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DALLA CHIESA A CRAXI: "CERCHIAMO I MANDANTI"

Walter Tobagi ■ Il 28 maggio di trent’anni fa veniva ucciso dai terroristi il giornalista del Corriere della Sera

Data: 2010-05-19

di Ugo Finetti, Critica Sociale n.2/3

A trent'anni di distanza l'omicidio di Walter Tobagi rimane un "caso" ancora aperto. Un processo è in corso e riguarda aspetti primari su cui ancora si registrano zone d'ombra: le informative sui progetti terroristici contro di lui e la spontaneità o meno (e quindi pienezza) della confessione degli assassini e delle loro versioni. Anche da parte dei famigliari si prospettano nuove versioni, ipotesi, sospetti.
E' una ferita mortale che non si è rimarginata. Perché? Certamente il fatto che il processo si concluse con una sorta di "happy end" e cioè con la immediata scarcerazione degli assassini che sembravano "cantare vittoria" non fu considerato da molti un epilogo molto chiaro e convincente. Ma più in generale il "caso Tobagi" rimane aperto per una ragione di fondo che riguarda il complesso della stagione del terrorismo italiano e cioè le zone di complicità, di omertà e di corresponsabilità che sono rimaste intoccabili. Non si tratta di fare il processo al processo, ma di rendersi conto che la conclusione giudiziaria non può essere usata come arma di censura per evitare approfondimenti, verifiche e conclusioni anche diverse in ordine alle responsabilità e allo svolgimento dei fatti.
C'è stato in Italia - sull'onda del più lungo Sessantotto europeo - il più lungo e consistente terrorismo europeo (a parte i terrorismi "storici" dell'irredentismo basco e irlandese). C'è stata in Italia per anni - e in particolare a Milano - una "zona grigia" di cosiddetti "mandanti" che se gli inquirenti dell'epoca decisero di non ritenere penalmente rilevante è stata però storicamente rilevante.
Aver usato un particolare approdo processuale per ergere negli ultimi decenni un "muro di gomma" intorno a responsabilità "collaterali" ha portato a una completa deformazione dell'intera vicenda e soprattutto ad una falsificazione delle ragioni dell'omicidio. Si rischia di "ammazzare" Walter Tobagi una seconda volta e cioè cancellare la rilevanza della sua figura e del suo operato per trasformarlo in un uomo "senza qualità", morto per caso, colpito perché ricopriva una carica simbolica al vertice dell'Associazione lombarda dei Giornalisti. Si dipinge quindi Tobagi come un grigio professionista, una "brava persona", finita nel mirino per banale fatalità al posto di altri, estratto a sorte in una ampia "rosa" di giornalisti. E quindi si vuol nascondere la campagna di odio che lo mise nel mirino per cambiare le carte in tavola e sostenere che i terroristi a Milano vivevano in uno stato di isolamento e di generale condanna da parte del mondo giornalistico. E' a questo che in particolare Craxi e i socialisti hanno reagito, ma anche questa reazione va inquadrata nel suo effettivo contesto che è stato di azione non solo determinata, ma determinante di Craxi e del Psi nella lotta contro la violenza ed il terrorismo.
La lotta al terrorismo uscì dalle sabbie mobili dopo la vicenda Moro con il rientro in campo, grazie a Craxi, del generale Dalla Chiesa. La lotta al terrorismo è stata fatta dalle forze dello Stato - magistrati, carabinieri, polizia - ma aveva bisogno di avere alle spalle un quadro di stabilità politica e di fiducia, e Bettino Craxi ha creato le condizioni fondamentali in questo senso. Nel momento in cui, nel 1979, si era dissolta la maggioranza di "unità nazionale" in conseguenza del fatto che il Pci non era in grado di sostenere le scelte di politica atlantica ed europeista - euromissili Nato contro gli SS20 sovietici e adesione al Sistema monetario europeo - Craxi con l'appoggio di Pertini al Quirinale non solo svincolò il Psi dal Pci, ma offrì insieme ad una alternativa di governo l'appoggio deciso ad una rinnovata strategia antiterroristica dopo anni in cui le Br avevano operato come entità invisibili. Le Br non erano certo "manovrate", ma erano state "ben viste". Basti pensare alla tragedia Moro: le Br pensavano di avere in mano il "cuore" dello Stato e dall'altra parte, invece in Parlamento e nella maggioranza di Governo, c'era chi non vedeva l'ora che eliminassero il leader democristiano.
