rimproverato a Washington di usare Internet in maniera aggressiva per danneggiare gli interessi nazionali di Paesi come la Cina e l'Iran, denunciando, tra l'altro, le ingerenze americane nei movimenti di dissenso iraniani. Una difesa, quella a favore del regime degli ayatollah, chiaramente strumentale alla Cina, che, come è noto, è accusata da attivisti e governi stranieri di commettere violazioni dei diritti umani. Gli attriti su Google e più in generale sulla libertà in Cina, erano emersi dopo le dichiarazioni dell'ambasciatore cinese all'Onu Zhang Yesui, che aveva sostenuto la necessità di «più tempo e pazienza» per approvare le sanzioni contro l'Iran, contraddicendo le parole della Clinton che aveva auspicato «pressioni e sanzioni» contro il regime iraniano.
Ma a far salire alle stelle la tensione tra le due potenze è stato l'annuncio della fornitura statunitense di missili patriot PC-3, navi da guerra ed elicotteri Black Hawk a Taiwan, un pacchetto di armamenti che l'isola indipendentista userà per difendersi da eventuali attacchi cinesi. Un business da 6,4 miliardi di dollari per gli Usa, che Pechino ha interpretato come una minaccia contro se stessa e i suoi interessi nella regione. «Ci saranno conseguenze sui principali dossier mondiali», ha sentenziato il governo cinese, con implicito riferimento alla questione nucleare iraniana e al suo potere di veto all'Onu. E ancora: «Reagiremo», ha detto lo scorso 5 febbraio il ministro degli Esteri cinese Yang Jiechi.
A irritare ulteriormente la Cina è stata la decisione del presidente americano Barack Obama di incontrare  il Dalai Lama, e alla quale il governo comunista ha risposto denunciando il «tentativo di una forza straniera di interferire con le questioni interne cinesi usando come pretesto il leader spirituale tibetano».

La Cina ha fame di energia iraniana ma vincoli economici la legano agli Usa
Nonostante gli scontri sul piano politico, forti vincoli finanziari e commerciali legano gli Stati Uniti e la Cina che cercheranno di evitare reali fratture nei rapporti bilaterali. Come ha spiegato Fernando Mezzetti, giornalista e già corrispondente per diverse testate giornalistiche in Cina, Russia e Giappone, in un'intervista alla Critica Sociale, «la Cina è il maggiore creditore degli Stati Uniti», in quanto «Pechino ha investito il 60% delle proprie riserve pregiate, che ammontano a 1.600 miliardi di dollari, in obbligazioni del Tesoro americani». «Gli interessi americani accumulati in Cina negli ultimi 15 anni valgono mille miliardi di dollari - ha affermato ancora l'esperto - e i piani di aiuti statali, per centinaia di miliardi di dollari di cui necessita l'economia statunitense per uscire dalla crisi economica, devono essere finanziati anche tramite l'emissione di Buoni del Tesoro che solo la Cina, con i suoi capitali, è in grado di acquistare». Ma non sono soltanto gli Usa ad avere bisogno della Cina, anche il "Gigante Rosso" necessita del commercio con gli Stati Uniti: gli scambi commerciali tra i due Paesi per l'anno 2008 ammontano a oltre 400 miliardi di dollari (fonte Euronews 16/11/2009) e, «se Pechino - ha rilevato - Mezzetti, mettesse sul mercato la "montagna" di Buoni del Tesoro Usa, farebbe del male a se stessa poiché i bond americani si deprezzerebbero, in quanto, nel panorama dell'economia globale, latitano compratori provvisti di ingenti capitali. Oggi, inoltre, il Paese asiatico inizia a fare i conti con una crescente disoccupazione e a un calo significativo dell'export».
È dunque presumibile che le due superpotenze faranno in modo di gettare nel dimenticatoio tutte le schermaglie verbali emerse dall'inizio dell'anno e punteranno a riequilibrare i rapporti di forza, a partire dalla questione di Taiwan. Ma le sanzioni contro Teheran resteranno il vero nodo da sciogliere.