Il Psi ha dato fiducia e sostegno alle forze dell'ordine mentre vasto era il fronte del disimpegno e della critica nella sinistra. Ancora oggi si dipinge il Pci come il più deciso attore nella lotta al terrorismo anche dopo il passaggio all'opposizione nel 1979. Facendosi scudo dell'uccisione del sindacalista comunista Guido Rossa si celano le critiche che all'epoca, nello stesso Pci, Giorgio Amendola muoveva a Berlinguer circa la mancata contestazione da parte del Pci dell'estremismo e della violenza nelle fabbriche e nel sindacato. Certamente il Pci a parole era contro i terroristi, ma il partito di Berlinguer nei fatti si guardò bene dal difendere, ad esempio, il generale Dalla Chiesa, la concreta battaglia contro "il partito armato" nel '79 e all'inizio degli anni ‘80. Si dimentica e cancella questo dato e si dipinge invece Craxi e il Psi meno "fermi" del Pci. In verità Craxi si espose in termini ben più netti di Berlinguer andando incontro anche a contestazioni interne al partito. Ricordo il Comitato Centrale in cui Craxi venne aggredito dalla tribuna da un ex segretario del partito con l'accusa di aver commesso "la vergogna di un partito dei lavoratori per la prima volta nella sua storia schierato a fianco dei carabinieri". Ebbene sì, con Craxi, il partito socialista fu a fianco dei carabinieri e questa è una pagina di onore.
E' quindi nel quadro di questa politica di solidarietà alle forze dell'ordine e di pieno impegno nella lotta al terrorismo che si colloca la polemica che ebbe luogo al processo Tobagi in quanto sin dall'inizio - di fronte all'omicidio - il comportamento di Craxi fu di collaborazione e di fiducia nei confronti degli inquirenti. Il corto circuito si determinò successivamente e non per colpa di Craxi.
Di fronte all'assassinio e poi alla lettura del "volantino" (in realtà "un saggio di controinformazione" come lo definì il leader dell'Associazione Nazionale Magistrati, Adolfo Beria d'Argentine) in cui Walter Tobagi veniva condannato a morte in quanto "uomo di Craxi", Bettino fu intimamente sconvolto e preso da una sorta di "senso di colpa". Da qui il suo atteggiamento: da un lato verso i famigliari e dall'altro verso gli inquirenti. Il punto di partenza per cercare di mettere a fuoco i covi degli assassini fu naturalmente quel lungo e articolato testo su Tobagi, il "Corriere della sera" ed il mondo del giornalismo milanese. Del resto tutti gli amici di Tobagi si arrovellarono in quella micidiale lettura. Io sarei prudente nello sviare l'attenzione in questo caso su Gelli e la P2. Il testo è finito nelle mani del Gran Maestro perché egli seguiva nei minimi particolari la vita interna al "Corriere", ma fare insinuazioni su Franco Di Bella, direttore all'epoca del "Corriere" e iscritto alla P2, è privo di fondamento. Franco Di Bella  era un uomo profondamente e sinceramente sconvolto e addolorato davanti al cadavere di Tobagi. Aveva sperato che Tobagi lasciasse Milano proprio perché temeva per la sua vita, lo aveva spostato alla "cronaca bianca" ed infatti in quel mese di maggio Tobagi aveva scritto articoli come "inviato" sulla campagna elettorale amministrativa in corso.