Con la sua "fame" di materie prime la Cina considera l'Iran un Paese in grado di soddisfare richieste energetiche necessarie alla propria economia: dal petrolio al nucleare. Mantenere buone relazioni commerciali e diplomatiche con gli iraniani per Pechino significa, quindi, tenere aperti canali di accesso a risorse strategiche fondamentali per sostenere la propria crescita produttiva. Eventuali sanzioni contro gli interessi petroliferi iraniani e perfino uno stop al programma nucleare del Paese, si configurano, quindi, come un ostacolo alle mire cinesi, che, quindi, continuano a opporsi a provvedimenti che colpiscano indirettamente i propri profitti economici.

La Russia fa affari e l'Italia si schiera con gli Usa
Pressioni sono rivolte dall'Occidente anche alla Russia che ha accettato di bloccare la controversa vendita dei sistemi anti-aerei S-300 a Teheran e ha aperto sulle sanzioni all'Iran, ma la sua posizione resta ambigua.
Come Pechino, Mosca ha investito miliardi di dollari nel settore energetico iraniano e la teocrazia islamica è anche uno dei maggiori compratori di armamenti russi. Dal 2006, nel timore di raid aerei contro le sue centrali nucleari, l'Iran ha stretto accordi con la Russia per l'acquisto di 29 sistemi di difesa aerea, per un valore di oltre 700 milioni di dollari. Mosca ha anche ottenuto una commessa  per l'aggiornamento di aerei iraniani da guerra, "Su-24" e "Mig-29", nonché di carri armati "T-72". Un giro d'affari che, insieme alla collaborazione in campo nucleare, rappresenta una spina nel fianco per gli Stati Uniti e Israele, mentre la Russia si sfrega le mani per un business che è anche un'arma politica utile a ottenere vantaggi in altri teatri strategici. Lo si è visto in Ossezia del Sud nell'agosto 2008, quando i russi hanno utilizzato il loro potere sulla questione nucleare iraniana per riaffermare la propria influenza in territori ex sovietici. A fare le rivelazioni alla Critica Sociale era stato Edward Luttwak, economista americano e esperto di questioni internazionali, che aveva riferito come «i russi hanno cercato di evitare la consegna agli iraniani dell'uranio arricchito destinato alla centrale di Busher per "vendere" agli statunitensi la mancata fornitura in cambio di privilegi nel Caucaso. Fino a una settimana prima della prevista consegna a Teheran del carico nucleare i russi erano a Washington a sottoporre la seguente richiesta: "Se voi ci lasciate fare quello che vogliamo in Georgia, noi non consegniamo nulla agli iraniani"». Circa i rapporti tra russi e iraniani Luttwak aveva spiegato che «ci sono accordi su questioni specifiche ma non esiste una cooperazione strategica», e, circa la possibilità che Teheran si doti di una bomba atomica, aveva sottolineato come «i russi non hanno paura degli iraniani, avversano e disprezzano il regime degli ayatollah, ma non lo temono perché, se gli iraniani si comportano male, Mosca è pronta a bombardare il Paese».