Craxi nella vicenda Tobagi ha quindi seguito la via maestra, cioè tentò di fare quello che poteva fare per concorrere a individuare assassini o complici senza la minima strumentalizzazione. Di fronte al cadavere di un amico non si cerca di depistare mettendo in salvo gli assassini, ma ogni sforzo è rivolto a trovare i veri colpevoli. Craxi si mosse quindi con i piedi di piombo, con grande cautela, umiltà e rispetto verso gli inquirenti. Quando andò in via Moscova dal generale Dalla Chiesa, non fu certo per dire: "Adesso mettiamo nel mirino tutti i nemici, tutti quelli che stanno contro Tobagi e facciamo una bella caccia alle streghe". Al contrario nel colloquio si preoccupò di circoscrivere al massimo l'area sospetta. Addirittura si mise a parlare con Dalla Chiesa della punteggiatura usata nel testo dei terroristi proprio in quanto era una punteggiatura non da studente, ma un po' vecchiotta. Vi era, ad esempio, un uso dei due punti successivi al punto e virgola che evocava vezzi da Galvano Della Volpe, da testi un po' barocchi degli anni '50. E successivamente ha sempre mantenuto con il generale Dalla Chiesa un rapporto di fiducia e di collaborazione. Quando sono stati arrestati Barbone e gli altri vi fu un altro incontro, questa volta da Craxi in Piazza Duomo, ed era il generale Dalla Chiesa che disse: "Questi ci devono fare i nomi dei mandanti!". I cosiddetti "mandanti!" non era farina del sacco di Craxi e dei socialisti, ma all'epoca del protagonista delle indagini.
E' sulla base di quell'incontro che nacque quindi l'idea di stendere un questionario per verificare se erano proprio loro gli autori del volantino. Il modo nel compilarlo era, prima, di analizzare le fonti del testo di rivendicazione che si dilungava sui mutamenti anche tecnologici in campo editoriale e, poi, di chiedere il reale significato di certe frasi. Nella rivendicazione dell'omicidio erano stati usati termini ed espressioni tipiche del gergo degli "addetti ai lavori". E quindi Craxi compilò da un lato un documento che era di analisi delle fonti e dall'altro un questionario con allegate le risposte veritiere. È lì che s'è creato il "corto circuito".
La polemica è scoppiata cioè, dopo la tragica scomparsa di Dalla Chiesa, all'inizio del processo, quando gli atti dell'istruttoria divennero pubblici, e Craxi scopre che il magistrato anziché usare il questionario per verificare l'autenticità dell'autore del testo, ha consegnato a imputato e avvocato difensore le domande insieme alle risposte e lo ha interrogato con sul tavolo insieme i due testi.
Da lì è nata la incomunicabilità - che forse con Dalla Chiesa vivo non si sarebbe prodotta - che ha avuto il suo culmine con la polemica sulla informativa sulla preparazione dell'attentato, secondo Craxi, caduta nel vuoto.
Bettino Craxi si mosse per ragioni di verità e cioè - in un momento in cui ancora sfrecciava il terrorismo - per mettere a fuoco retroterra e complicità dell'attacco allo Stato.
Non si trattava di contestare singoli magistrati. Va infatti tenuto presente che all'epoca - tra indagini del 1980 e processo del 1983 - il codice di procedura penale non era quello oggi in vigore, riformato nel 1989. All'epoca non erano i pm il "dominus" delle indagini. Il "dominus" era la polizia giudiziaria, fu, nel "caso Tobagi", Dalla Chiesa. Confini e contenuto, credibilità e "premio" del cosiddetto "pentimento" erano stati in sostanza definiti dal Generale prima di approdare nel Palazzo di Giustizia. Perché Dalla Chiesa che in un primo tempo insisteva sui "mandanti", successivamente reagiva con fastidio quando Di Bella tornava sull'argomento? E' utile tener presente due cose fondamentali: la legge sui pentiti e come quell'indagine si calava nella "lotta" ai terroristi. La legislazione sui pentiti era ben diversa da quella attuale che consente, ad esempio, che il "pentito" può essere ritenuto credibile in un procedimento anche quando è stato dichiarato inattendibile in un altro processo parallelo. L'introduzione di una spregiudicata prassi contrattual-premiale di origine americana nella nostra architettura giuridica di origine romana era all'epoca del processo Tobagi, giustificata dall'emergenza, ma molto esigente: il pentimento doveva essere spontaneo e pieno, se il pentito occultava qualcosa cadeva in blocco la sua attendibilità.