Oggi la Russia si limita a portare avanti i suoi interessi, annunciando che le esportazioni russe di armi per il 2010 non scenderanno al di sotto della cifra ottenuta nel 2009, 7,4 miliardi di dollari, e che gli ordini per i prossimi anni superano i 34 miliardi di dollari. Capitali che la Russia necessita in un momento in cui la sua economia è frenata dalla caduta dei prezzi del petrolio, e che, secondo la Bbc (1/02/2010), ha registrato una contrazione del 7.9% nel 2009 rispetto all'anno precedente, segnando il dato peggiore degli ultimi 15 anni. Alla fragilità del sistema economico russo, tutt'oggi fortemente dipendente dall'export di greggio e dell'industria pesante, si aggiungono possibili mutamenti negli equilibri politici interni al Paese. Si ipotizza, infatti, che le redini della politica russa possano passare, in un futuro non lontano, dal premier Vladimir Putin al presidente Dmitry Medvedev, sostenuto da un potente gruppo di potere, i civiliki, composto da economisti e avvocati riformisti, che spingono per una modernizzazione dell'economia russa e aperture democratiche. Consapevole di non potersi permettere destabilizzazioni politico-economiche, anche la Russia di Putin gioca le sue carte sulla questione iraniana. Per il momento Mosca ha aperto al fronte occidentale con la sospensione, «a tempo indeterminato» e formalmente «per problemi tecnici», dei sistemi antiaerei S- 300, ovvero i radar e i missili intercettori, che possono essere usati dall'Iran per proteggere i suoi impianti nucleari in caso di raid aerei. Inoltre il governo russo non ha escluso la possibilità di sanzioni all'Iran. Ciononostante la Russia non rinuncia a collaborare con il regime islamico: pochi giorni fa gli scienziati russi hanno testato il sistema di protezione ermetica della centrale iraniana di Bushehr, che è stata dotata di un rivestimento in acciaio per impedire la fuga di sostanze radioattive nel caso di guasti o, presumibilmente, attacchi esterni.
Si è invece già resa evidente la linea del governo italiano verso Teheran, con l'appoggio a nuove sanzioni espresso pubblicamente dal premier Silvio Berlusconi nel corso della sua visita in Israele

 all'inizio di febbraio. Berlusconi ha reso noto inoltre che l'Italia ridurrà gli investimenti nell'ex Persia. Nonostante l'Italia sia uno dei più importanti partner commerciali dell'Iran (insieme a Cina e Germania), con un interscambio che ammonta a 6 miliardi di euro, e sebbene le relazioni economiche e diplomatiche tra i due Paesi durino ininterrottamente da 50 anni, il business è passato in secondo piano rispetto alle conseguenze di un "no" italiano alle sanzioni, ovvero una rottura con un alleato storico come gli Stati Uniti, una perdita della sua capacità di mediazione con la Russia e con il mondo arabo moderato. Senza contare che il nostro Paese è pienamente integrato nel sistema economico e militare occidentale, e scelte al di fuori di questo quadro sarebbero, a dir poco, dannose.

Israele valuta problemi e rischi di un eventuale attacco
A fare i propri calcoli è anche Israele, un Paese direttamente minacciato dal presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad, che ha più volte tuonato contro la distruzione dello Stato ebraico.
Da anni Israele annuncia pubblicamente imminenti attacchi aerei contro i siti nucleari iraniani ma, come rileva il Wall Street Journal nell'analisi "The Iran Attack Plan", i problemi paiono essere molteplici. A partire dalla distanza tra il territorio israeliano e gli obiettivi da colpire: migliaia di chilometri, un tragitto aereo che persino i potenti aerei da guerra israeliani difficilmente saranno in grado di coprire, anche con l'auto-rifornimento di carburante, per un'operazione militare di tale complessità. Inoltre gli impianti nucleari iraniani sono sparsi su di una vasta area territoriale e alcuni di essi sono situati in luoghi nascosti e sottoterra.
Stando ai piani dei vertici militari di Tel Aviv, un eventuale bombardamento israeliano si potrebbe concentrare sui tre impianti maggiormente visibili, ovvero quelli di Natanz, Arak e Bushehr. Ma anche in questo caso sono numerosi i dubbi che l'intervento militare possa essere efficace nel bloccare il programma nucleare di Teheran, che, nel corso degli anni, ha sviluppato piani difensivi

volti a una veloce ricostruzione degli impianti nucleari, qualora colpiti, e a spostare preventivamente il materiale necessario al programma atomico in siti differenti. Alcuni di questi luoghi potrebbero essere, tra l'altro, limitrofi a centri di ricerca e attività civili.
Un altro ostacolo ai piani israeliani è rappresentato dalla necessità per i caccia di Tel Aviv di attraversare lo spazio aereo di Giordania, Arabia Saudita, Turchia, Siria e Iraq. Secondo il quotidiano britannico Daily Express, soltanto Riad avrebbe lasciato la porta aperta alla possibilità di concedere a Israele l'ingresso nel proprio spazio aereo. Un via libera che, se si concretizzasse, resterebbe senz'altro occulto per non turbare i rapporti tra l'Arabia e i suoi alleati islamici. Un eventuale attacco israeliano con una violazione dello spazio aereo arabo solleverebbe, comunque, le ire dei vicini musulmani, che potrebbero reagire con un pericoloso riarmo nucleare.
Un raid contro la centrale di Bushehr, costruita e rifornita dai russi, potrebbe inoltre portare Mosca, che ha già espresso la sua contrarietà a un intervento militare israeliano, a vendere all'Iran nuovi carichi di armi. E susciterebbe la rabbia della Cina e di molti Stati europei. Anche gli Stati Uniti, che non hanno ancora dato luce verde a un attacco israeliano, potrebbero disapprovare un'operazione unilaterale di Tel Aviv, considerando, come rileva un dossier, pubblicato a febbraio dal think tank statunitense di geopolitica Stratfor, che gli Usa e Israele guardano alla questione iraniana da prospettive differenti. Un ipotetico attacco iraniano contro gli Stati Uniti causerebbe danni assai limitati, a fronte della lontananza di un territorio, quello americano, dove, tra l'altro, la densità della popolazione è molto bassa. Nel caso di Israele, che conta su di un territorio esiguo e un'alta densità di popolazione, uno o due missili iraniani provocherebbero, invece, danni prossimi alla distruzione totale del Paese. Senza contare che gli Stati Uniti possiedono un enorme arsenale nucleare, capace di raggiungere qualsiasi Paese osasse colpirli. Sarebbe, dunque, dissennato da parte dell'Iran attaccare una tale potenza.
Tra l'altro, come rivela il New York Times, l'amministrazione di Obama intende fornire a Kuwait, Emirati Arabi Uniti, Qatar e Oman, sistemi anti-missile e navi da guerra dotate di sistemi Aegis per aumentare la propria capacità di difesa contro eventuali attacchi iraniani ai danni dei propri interessi  e di quelli dei suoi alleati nel Golfo. Il Washington Post riferisce inoltre che gli Usa starebbero accelerando la vendita di armamenti ai sauditi e conferma le forniture ad altri Stati amici della regione.

Il conto alla rovescia per la bomba di Teheran potrebbe essere lungo, ma la Nord Corea ha già l'atomica
I militari israeliani stanno valutando a quale stadio sia arrivato il programma iraniano che, secondo Tel Aviv, mira costruire una bomba atomica. Stando a recenti indagini, centrali come Natanz e Arak, necessitano ancora anni prima di diventare operative e rappresentare una reale minaccia. Sostiene questa tesi anche Edward Luttwak che, in recenti dichiarazioni alla Critica Sociale, ha affermato come «la bomba di Teheran avrebbe potuto essere già pronta, ma la corruzione che dilaga tra gli iraniani, la loro incompetenza e i sabotaggi ben riusciti da parte degli israeliani, hanno fatto in modo che, dopo 25 anni, gli iraniani stanno ancora lavorando su piani nucleari senza avere neppure un chilo di materiale fissile».