Gli assassini-pentiti di Tobagi vennero usati da Dalla Chiesa per smantellare una serie di pericolosi gruppi eversivi. La polemica sul fatto, ad esempio, che il testo di rivendicazione fosse stato scritto non da Barbone, metteva in pericolo l'impianto accusatorio riguardante altri atti terroristici. L'assassinio di Tobagi era infatti finito tra oltre 800 capi di imputazione di un maxi processo con 164 imputati messo in piedi unificando 9 istruttorie separate.
Quando si fa la "lotta", l'indagine non è svolta alla Nero Wolfe in una serra di orchidee. Il generale Dalla Chiesa seguiva - giustamente - una condotta paramilitare: il suo obiettivo era individuare ed eliminare i gruppi di fuoco. Era una lotta contro il tempo e a rischio della vita: la propria, di agenti e carabinieri, di pm e giudici, di cittadini inermi. La vita umana delle forze dell'ordine era sacra per Dalla Chiesa che girava per Milano in abiti civili e senza scorta proprio perché rifiutava l'uso dei "suoi uomini" come scudo ed infatti a Palermo morì in un agguato senza scorta.
La priorità per Dalla Chiesa era quella di eliminare innanzitutto gli elementi pericolosi e non di "perdere tempo" nella cosiddetta "zona grigia" dovendo definire la rilevanza penale in modo certosino tra elementi di fiancheggiamento e consenso che erano in sostanza figure minori: vigliacchi e mascalzoni che mandavano ragazzi allo sbaraglio distruggendone il futuro, ma che non erano in grado di toccare una mosca. Il prevalere di tempi e modi paramilitari nella lotta rivolta a sconfiggere il terrorismo ovviamente significa agire secondo obiettivi e priorità che sono nell'interesse pubblico e della salvaguardia dello Stato, ma che non necessariamente coincidono con la calma e serena ricerca di una piena giustizia e verità.
E' per questo che la verità giudiziaria - soprattutto quando si colloca in un contesto di "lotta" dello Stato e per lo Stato - non esaurisce e non può identificare la verità storica. La verità storica era peraltro ben presente nello stesso Dalla Chiesa quando di fronte ai parlamentari della Commissione Moro descrisse il delitto Tobagi come delitto di stampo mafioso al fine di mettere al riparo i giornalisti fiancheggiatori delle Brigate Rosse.
In quel momento il Generale aveva già stabilito il legame "Rosso"-FCC-XXVIII marzo e il giovane autore del delitto era ormai individuato e al centro delle indagini (quindici giorni dopo l'omicidio le utenze telefoniche degli assassini erano già sotto controllo anche se si disse che quando vennero arrestati nessuno sapeva che erano gli autori del delitto). Dalla Chiesa sottolinea la natura quasi "mafiosa" dell'uccisione di Walter Tobagi. Così egli riassume l'effetto intimidatorio: "Garantire all'eversione la soggezione di un'intera classe qual'è quella dell'informazione". Infatti nei primi mesi del 1980 i giornalisti fiancheggiatori "i pochi che erano riusciti fino ad allora a rimanere mimetizzati nella massa, hanno corso il rischio di restare in evidenza". Dalla Chiesa descrive quindi la situazione tra i giornalisti con Tobagi ancora vivo: "Mi spiego meglio. Se gli organi di informazione, attraverso i loro inviati speciali, attraverso i loro corrispondenti sulle varie piazze, sostengono una determinata tesi, e cioè che finalmente lo Stato non dico che sia vincente, ma che si avvia a essere vincente, che le forze dell'ordine registrano dei successi, che questi miti cominciano a crollare, che i famosi samurai (come vennero chiamati dal povero Tobagi, e ha pagato irridendo) ecc., tutti si erano allineati su questo piano, perché così andava la ruota; a un certo momento i pochi che non la pensavano come loro, ma che dovevano adattarsi, che dovevano allinearsi e non lo potevano, sarebbero divenuti quei pochi che tutti conoscevano e che tutti indicavano". La sua conclusione è che uccidendo Tobagi i terroristi fossero riusciti a riportare al coperto i propri amici tra i giornalisti: "Il fatto del Tobagi ha riportato tutti a un livello inferiore, mimetizzando anche quei pochi che temevano di rimanere in vista".
Tobagi quindi non era un"uomo senza qualità", una "brava persona", uccisa in quanto "simbolo". Non è vero che la "categoria dei giornalisti" reagì con audacia: ci fu panico e paura come ha evidenziato Dalla Chiesa tratteggiando il quadro della "mafia" brigatista a Milano.
Tobagi è stato ammazzato come Salvatore Carnevale perché era "un uomo da bruciare". Il terrorismo a Milano era mafia, era clientela, era sistema di potere. Tobagi è stato ammazzato perché era odiato. E perché era odiato? Primo: perché aveva fatto la scissione nella corrente di sinistra dei giornalisti. Secondo: perché aveva rovesciato la maggioranza al cdr del "Corriere della sera". Terzo: perché aveva rovesciato la maggioranza nell'Associazione lombarda dei giornalisti. Si tenta di dimenticare le responsabilità di questa campagna di odio ed anche di negarne l'esistenza. Si dice: "Non si ammazza per queste cose". Ed invece la verità è che a Milano si ammazzava "per queste cose". La mattina dell'assassinio nella bacheca del "Corriere" campeggiava un "ta-ze-bao" contro di lui. Scendere in campo contro l'estremismo a Milano era non solo impopolare, ma pericoloso. Quando è stato ammazzato Tobagi, Giorgio Santerini non ha fatto a tempo a sostituirlo, ad entrare negli uffici di presidente dell'Associazione dei giornalisti lombarda, che già erano sparite le cassette con le registrazioni delle riunioni del direttivo dell'Associazione lombarda dei giornalisti, tanto per fare un esempio concreto. Perché sono state fatte scomparire? Perché qualche "coda di paglia" c'era.
La "corresponsabilità" nel delitto Tobagi, nell'averlo fatto diventare un obiettivo dei terroristi è una questione di fondo che coinvolge la stessa stesura del testo di rivendicazione a proposito del quale i sospetti maturati - indipendentemente l'uno dall'altro - erano poi convergenti in modo univoco da parte di Bettino Craxi, Franco Di Bella e Adolfo Beria d'Argentine su un determinato "sottobosco". In particolare il lavoro fatto da Beria, che era amico di Tobagi, quando divenne Procuratore generale di Milano, è fondamentale. Beria riprese il materiale di Craxi e lo approfondì mettendo a confronto le versioni date man mano dagli imputati nel corso del processo e concluse in modo perentorio che quel testo era stato scritto sicuramente da altri.
La mano impunita del "volantino" rimane la punta dell'iceberg della cultura dell'odio e della violenza che Tobagi, uomo mite, razionale e riformista aveva contrastato con coraggio e lucidità.
A trent'anni di distanza ci dovrebbero essere le condizioni per cui si possa fare più luce e comunque discutere senza un clima intimidatorio e di "coprifuoco".
Renzo Magosso è finito sotto processo. Magosso scrisse subito dopo l'arresto che si trattava degli assassini di Tobagi. Mal gliene incolse. Dire la verità rischia di essere un reato. Non si può cioè dire che a Magosso l'indicazione venne da Di Bella che l'aveva saputo - come annotò lo stesso Di Bella nel suo diario in quei giorni - dallo stesso Dalla Chiesa. Dalla Chiesa - bisogna dire - non sapeva nulla e ignorava di aver arrestato gli assassini di Tobagi. Anzi sarebbe stato sorpreso della loro spontanea confessione.
Renzo Magosso non sarebbe sicuramente finito nei guai se avesse seguito l'esempio di Romano Prodi per la vicenda Gradoli-Moro. Avrebbe dovuto dire: "Era una bella giornata, ci siamo fatti una mangiata, le donne chiacchieravano, i bambini giocavano, e io mi sono messo a fantasticare con Pillitteri e Intini, ho preso un pendolino, ho agitato il pendolino ed è venuta fuori l'apparizione che erano stati arrestati gli assassini di Tobagi".
Ecco, dopo trent'anni, si vorrebbe sapere se per accertare quel che è successo in Italia durante il terrorismo dobbiamo accontentarci della "versione del pendolino", oppure possiamo ricercare la verità.






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