In questo quadro l'Iran è tornato a sfidare la comunità internazionale annunciando che comincerà ad arricchire l'uranio fino al 20% nell'impianto sotterraneo di Natanz e questo programma non si limiterà alle necessità di combustibile del reattore civile di Teheran destinato alla produzione di radio-isotopi per la cura del cancro. Il governo iraniano ha tuttavia precisato che la produzione sarà sospesa se si arriverà a un accordo per lo scambio di combustibile con le potenze occidentali. La decisione di avviare l'arricchimento dell'uranio è stata presa da Teheran a causa del blocco dei negoziati con il Gruppo 5+1, ovvero Stati Uniti, Cina, Russia, Gran Bretagna, Francia e Germania, sulla fornitura al regime degli ayatollah di combustibile arricchito al 20% che Teheran sostiene di aver bisogno per scopi medici. Da mesi la comunità internazionale sta cercando di trattare una soluzione concertata con l'Iran, che lo scorso ottobre ha rifiutato un'intesa in base alla quale Teheran avrebbe ottenuto dall'estero l'uranio arricchito al 20% in cambio della consegna del 70% delle sue scorte di uranio arricchito al 3,5%. L'atteggiamento iraniano, contrassegnato da aperture seguite da nette chiusure, ha rafforzato tra i Paesi occidentali il convincimento che l'Iran intende solo guadagnare tempo per evitare l'imposizione di dure sanzioni.
Gli Stati Uniti continuano a premere per imporre pesanti sanzioni Onu che blocchino l'import di benzina da parte di Teheran, che importa il 35% del proprio carburante, e che dunque metterebbero in crisi l'economia del Paese islamico. Lo scorso 8 febbraio il presidente americano Barack Obama ha annunciato l'inasprimento di sanzioni commerciali nazionali contro l'Iran, che prevedono il congelamento dei beni di quattro compagnie iraniane che, con le loro attività, finanzierebbero attività illecite legate ai Guardiani della rivoluzione. Nel mirino c'è anche un generale legato ai Guardiani (o Pasdaran in persiano), il corpo militare che dirige il programma nucleare iraniano, ha radicati interessi nel settore dell' "oro nero" e gioca un ruolo di primo piano nella repressione del "movimento Verde" anti-regime.
L'avvio da parte di Teheran del programma di arricchimento dell'uranio al 20% e il successivo annuncio della messa a punto di un sistema anti-missile contro eventuali raid israeliani, possono avere due scopi: il primo mira a usare il nazionalismo anti-occidentale per compattare un Paese spaccato al suo interno, il secondo appare invece come un tentativo da parte iraniana di dividere il fronte occidentale da quello russo-cinese. È l'ipotesi sostenuta da Franco Venturini sul Corriere della Sera (10/02/2010), che paventa uno scenario preoccupante: Ahmadinejad potrebbe diventare il nuovo Saddam Hussein. «Ahmadinejad, con le sue provocazioni sull'arricchimento dell'uranio e con le minacce all'esistenza stessa di Israele, sta commettendo lo stesso errore di Saddam Hussein - spiega Venturini -, si sente invulnerabile, e per questo è pronto a dar fuoco alle polveri con assoluta e suicida tranquillità». Il giornalista afferma inoltre che se nuove e efficaci sanzioni non saranno approvate, «sul tavolo resterà solo l'opzione militare. Che avrebbe prezzi altissimi e potrebbe diventare un boomerang per tutti».
Tenere il fiato sul collo di Pechino sulle questioni del Tibet, dei cyber-attacchi e, soprattutto, di Taiwan potrebbe allora essere una strategia utile agli americani per fare pressioni al fine di ottenere un via libera di Pechino alle sanzioni contro il programma atomico iraniano. Ma la diplomazia delle contropartite potrebbe ampliarsi alla Corea del Nord, un Paese che già possiede un arsenale nucleare e guarda con simpatia alla Cina. Lo scambio Usa-Cina potrebbe allora basarsi su un patto di "sicurezza" contro "area di influenza": se Pechino accettasse di impegnarsi in Afghanistan, un fronte cruciale nella lotta contro il terrorismo islamico, Washington potrebbe fermare la fornitura militare a Taiwan e sorvolare, almeno per un certo periodo, sull'obiettivo cinese di estendere la propria influenza alla Corea del Nord. E a quel punto un sì della Cina alle sanzioni iraniane sarebbe probabile. 







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